Nel caos della vita moderna non c’è più tempo per fermarsi, per osservare, per pensare. Veniamo inghiottiti dalla frenesia della citta e diventiamo complici involontari di un’ indifferenza collettiva. In quest’amalgama procediamo spediti senza alzare la testa, senza fare caso ai dettagli delle cose che ci circondano, dimentichiamo in fretta le periferie e i visi che le abitano. Cè chi, in tutto questo, rimane perennemente invisibile, nonostante sia sotto gli occhi di tutti: persone che vivono ai margini delle nostre città, segregate al di fuori dei confini della nostra società. Persone dimenticate ormai da tutti, che gridano per essere ascoltate ma non hanno voce. Persone che hanno alle spalle mille e più storie, di sofferenza, di dolore, di rassegnazione, ma anche di gioia, di amori, di risate. Persone di ogni provenienza, cittadini del mondo senza diritti. A Messina, ogni venerdì, un gruppo di giovani più o meno numeroso si riunisce, accomunato dalla stessa voglia di conoscere queste persone e le loro storie, e gira la città, passando per i posti apparentemente dimenticati da tutti. Portano un panino e delle bevande, un gesto simbolico, un pensiero che si traduce in qualcosa di concreto, che significa: “Io, ogni venerdì, sarò qui ad ascoltarti”. I ragazzi e le ragazze dei Giovani per la Pace di Messina hanno preso una decisione, quella di rompere la monotonia e l’indifferenza della vita della loro città e trasformarla in un gesto concreto di supporto e di amicizia. Hanno ascoltato la storia di Leon, di Achille, di Salvatore e di tanti altri, hanno riso insieme a loro ma si sono anche fermati a riflettere, perchè hanno capito che la condizione di queste persone è ingiusta, e che c’è ancora molto da fare per portare all’attenzione di tutti un problema che, di questi tempi, è stato completamente dimenticato. Articolo scritto da Giorgio Cannetti
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Le strade dei poveri sono segnate da storie, storie nascoste, umiliate, celate dall’indifferenza, storie umili storie appassionanti, storie sorprendenti, storie di incontri che altrimenti si sarebbero perse nell’oblio. L’oblio, la mancanza di memoria segna le strade dei poveri, degli ultimi, degli emarginati, dei periferici. La memoria è un valore che disegna una società più umana, ma è anche un esercizio faticoso, un esercizio che i giovani per la pace fanno e che regalano generosamente agli altri con la testimonianza degli incontri nelle periferie. In fondo oggi anche i giovani sono periferici, schiacciati da un mondo che si mostra potente e crede di poter far subire la propria potenza ai giovani, invecchiandoci nell’abitudine al compromesso, ingannandoci con il falso idolo “dell’uomo solo di successo”, di una competitività che chiede di pensare solo a sè stessi. La memoria, il ricordare è uno strumento ancora più potente di un mondo che abbandona i suoi poveri: abbiamo appena ricordato anche su questo blog Floribert, giovane per la Pace, innamorato del Vangelo, che ha trovato la propria libertà dalla mentalità egoista della Repubblica democratica del Congo dedicandosi agli altri, fino alla fine, con coraggio, generosità, sentimenti che coltivati possono fare rinascere le nostre periferie. Ma la memoria è anche quella che esercitiamo quando ricordiamo i nomi dei bambini, i nomi dei nuovi europei (a volte davvero complicati da pronunciare bene). La memoria si fa preghiera quando ricordiamo i nomi dei nostri amici defunti, è quella che si manifesta nella sua potenza durante la preghiera per la pace, quando decliniamo in maniera precisa accompagnati dal canto del Kyrie eleison, i nomi dei paesi in guerra, in un mondo in cui hanno fatto entrare nelle abitudini l’espressione “guerre dimenticate”. Non ci si può abituare alla guerra, che Andrea Riccardi definisce “madre di tutte le povertà”; aver dimenticato le guerre dovrebbe far ricordare un altro sentimento: la vergogna. “Guerre dimenticate” è un atto d’accusa ad un mondo che si gira dall’altro lato, ad un mondo che preso dai suoi piccoli problemi ha dimenticato chi soffre e muore “altrove”. In un mondo dimentico, questo “altrove” si espande e si contrae a seconda dell’indifferenza e si dimenticano i poveri sulla strada che rischiano la vita per il freddo, i bambini che finiscono nelle mani dei violenti, i quartieri a rischio, gli anziani, simbolo della memoria sociale, che vengono abbandonati negli istituti senza che questo desti sgomento o scandalo, i migranti che muoiono a migliaia nel mare dove andiamo a villeggiare. La mancanza di memoria produce così un olocausto silenzioso, con numeri che atterriscono ma che non appassionano perché si vive in maniera auto riferita. Siamo nella settimana della giornata della memoria, e ricordare lo sterminio scientifico di milioni tra ebrei, Rom, omosessuali, disabili e dissidenti politici è necessario perché ricordando l’olocausto ci ricordiamo che anche l’uomo più evoluto scientificamente può essere scientificamente disumano, mentre l’uomo spirituale che si ferma, che riflette che si commuove, che depone un fiore, che prega e che non dimentica, è chiamato a lavorare affinché...
Dopo l’attentato di Parigi, la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Islamica di Sicilia hanno invitato la cittadinanza a riflettere sul dialogo tra Cristiani e Musulmani nella costruzione della società del convivere, a partire dalla vita comune nella città di Catania. Sono state organizzate infatti una serie di iniziative che hanno avuto luogo a partire da Venerdì 16 a Sabato 18 Gennaio 2015, che hanno compreso momenti di preghiera per la pace, una preghiera interreligiosa e, nella Domenica 18 Gennaio 2015, una giornata di giochi per i bambini, all’interno della suggestiva cornice del monastero dei Benedettini. La “tre giorni”, nata con l’intento di porre un argine ad un clima d’odio che sarebbe potuto nascere dalla lettura miope della tragica cronaca degli ultimi giorni, ha avuto il merito di riempire gli occhi dei cittadini di Catania dell’immagine emozionante della bellezza di una città dell’integrazione in cui cristiani e musulmani pregano, vivono e giocano insieme. Ci siamo riscoperti amanti appassionati della pace, costruttori pazienti di una città del convivere, necessaria per superare la difficoltà dei nostri tempi. -L’attentato di Parigi- come suggerisce Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio,- infatti è un campanello d’allarme che dimostra che le periferie sono vuote di proposte. Chi arriva con un’idea forte le conquista. Se a Parigi attecchisce il fondamentalismo, nelle periferie siciliane i ragazzi trovano la mafia. Ma non per questo pensiamo che tutti i cristiani sono mafiosi. Insieme, tutte le comunità religiose, devono contribuire a una città basata sulla convivenza pacifica-. E’ inaccettabile che ci si possa perdere in semplificazioni infauste sui musulmani, creando assiomi che fanno molto male a persone presenti in maniera assolutamente positiva nella vita della città di Catania e in particolare nel sostegno ai più poveri ed ai migranti durante la stagione degli sbarchi. I bambini musulmani sono nati in Italia, sono le seconde generazioni, si sentono italiani, frequentano le scuole italiane. Bisogna proteggerli da una demagogia indecente pronta ad additarli come “piccoli terroristi” o “figli di terroristi” creando una cultura d’insieme. La moschea è un luogo aperto a tutti dove si costruisce la pace e si aiutano i poveri, stranieri ed italiani, cristiani e musulmani. Il mondo in cui viviamo ci è solo dato in prestito ed abbiamo il dovere di consegnarlo ai più piccoli, migliore di come ce lo hanno lasciato, l’integrazione, anche attraverso il linguaggio universale del gioco, porta i più piccoli, di tutte le religioni, ad assimilare una cultura della solidarietà. In una società sempre più colorata stare insieme diventa cultura, e la cultura è un argine importante alla violenza. Allora perché non condividere insieme questa tensione per la pace ? Perchè non lanciare una proposta a tutta la dimensione cittadina per dare un’anima a quest’Europa delle semplificazioni e della fazioni. Perché non dimostrare che non solo è possibile ma che lo stiamo già facendo! La “tre giorni” ha visto il suo esordio Venerdì 16 Gennaio alle ore 14:00, nella Moschea della misericordia, dove centinaia di persone hanno pregato per la pace, orientati verso La Mecca,...
Ci sono volte in cui la follia inganna la fantasia. Te la ruba e la distrugge.E in una guerra c’é follia sì, nella sua massima espressione. La guerra é folle.Ma stasera vorrei trovare una parola che non ho, che va oltre la follia e che mi spieghi questi giorni in Nigeria. Non é follia se prendi due occhi di bambina ci guardi dentro e non ti fermano.Non ti disarmano l’ anima. Non ti fanno pensare un’ altra volta. Ma ne guardi un’ altra e un’ altra ancora. E non ti fermi. Gli frughi nelle tasche e gli rapini la vita. E riduci in macerie quell’innocenza piena di sogni ma da sempre senza speranze. Gli metti nelle tasche e sotto i vestiti il contrario di una nascita. E li rendi alba senza fine.Non può essere follia. É di certo qualcosa di più. É una storia che la ragione non si spiega. É una scena che il pensiero non si immagina. La Nigeria é lontana da qui. Dall’ America. Da una gran parte del mondo. Ma ad avere addosso le bombe erano tre bambine. E i bambini sono un’ altra cosa. Devono essere un’ altra cosa.I bambini sono quasi il contrario della guerra. Di una violenza inarrestabile. Hanno gambe fragili ma futuri immensi.Li strappano via come fiori di campo. E li fermano lì alle luci dell’ alba. La Nigeria è lontana da qui, ma certe fini pesano sul cuore di molti mondi.É un buio che pesa sul cielo di tutti.Per questo una parola probabilmente non troverò. E neanche una spiegazione per chi pensa che le bambine ci sono andate piene di coscienza. La Nigeria é lontana, ma ritorna tutte le volte che due occhi di bambina incontrano i miei.”#prayforNigeria di Francesca Sepe
No, non lo siete e non lo siamo. Non è così perché ancora, in questo come in altri Paesi, è difficile togliersi di dosso il velo d’ignoranza che tira giù tutti coloro che hanno voglia di respirare il fresco profumo di libertà, anziché quel tanfo fatto di uccisioni e censure. Non siamo tutti Charlie perché, in fin dei conti, quasi nessuno si è concentrato sul fatto che esista un altro Islam, fratelli e sorelle (e sono la maggior parte) che condannano a testa alta quanto accaduto a Parigi. Ma esiste, ed è ahimè pressante, un bel trancio di mondo che sta iniziando a giustificare azioni repressive e guerre di vendetta che porteranno altri figli di questa terra a morire per un ideale feticcio, mai giustificato e mai propugnato da alcuna religione. Religione. Quella parola che, almeno a me così hanno insegnato, viene da “religo” ovvero “lego insieme, più forte”. Non certo “divido” o “vendico” o peggio ancora “uccido liberamente”. La libertà, quella vera, è data dal coraggio di scrivere ogni giorno una storia di unione, nonostante quanto accade per dividerci; quando sarà passata l’onda della “notizia choc” che in tanti stanno cavalcando selvaggiamente, come avvoltoi che volteggiano sui corpi delle vittime di ogni strage analoga, spero solo che si possa iniziare a ricostruire un percorso di pace che sia capace di relegare in un angolo simili gesti inumani. La speranza di rinascere e di ricostruire, oggi, è la cosa più importante che dobbiamo conservare nei nostri cuori, poiché -parafrasando Gandhi- “non può stringersi una mano in segno di pace, se si tiene chiuso il pugno!”.
Da un anno ormai la sera del mercoledì è diventata speciale per i poveri senza casa di Torino: infatti i Giovani per la Pace si incontrano per preparare e distribuire la cena nelle stazioni e in altri luoghi della città.
Sono ufficialmente aperte le iscrizioni alla nuova edizione del Contest Play Music Stop Violence, Cambia il Mondo con la tua Musica 2015! Le band under 25 hanno tempo fino al 31 gennaio per comporre un inedito e inviarlo al sito http://www.playmusicstopviolence.com/it/concorso Gli artisti potranno prendere ispirazione dai temi di attualità o da eventi passati per cercare di esprimere il loro desiderio di pace, solidarietà e convivenza tra culture e generazioni diverse. I finalisti suoneranno in concerto al PALA ATLANTICO di Roma. Leggi il regolamenti e partecipa con la tua band!
Si è conclusa a Catania giorno 11 agosto la “Tre giorni senza frontiere”: la prima tre giorni di giochi, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio e dai Giovani per la Pace. Il nome della manifestazione racchiude in sé il significato profondo che i Giovani per la Pace hanno voluto dare: senza frontiere; frontiere che spesso sbarrano il passaggio ai sentimenti migliori, come l’amicizia, la simpatia tra persone e popoli diversi, la solidarietà, la voglia di stare insieme e fare del bene divertendosi. Le frontiere sono anche quelle che si pongono innanzi ai tanti poveri delle nostre città rendendole inumane, quelle che rendono difficile ai migranti arrivare nella terra promessa. Le frontiere per cui si muore di speranza. Così i Giovani della Comunità di Catania e tanti altri giovani provenienti da diverse città della Sicilia insieme agli oltre ad oltre 50 Giovani per la Pace che risiedono nel C.A.R.A. di Mineo come “special guests”, divisi in squadre hanno voluto dedicare a Catania uno spazio libero dove stare insieme, vivere la fraternità, creare una reale integrazione ed affrontare tutti insieme, come una sola grande squadra, i temi che stanno cambiando la Sicilia e i luoghi dove i Giovani per la Pace sono attivi, fra tutti l’accoglienza. Infatti dopo aver gareggiato per due intere giornate, passate, la prima al mare tra giochi con l’acqua ed il torneo di beach-volley, e la seconda, per tutta la città con una difficilissima “caccia al tesoro”, tutta la comunità di Sant’Egidio si è fermata il terzo giorno per commemorare le vittime del tragico sbarco di un anno fa, che ha visto morire sei migranti africani vicino al litorale catanese. Grazie ad una petizione dei Giovani per la Pace ed alla pronta sensibilità dell’amministrazione comunale, è stata infatti posta una targa commemorativa sopra una stele di pietra lavica che ricorda le vittime del mare e tutti coloro che hanno perso la vita nei viaggi della speranza. Una piccola pietra nella città che comunica qualcosa di grande: i giovani siciliani hanno scelto l’accoglienza. Nel dubbio tra respingere o abbracciare, hanno scelto l’abbraccio: infatti il 10 agosto 2013 i Giovani per la Pace e la Comunità tutta abbandonarono loro vacanze per andare a soccorrere chi era rimasto vivo e piangere le sei persone, i cui nomi, grazie questa targa, resteranno incisi per sempre nel cuore della città. Da quel dolore i giovani di Catania hanno reagito guardando l’orizzonte verso il mare e sapendo che ci sono fratelli da accogliere, da salvare e da integrare e non problematiche sociali da evitare. Uomini donne e bambini a cui volere gratuitamente bene. Tre giorni senza frontiere ha trovato il suo culmine durante la liturgia nella chiesa di Santa Chiara a Catania che ospita la vita della Comunità, dove erano presenti tantissimi poveri della città serviti durante l’anno. Poveri e ricchi, europei e nuovi europei, giovani e anziani hanno pregato insieme come una sola famiglia. La festa finale è stato un tripudio di gioia, di felicità piena, di sorrisi complici e di fraternità vera, tra persone che hanno voluto coniugare l’utile, interessante al divertente, per dimostrare come sia possibile costruire una società migliore. Sta nascendo in Sicilia una...
Anche quest’anno i “Jovens pela Paz” di Matola hanno organizzato un pranzo con gli anziani ospiti di un Istituto, gestito dall’Acçao Social, collocato accanto all’Ospedale Josè Macamo di Maputo. E’ stato possibile realizzare una giornata di grande festa tra giovani e anziani grazie al ricavato di una raccolta della Comunità degli anziani di Livorno. I Giovani per la Pace di Matola vanno regolarmente a visitare gli anziani dell’Istituto in un’amicizia che dura oramai da alcuni anni. Con il tempo gli anziani hanno iniziato a raccontare la storia della loro vita. In questo periodo di tensione in Mozambico i racconti si sono concentrati sul periodo della guerra che tutti ricordano come il più duro per loro. Alcuni l’hanno combattuta direttamente come Jao Rafael, sergente della Renamo, che racconta il momento di gioia all’annuncio della pace firmata a Roma. Ricorda che la guerra è stata lunga e che “c’è voluto molto tempo per arrivare alla firma degli accordi” e ringrazia la Comunità per il lavoro a favore della pace. Carlotta da giovane viveva a Tevela, nella provincia di Inhambane, dove lavorava nei campi e ricorda ancora i momenti in cui i soldati di entrambi le parti arrivavano in paese per prendere tutto quello che c’era da mangiare e i contadini erano costretti a consegnare il ricavato del loro lavoro. Lei aveva due figli piccoli e, dopo il passaggio dei soldati, non sapeva cosa dare loro da mangiare. Gli anziani sono stati felici per il pranzo e per la festa. Laura, un’anziana confusa che non ricorda quanti anni ha, ha ringraziato Edmilson dicendo “sono contenta che ci sono giovani che vengono a trovare noi anziani e sono felice per la vostra visita perché è il segno dell’amicizia tra di noi”. Durante la giornata si è svolta anche la visita della direttrice dell’Ação Social della Provincia di Maputo che ha ringraziato la Comunità per la vicinanza agli anziani dell’Istituto e ha invitato i giovani a tornare tutte le volte che lo desiderano.
Puglia, San Vito dei Normanni. A dieci chilometri da questo piccolo paesino del Salento i Giovani Per la Pace della Comunità di Sant’Egidio incontrano i rifugiati politici ospitati nell’ex villaggio turistico Green Garden. Ragazzi come tutti, ma con un passato travagliato. Vengono dalla Nigeria, dal Pakistan, dal Mali; da tutti quei paesi che, anche se meravigliosi, a causa di guerre e povertà non hanno più la possibilità di regalare un futuro sicuro ai loro giovani. Ed è in questa piccola oasi lontana dal centro abitato che i Giovani Per la Pace hanno incominciato un’amicizia con quei ragazzi che portano le ferite della guerra e del disprezzo.Questi si presentano con allegria, talvolta con il loro abito più bello, talvolta indossando semplicemente l’unico che hanno. Una volta instaurato un rapporto di confidenza e complicità con loro, alcuni profughi si sentono anche di condividere la loro tragica esperienza del viaggio della speranza verso l’Italia. Troppo spesso, quando si pensa agli immigrati, l’immagine che viene automaticamente trasmessa è quella di uomini o donne che vendono oggetti per la strada o per la spiaggia. Si evitano, si allontanano e a volte li si schernisce. Ma non si riflette mai su quello che è stato il loro viaggio, il dramma che li ha spinti a lasciare il loro paese, la loro famiglia, i loro affetti. E ancora meno si riflette su ciò che hanno dovuto passare per raggiungere l’Italia. È il caso di un giovane del Mali, Mandila, che ha voluto condividere con alcuni Giovani Per la Pace la storia del suo viaggio. “Per imbarcarmi per l’Italia ho dovuto raggiungere la Libia” spiega Mandila, “ma dal Mali alla Libia ho viaggiato in un pullman. Eravamo in trenta”. Per pullman, Mandila intende un furgoncino da undici posti massimo; e questo viaggio, da quanto racconta, è stato un inaspettato colpo di fortuna. “Molti miei amici che non hanno trovato posto sul pullman hanno dovuto viaggiare sotto i camion” dice. Poi la barca con cui lascia la Libia, l’ultima tappa del viaggio; anche lì la fortuna ha voluto assistere Mandila che, ci confida, non ha visto nessuno dei suoi compagni di viaggio perdere la vita in mare. Ma spesso i pericoli non sono nemmeno in mare. Ce lo racconta Austin, un ragazzo nigeriano di ventiquattro anni: “Il mio viaggio è durato sette mesi, di cui tre passati da prigioniero in Libia”. Contrabbandieri, trafficanti di organi, il valore della merce umana sembra oltrepassare quello della vita. Ma il timore di venire uccisi non ferma questi giovani coraggiosi; coraggiosi di sognare, pronti a costruirsi un futuro. Ce lo dimostra Austin, la cui aspirazione è quella di fare il meccanico: “Nel mio paese facevo il meccanico. Voglio continuare a farlo anche qui. È il mio lavoro, quello che so e che mi piace fare”. Ed è in questo clima di amicizia e solidarietà che i Giovani Per la Pace pregano insieme ai loro fratelli stranieri; in questo frangente cristiani, musulmani ed ebrei si ritrovano a pregare per la prima volta insieme...
Nell’atmosfera del castello Normanno Svevo, Mesagne ha ospitato il Festival della Pace, organizzato dai giovani della Comunità di Sant’Egidio; uno spettacolo all’insegna della cultura, musica e solidarietà. Ma tra le note delle varie band che si sono esibite, parte saliente della prima tappa del Festival sono state le testimonianze e le storie degli ospiti della serata. Molto interessante è stato l’intervento del professor Alessandro Distante, presidente dell’ISBEM, che ci ha comunicato la ricchezza che la comunità ha portato nel Salento. Come ha specificato il professore, la cultura del dono è un valore che i Giovani Per la Pace hanno regalato a questa terra, e che si ha la necessità di trasmettere a tutti. In particolare la serata si è svolta concentrandosi sull’importanza di un’amicizia tra giovani e anziani, una rarità che con la cultura dello scarto, promossa dalla nostra società di oggi, è andata perduta. La seconda serata del festival a Porto Cesareo ha dato la parola ai più piccoli: dopo il saggio dei bambini del gruppo SaMi e le esibizioni musicali delle band, le testimonianze di Sara, Giovane Per la Pace di Roma, e Mbaye (collegato da Catania) hanno introdotto al pubblico il meraviglioso mondo delle Scuole della Pace. Durante la terza tappa del Festival, a San Vito dei Normanni, si è parlato dei disabili; in particolare degli Amici della Comunità di Sant’Egidio, che tramite l’arte e la cucina esprimono il loro estro creativo. dopo lo spettacolo di ginnastica artistica delle bambine e ragazze della Maran Sport e l’esibizione della cantante Carola, Vito, Antonello e Michele ci hanno parlato dell’amicizia dei Giovani per la Pace con i poveri di Lecce, e della loro forte identità pugliese. L’esibizione finale del nostro amico Hunza, conosciuto durante la prima edizione del Festival, è riuscito a coinvolgere con grande entusiasmo i nostri amici africani, sbarcati il giorno stesso sulle coste pugliesi, che hanno ballato insieme a noi animando la festa. Oggi pomeriggio, con la festa degli aquiloni, con i ragazzi africani ospiti del Green Garden, inizierà l’ultima tappa del festival a Torre Santa Sabina. Il tema della serata sarà proprio quello del legame che unisce il continente africani con la Comunità di Sant’Egidio e attraverso le testimonianze di alcuni Giovani per la Pace, ripercorreremo i viaggi in Africa, che hanno rafforzato questa profonda amicizia. Giovani per la Pace di Roma e della Puglia
“Oggi sono contento che sei venuta!”. Mi accoglie così Modou. Le parole più belle del mondo, dette da un ragazzo alla festa di fine Ramadan che i Giovani per la Pace di Messina hanno organizzato per i minori, ospiti dell’istituto Spirito Santo. Abbiamo portato cibo, bibite, musica e tanta compagnia. Noi arriviamo, chi in macchina chi a piedi. Eccoli lì, sul muretto: loro ci aspettano, come sempre. Sono 14 ragazzi, con le loro storie, il loro passato. In Gambia, in Mali, hanno lasciato mamma e papà oltre che gli orrori della guerra, della miseria e della fame; qui in Italia sono arrivati denutriti, tristi, malati, e noi Giovani per la Pace di Messina eravamo lì ad accoglierli all’ospedale e alleviare quello che i medici non posso curare: la solitudine e i ricordi terribili del loro “viaggio della speranza”. Dopo due mesi, stanno bene e sorridono, sorridono tanto. “Lussia, Ramadan finito!!” mi dice Bakari. Sono contenti e sorridenti, mettiamo la musica ad alto volume, il cibo sul tavolo grande al centro, si inizia a chiacchierare. Ibrahima prende la macchina fotografica e si finge fotografo, chiedendoci di metterci in posa; qualcuno balla ma soprattutto si ride e si parla tanto, accentando anche le prese in giro sul nostro inglese inadeguato. E così mi viene in mente che quando si invitano gli amici a casa, è così che si fa, no? Posso dire che all’ inizio è stata Accoglienza, ma adesso è Amicizia, e per gli amici si fa qualunque cosa. Lucia Florio , Giovani Per La Pace
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