A partire da inizio settembre a Milano hanno iniziato ad arrivare consistenti gruppi di profughi in fuga dal conflitto che infuria attualmente in Siria. Milano, tuttavia, non sembrava essere la destinazione finale, ma solo una città di passaggio per raggiungere la vera meta: l’ Europa del Nord. Poiché le autorità inizialmente non si erano accorte dell’urgenza della situazione e non avevano adottato alcuna misura, gruppi di giovani con la Comunità di Sant’Egidio si sono recati in stazione centrale. L’allarme era arrivato dall’associazione dei “Giovani Musulmani”, ragazzi e ragazze di seconda generazione che già da settembre incontravano i profughi in stazione e li proteggevano da coloro che tentavano di approfittarsi della loro disperazione. Le famiglie dormivano per terra sui mezzanini della stazione e il loro bisogno di partire li portava persino a risparmiare sul cibo. Studenti del liceo classico Carducci venuti a conoscenza della grave situazione, si sono mobilitati per prestare aiuto, alcuni raccogliendo coperte e vestiti pesanti a scuola durante il giorno, altri di sera recandosi in stazione per distribuire beni di prima necessità, e ascoltare le loro storie! Dopo alcune settimane il comune ha allestito per i profughi centri di accoglienza dove possono soggiornare prima di ripartire. Noi siamo andati due domeniche di seguito a trovarli per capire meglio che cosa avevano passato in Siria e per farli sentire un po’ meno soli e dimenticati in un paese straniero. Ci ha molto colpito la storia di Alì, un giovane siro-palestinese di 17 anni, scappato da Damasco. Ci ha raccontato che nella capitale il suo quartiere era stato assediato, la sua scuola bombardata ed era impossibile viverci. Tuttavia, come tutti, Alì non avrebbe mai voluto lasciare il suo paese, ma si è trovato costretto a causa della situazione. Molti, come lui, sono doppiamente profughi: scappano, infatti, dai campi profughi palestinesi sorti in Siria dal 1948. Noi ci auguriamo che Alì e tutti gli altri profughi riescano a raggiungere la meta che desiderano senza correre il rischio di essere bloccati alle frontiere!
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“Sono italiano! Sono africano! E, come vedete, sono nero! E sono fiero di essere quello che sono. Ma soprattutto sono un essere umano!” Cosi apre la sua testimonianza Maurice, ventiseienne della Costa d’Avorio, sopravvissuto alla traversata del deserto del Sahara, ad un naufragio e giunto a Lampedusa; sorte fortunata, o oseremmo dire, benedetta , rispetto ai tanti immigrati che purtroppo in questi giorni ci hanno lasciato. Con queste parole sincere e coraggiose si apre il secondo appuntamento di “Parole di uomini, Parola di Dio”, organizzato dalla comunità di Sant’Egidio, che ogni mese si incontra per discutere sul valore di alcuni temi secondo le scritture e la nostra esistenza da uomini. Oggi vedremo come alla parola ODIO/INIMICIZIA si possa rispondere “ Facendo il bene” e “Riconoscendoci tutti fratelli, perché figli di uno stesso padre”. “Noi stranieri dobbiamo ringraziare l’Italia perché ci ha accolti” – ribadisce Maurice, ricordando quei 3 lunghi giorni di interminabile cammino nel deserto, mentre era costretto a lasciare sulla sabbia, stremati, tanti compagni di viaggio – “Molti non ce la fanno. Durante il viaggio vedi ai tuoi lati corpi umani, ma non puoi fermarti, devi andare avanti se vuoi sopravvivere”. Racconta ancora di come, dopo 2000 km, si sia visto proporre per la grande traversata una piccola barchetta trasandata di circa 250 posti, mentre lui e i suoi compagni di viaggio, erano più del doppio: “Quando arrivi lì devi per forza salire! Sono armati!”. Conclude sobriamente e umilmente il suo “esodo” raccontando dell’arrivo a Lampedusa e della felice accoglienza che ha ricevuto dalla Caritas di Frosinone.“Dio mi ha fatto conoscere molte persone buone!” – cosi risponde ai tanti amici che gli domandano come faccia a vivere con delle persone che “lo insultano, lo picchiano, lo discriminano” (gli italiani). “Mi piace l’Italia perché non posso lamentarmi! Però è ancora dietro al razzismo!” – Inizia, allora, un accorato appello ai tanti universitari operanti nella comunità presenti in aula, perché è dai giovani che le cose devono cambiare – “Non sono sporco, sono nero! Sono una creatura di Dio! Se dici cosi allora anche Dio deve essere sporco!” – “Tu credi in Dio? E non ami suo figlio perché è nero?” – “Se io vi dessi per un solo giorno la mia pelle, non ve lo scordereste mai per quello che vivreste!”.La sua testimonianza è sincera, umile e si estende anche al tema dell’interculturalità e all’apertura alle altre culture, viste come ricchezza: “Dovete togliervi dalla testa che siete superiori ai neri e che gli altri non possono insegnarvi niente!” – afferma con rammarico, lui che ora è allenatore di calcio ai bambini di Strangolagalli, la cittadina in cui ora vive felicemente. “Dovete approfittare delle altre culture; solo cosi potete accrescere le vostre conoscenze” – “Rispetto e un po’ di affetto! Solo questo chiediamo noi stranieri! Devi dirci che tu sarai la nostra famiglia!”.La sua è una fede forte, e ce lo dimostra rispondendo al tema ODIO, con la parola PERDONO: “Ho imparato a perdonare, ho imparato a pregare, ma non imparerò mai a fare finta di essere ciò...
Oggi parleremo di un argomento che a noi Giovani per la Pace sta a cuore perché alcuni di noi sono stati in Mozambico, perché ventuno anni fa la pace è stata raggiunta grazie all’impegno della Comunità, perché in Mozambico ci sono circa 100 comunità tra città e realtà locali, perché l’amicizia con questo paese è nata proprio sul tema della pace e ci ha aperto il cuore sull’Africa. Parlo di Mozambico, però, perché sono preoccupata. La Frelimo e la Renamo si sono combattute per quasi vent’anni in una sanguinosa guerra civile, finché la Comunità di Sant’Egidio, non ha deciso di porsi come mediatore, riuscendo a raggiungere dopo 2 anni di trattative la pace. A seguito dei Trattati di Roma (4.10.1992), l’esercito è stato unificato e in Mozambico si sono tenute elezioni libere e democratiche, che hanno portato al potere la Frelimo, mentre la Renamo riusciva a ottenere delle vittorie politiche locali (soprattutto nel nord del paese). La democrazia ha permesso che il Mozambico divenisse uno dei paesi più ricchi ed emergenti dell’Africa, meta di turisti, ma anche di tanti profughi che fuggono dalle guerre e dalla povertà. Dai giornali ho appreso che il 21 ottobre l’esercito ha attaccato la base della Renamo a Gorongosa, dove il capo del partito, Afonso Dhlakama, era rifugiato da circa un anno e da cui è fuggito verso un luogo ignoto. Sta bene, secondo le dichiarazioni di alcuni giornalisti del giornale mozambicano O Paìs, che l’hanno incontrato, così come sta bene la popolazione, fuggita prima dei bombardamenti. Ho quindi letto su diverse testate che Afonso Dhlakama non riconosceva più i trattati di Roma, per poi leggerne l’esatto contrario circa quattro giorni dopo (il 25 ottobre). Ho pensato, allora, di parlare con qualcuno che è continuamente in contatto con il Mozambico e i Mozambicani, per avere un’immagine più chiara della situazione; pertanto, ho intervistato la professoressa Chiara Turrini, responsabile della Comunità di Sant’Egidio in Mozambico. Redattore: Dai giornali italiani abbiamo letto dell’attacco del governo alla base della Renamo, ma è scoppiata così improvvisamente la tensione o c’erano già dei presupposti? Chiara Turrini: Sì, dei presupposti c’erano già perché la Renamo ha chiesto di cambiare la legge elettorale in vista delle elezioni municipali che ci saranno e il 20 novembre e le nazionali che ci saranno il prossimo anno e purtroppo non hanno trovato un accordo sulla riforma della legge elettorale. Si erano create da alcuni mesi due delegazioni, una del governo e una della Renamo, per provare a fare un tavolo di dialogo ma purtroppo non è stato trovato l’accordo, fino a che sono cominciati… Degli incidenti c’erano già stati dopo Pasqua di quest’anno nell’ultimo tratto di autostrada, che è la strada principale che collega il Nord con il Sud, vicino a Beira. R: Quali potrebbero essere le cause delle tensioni? Sono semplicemente politiche o c’entrano anche i giacimenti di gas recentemente scoperti? CT: In Mozambico hanno trovato molte ricchezze naturali negli ultimi anni, il carbone, il gas… Io penso che sì, ha a che...
Manca poco meno di una settimana all’inizio della ventisettesima edizione degli incontri Internazionali per la Pace nello spirito di Assisi, voluti per la prima volta dal Beato Giovanni Paolo II, che dal 1986 si svolgono ogni anno in una città diversa. L’edizione di quest’anno, dal titolo “Il coraggio della speranza: religioni e culture in dialogo”, si svolgerà dal 29 settembre al 1 ottobre, e vedrà coinvolti, come sempre, centinaia di leader di tutte le religioni e personalità del mondo della cultura e della politica, provenienti da più di 60 Paesi. Consulta il programma in PDF Ci aspettano tre giorni intensi di amicizia, condivisione, dialogo e preghiera, nel rispetto della più genuina accezione di COMUNITÀ, come testimoniato da queste tre bellissime e-mail che ci hanno inviato i ragazzi del gruppo dei Giovani per la pace di Bari, di San Vito dei Normanni (Br) e della Sicilia: “La preghiera per la pace per noi “Giovani per la pace di Bari” rappresenterà un momento fondamentale per il nostro percorso. Dopo un anno difficile per la nostra città e per la nostra comunità che nel contesto cittadino ci vive, la preghiera per la pace vorremmo che rappresenti un punto di ripartenza. Un’esperienza da cui trarre spunto ed energia positiva, per poter affrontare un altro anno nel miglior modo possibile. I giorni che ci apprestiamo a vivere siamo certi che in questo senso ci daranno ottime risposte. Risposte all’insegna dell’amicizia, del dialogo e della cultura del convivere con gli altri e per gli atri. Bari è una città che ha bisogno di tutto ciò e noi nel nostro piccolo vorremmo accogliere questa esigenza come una grande opportunità. Un’opportunità che nasce proprio dall’incontro della prossima settimana. Innanzitutto siamo certi di trovare un clima di grande amicizia, che ci conforta e ci rende felici. Un’amicizia incondizionata che ci darà la forza e la gioia per ripartire. Poi ci sono i Panel, un’esperienza di grande profilo culturale da cui trarre spunto per importanti riflessioni. Ci viene in mente il discorso interculturale a noi tanto caro in virtù del nostro impegno con gli stranieri che cerchiamo di accogliere nella nostra città. O ancora quello relativo alla povertà fulcro essenziale dell’esperienza comunitaria. E soprattutto la preghiera e la fede in Dio che sorreggono come salde fondamenta il nostro cammino in Comunità. Nella prossima Preghiera per la pace insomma noi riponiamo immensa fiducia ed importanti aspettative. Siamo certi altresì che tutto ciò non verrà disatteso perché il nostro volere è quello dell’intera Comunità di S.Egidio di cui noi cerchiamo soltanto di essere umili interpreti. “ Angelo – Maddalena – Marika “Ci presentiamo, siamo Marinunzia, Adele, Cinzia, Emanuela, Annarita, Lucia, Maria Teresa, Maddalena, Mariangela, Angela, Angelo. Facciamo parte dei Giovani per la Pace, Puglia . Purtroppo, però, grazie a un tragico evento abbiamo avuto la fortuna di conoscere un mondo completamente diverso dalla nostra realtà. Una vecchia realtà, costruita su basi fragili che ci rendevano partecipi di una vita monotona. Grazie ai Giovani
Gli antichi Romani credevano che nel nome assegnato ad una persona fosse indicato il suo destino. La famosa locuzione latina “nomen omen” tradotta letteralmente, può significare: “il nome è un presagio”, “un nome un destino”, “il destino nel nome”, “di nome e di fatto”. Le ragioni per cui un papa sceglie un determinato nome sono tantissime e diverse tra loro. I papi moderni nella scelta del nome vogliono un po’ come “sintetizzare” il programma del proprio pontificato. Ecco come il Card. Bergoglio, una volta diventato papa, ricostruisce la scelta del suo nome pontificale. Quando nel Conclave si stava ultimando lo spoglio dei voti ed egli si stava rendendo conto di essere diventato Papa, alcuni pensieri presero corpo nella sua mente: “Non dimenticarti dei poveri!. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. L’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il Creato, in questo momento in cui noi abbiamo con il Creato una relazione non tanto buona, no? E’ l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero… Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Papa Francesco, il primo pontefice della storia a essersi chiamato così. In questo nome la sintesi del suo programma: i poveri, la pace, l’amore per il Creato; e poi… Una Chiesa povera per i poveri. E’ questa la sintesi della vicenda umana di Francesco d’Assisi, un ragazzo come tutti, figlio del suo tempo, che però ha saputo dare una svolta radicale alla sua vita, ha raccolto la sfida di provare a vivere il Vangelo “alla lettera” (così some era scritto), operando nei fatti quel cambiamento personale capace di “trasformare la storia”. C’è una famosa frase di Gandhi: “Sii tu stesso il cambiamento che vorresti vedere nel mondo”. Questa frase esprime bene il senso della vita di Francesco d’Assisi. Una vita eccezionale ma, allo stesso tempo “accessibile a tutti”, nel senso che ognuno può trarre ispirazione, replicandola nella propria epoca e nella propria condizione. La vita di Francesco d’Assisi è ricca di segni. Di seguito ne riportiamo tre. Francesco vince il suo terrore per i poveri baciando un lebbroso. Dei lebbrosi (che erano i più poveri tra i poveri) si provava un senso di schifo e ribrezzo; al tempo di Francesco d’Assisi ce ne erano molti e quando passavano tutti fuggivano. Francesco combatte il disprezzo per i poveri innanzitutto iniziando da sé, vincendo il senso di schifo che come tutti lo prendeva. Non solo non fugge, non solo si avvicina, ma lo abbraccia e lo bacia. Cade un muro, inizia una rivoluzione. Il mondo cambia. Francesco va fino in Egitto per dialogare con il Sultano, il capo dei mussulmani. Era il tempo delle Crociate. L’islam era il nemico, il male, il pericolo da...
Riceviamo e pubblichiamo la lettera e le foto di Lucia Florio, una Giovane per la Pace di Messina, sulla beatificazione di Padre Pino Puglisi dopo la cerimonia del 25 Maggio scorso. “Ciao a tutti! Sono Lucia, Giovane per la Pace di Messina. Vi voglio raccontare un sogno: è il sogno di tutti noi ragazzi che facciamo scuola della pace nei ‘quartieri’. Ogni settimana aiutiamo i nostri bambini a fare i compiti, regaliamo qualche sorriso e un pò di serenità… Ecco, questo è anche il sogno di Padre Pino Puglisi, “uno di noi”. Lui nel quartiere di Brancaccio a Palermo toglieva i ragazzi non solo dalla strada, ma li rubava alla mafia, e come sappiamo è stato ammazzato per questo. Il 25 Maggio è stato il suo e il nostro giorno, il giorno della rivincita. La Beatificazione di 3P (dalle iniziali del suo nome) è stat una festa non solo per Brancaccio e Palermo, ma per tutti noi che lottiamo giorno dopo giorno, per le nostre scuole della pace in tutto il mondo. Una delle frasi che Puglisi diceva era: “E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto…”. Essere lì quel giorno con gli altri giovani per la pace, andare nel suo quartiere e sotto casa sua (dove gli hanno sparato), mi ha fatto capire davvero il significato di questa frase: ‘insieme si è più forti e l’amore è l’arma giusta per vincere!'” La Redazione
Alla casa della Comunità di Sant’Egidio a Tor Bella Monaca, periferia est di Roma, si è fatto un viaggio nel continente degli anziani; nel continente occidentale, in cui il progresso tecnologico ha allungato i tempi della vita. Anni in più che rischiano di esser svuotati di senso, se vissuti nella solitudine, alla periferia della vita, in cui ci si sente inutili. Con parole umane, dal tono letterario-scientifico a quello del racconto di vita, il libro La forza degli anni (maggio 2013), della collana I libri di Sant’Egidio, dona a giovani e famiglie lezioni di vecchiaia. Un libro che può cogliere le diverse sfumature di questa nuova stagione della vita; è scritto a più mani ed è il risultato di quarant’anni di alleanza con gli anziani. Nel pomeriggio del primo giugno, alla casa di Tor Bella Monaca, sempre più voci hanno indagato il segreto di quegli anni che, per mezzo dell’amicizia, possono rinnovarsi di novità e di fede, impreviste. Moderatrice dell’incontro Paola Cottatellucci, autrice del contributo “L’anziano, la famiglia e altre relazioni”. Ha fatto risuonare le parole di Maria, ultracentenaria: ‘I vecchi senza amore, muoiono’. Il viaggio nel continente anziano è iniziato attraverso le parole di don Francesco Tedeschi, Professore alla Pontificia Università Urbaniana, per il quale il dono di questo libro consiste nel ‘liberarci dalla paura con la coscienza di una forza che può far rinascere e guarire la nostra società, a partire dal legame tra anziani e giovani’. Legami in una famiglia senza confini, come la Chiesa di tutte le generazioni, della gratuità e dell’amore. Dopodiché, Laura Spazzacampagna, assistente sociale al municipio VII (ex X), nonché appassionata di antropologia, ha dato delle immagini della cultura del rispetto nei confronti dell’anziano in altre società: la vecchiaia, intesa come processo continuo e ininterrotto dalla nascita, ci avvicina a un patrimonio di sapienza, ereditato dagli avi. Ha in seguito rilevato le criticità dell’assistenza istituzionale agli anziani e di come questa possa essere rinvigorita dallo spirito e dalla creatività della Comunità. Segue l’intervento del Prof. Leonardo Palombi (Tor Vergata), attivo nel programma DREAM. Attraverso la lettura di alcune storie tratte dal libro, ha mostrato come ‘La forza degli anni’ capovolga la prospettiva di alcuni problemi. Dalla questione del burn-out degli operatori, ossia del logoramento di chi per mestiere si approccia ogni giorno alla sofferenza, alla questione del cuore, della domanda personale, da cui scoprire la potenza terapeutica, guaritrice, bilaterale dell’amicizia che ravviva una scintilla di umanità mai spenta del tutto. Prende, dunque, la parola il dirigente scolastico Fabio Cannatà (liceo Amaldi). In qualità di operatore della scuola, ha sottolineato come la mancanza di scolarizzazione minacci l’autosufficienza e di come la scuola, in diverse vesti, possa rappresentare un ponte tra giovani e anziani, tra scuola e territorio. Pertanto ha lanciato ai giovani l’idea di fare un corso di uso del computer per gli anziani. Non tanto per il c.d. digital divide, quanto per dare occasione ai giovani di dialogare con gli anziani. Si forma così un rapporto non facilmente definibile secondo i soliti schemi. Chi...
“Mamma, oggi vado in biblioteca a studiare”. “Ma sei sicuro?”, dice la madre con gli occhi lucidi. “Sì, la fine dell’anno è alle porte. Il dovere mi chiama”. Luigi, sì, il nostro protagonista si chiama Luigi, raggiunge la biblioteca. Nel bus strapieno al nostro studente è difficile nascondere il leggero e pratico pranzo preparato dalla madre: una teglia di peperoni gratinati. Macchiandosi di sudore (altrui) per via del poco spazio, Luigi pensa al capitolo di fisica sui fluidi e si chiede come sia possibile che l’acqua non sia comprimibile quando il corpo umano ne contiene almeno il 70%. Si rassegna all’idea che quella compressione gli provocherà come minimo la perdita di qualche arto. Giunge finalmente in biblioteca. Un solo armadietto libero. Serve una moneta da un euro per attivare il meccanismo che permette di estrarre la chiave per chiudere l’armadietto. Quel congegno è sicuramente opera del male. Rovista, rovista nelle tasche e non trova la moneta. Neanche a dirlo, nessuno può ‘spicciargli’ la banconota da cinque. Luigi corre all’edicola, si compra un giornale a caso e finalmente ha la moneta! Occupa l’armadietto. Poggia i libri sul tavolo e inizia a studiare fisica. Non basta la voce gracchiante della prof. e l’immagine del suo prominente neo peloso che l’accompagna sempre quando studia fisica; la biblioteca è un concerto di rumori. Cosa non si fa per sfuggire dall’insidia di facebook e trovarsi un posto ‘neutro’ con poche distrazioni, e quei tanto cinematografici rumori di sottofondo che stimolano la concentrazione. Neanche per sogno: stavolta i colleghi topi di biblioteca vogliono vincere la gara in rumorismo. Uno starnuto da una parte – con tutto il timore che un getto provetto impiastri tutto il libro di matematica, incollando le pagine – una pernacchia dall’altra e alla fine arriva lei, sì, proprio lei, la diva della biblioteca. Ce n’è sempre una che cattura lo sguardo sognante di tutti. Ha un piccolo problema: i tacchi. E il pavimento della biblioteca si presta bene ad amplificarne il suono. Immancabile l’amica (brutta, ma con i tacchi), che l’accompagna. Ovviamente quel giorno non vogliono studiare, ma cercare un libro da una parte all’altra. Sembra un rodeo, anzi un maneggio, in cui i cavalli vanno al galoppo. To tlòc, to tlòc, to tlòc. In effetti la mascella dell’amica è molto sporgente. “Diamine!”, pensa Luigi che voleva studiare. Ma arriva anche il momento perfetto, tranquillo, in cui pensi di poter studiare tutto il capitolo e… passa il bibliotecario per dire: “Tra quindici minuti la biblioteca chiude”. A voi è mai capitato di voler studiare e di trovarvi nel posto più rumoroso del pianeta? I. A.
Il sangue è un tessuto come la pelle. Come nessuno oggi, reputandosi onesto, discriminerebbe un uomo dal colore della pelle, così un cittadino non dovrebbe più esprimersi con questa categoria superata: il diritto del sangue. Hai sangue italiano? Sei italiano. Anche se alle ultime analisi del sangue, quando ho chiesto al medico di controllare se il mio sangue fosse italiano – riconoscibile dal tipico rosso con sfumature bianco-verdi – ha strabuzzato gli occhi. Un po’ di storia: è il 1912, l’Italia sognava di conquistare la Libia, e il Parlamento del Regno approvava una legge sulla cittadinanza: ha cittadinanza italiana chi nasce da padre italiano, non importa dove; non la ha chi nasce da genitori stranieri in Italia, almeno che il neonato non abbia la fortuna di essere di padre ignoto o apolide o, se per qualche motivo, non possa seguire la cittadinanza del padre. Nel frattempo in Italia sorge la Repubblica (1946), entra in vigore la Costituzione (1948), eppure la legge sulla cittadinanza è affrontata di nuovo come materia organica solo ottanta anni dopo, nel 1992. Qualche assurdità1 era già stata corretta, tuttavia la legge del 1992 ribadisce il diritto del sangue (ius sanguinis, in latino) contro il diritto del suolo (ius soli), ammesso solo in pochi casi fortunati – come si diceva prima, genitori ignoti o apolidi2 e quindi conta il suolo sul quale sei nato. Alcuni contesteranno l’uso poco metaforico qui fatto della parola ‘sangue’. Il legislatore per ‘sangue’ intendeva quella trasmissione di principi e valori italiani che solo genitori italiani possono offrire! Non intendeva certo il liquido che ci scorre nelle vene! Il sangue è una metafora della cultura. E questa è una gran baggianata storica. Quando la cittadinanza veniva concessa al popolo italiano, il popolo italiano non esisteva. Pochi avevano ricevuto un’istruzione, pochi sapevano parlare o almeno comprendere quella lingua ‘calata dall’alto’, l’italiano. Una vera lingua comune, un “italiano standard”, si forma a partire dagli anni Cinquanta, anche grazie alla diffusione della televisione (si legga quest’interessante articolo). Insomma, guardando alla storia ci si accorge che la categoria (politica) della cittadinanza è sempre servita a unire, a costruire un popolo, e non banalmente a ribadire legami già esistenti. Si pensi alla cittadinanza dell’Unione Europea e a quegli ‘invisibili’ benefici che se ne traggono. Non è un caso che i Paesi delle primavere arabe abbiano posto al centro del dibattito la questione della cittadinanza, per costruire democrazie più forti. La cittadinanza è uno strumento della coesione. È espansiva per sua natura, perché deve allargare i suoi confini quando si trasforma in privilegio, da diritto che fu. I Giovani per la Pace sostengono dal 2010 la campagna per il diritto alla cittadinanza ‘Made in Italy’ per affermare un diritto della cultura: chi cresce e studia in Italia è italiano! La lunghezza del post mi invita a concludere: seguirà un articolo a breve sul dibattito di questi giorni in Italia sul tema della cittadinanza. A. —— 1. come la disuguaglianza giuridica e morale tra i coniugi: si noti che per...
La potenza delle immagini degli spari davanti Palazzo Chigi ha penetrato gli schermi delle TV, squarciato gli amplificatori delle radio, bucato le pagine dei quotidiani, insomma: ha travolto ogni mezzo di comunicazione. Sono immagini tristi, preoccupanti e cariche di simboli, indefiniti e pericolosamente interpretabili, che tuonano nel furore di queste rocambolesche giornate e in un gande periodo di crisi umana e economica. In tutto questo torna attuale un tema molto caro ai Giovani per la Pace, il tema della violenza. Sì, perché dopo i fatti di Palazzo Chigi, dopo una domenica che vedeva all’inizio cammino costituzionale il nuovo gioverno, la violenza è tornata a far paura, è tornata a dar traccia di se ma soprattutto e tornata a porci una domanda: cambiare senza violenza è ancora possibile ? Ha ancora senso parlare della necessità di una cultura della non-violenza ? Tutte domande che i Giovani per la Pace da tempo si pongono e pongono all’interno delle scuole, delle università e attorno alle quali spesso hanno invitato a ragionare. Il tema della violenza non è mai uscito fuori di scena, anzi si è rivelato assai presente e ha preso le somiglianze di un uomo disperato, con una crisi familiare alle spalle – legata al gioco di azzardo – e al dramma di arrivare alla fine del mese: elementi che ognuno di noi riscontra quotidianamente nell’amicizia con tanti uomini e tante donne in difficoltà. Potremmo dire, addirittura, che l’uomo di ieri poteva essere uno dei nostri tanti amici che spesso bussa alle nostre porte chiedendoci un aiuto. Il rumore degli spari ci fa riflettere e ci aiuta comprendere come quel “NO ad ogni violenza”, un concetto ribadito sempre con forza dai Giovani per la Pace, non è affatto fuori dalla storia e dal tempo che stiamo attraversando. La cultura della non-violenza, l’obbiettivo di cambiare tutto ma senza violenza, dunque, non è solo un’idea bella o qualcosa di condivisibile ma qualcosa di necessario. Diffondere la cultura della non-violenza vuol dire essere un argine a quel disagio sociale, a quella rabbia per giorni sempre più duri e faticosi che si avvertono camminando nelle strade dei quartieri, nelle piazze e nelle vie. La disperazione della gente – della gente per bene che ha speso una vita lavorando onestamente e che ha attraversato un mare di sacrifici – diventa qualcosa con cui fare i conti, diventa qualcosa da capire e a cui dare risposte credibili ma soprattutto umane. Urge il tempo di ripensarsi e di ritrovare all’interno delle città, attraverso un confronto serio e costruttivo, nuove risposte capaci di essere inclusive e di costruire alleanze per tutti. Colmare presto il divario tra chi ha e chi non ha, costruire alleanze a sostegno di chi è in difficoltà e costruire spazi di dialogo, di ascolto è il modo concreto con cui iniziare a contribuire ad un percorso di rinnovamento, in tempi di contrapposizione e rabbia. Mbaye Gueye
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