Inequivocabile la sua immagine. Il basco e sopratutto il sigaro in bocca erano la sintesi di uno stile di vita indipendente, anticonformista legato ai piaceri terreni. Questo era Don Gallo, uomo semplice che era riuscito a far collimare la sfera spirituale con quella terrena così perfettamente, a comprendere che la forza della vita risiede nella collettività, nell’ ascolto, nell’ amore verso il prossimo. Don Gallo nasce a Genova nel 1928. L’ascesa nel mondo ecclesiastico, inziata all’età di 20 anni, non produsse gli effetti sperati in termini di carriera a causa della sua indole estremamente rivoluzionaria verso una Chiesa che non condivideva i suoi ideali. Fu accusato di non essere un prete ma un politico, che i suoi contenuti non erano cristiani ma comunisti. Eppure coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo, affermarono che si era mostrato non solo un prete straordinario ma una fratello, un amico, un confidente, come colui che ti apre le braccia e che mai ti giudica. Ovunque passava ti lasciava un segno indelebile, riusciva a mostrare le tue debolezze e a porti domande che toccavano le aree più nascoste dell’ anima. Prete di prima linea, si era distinto nelle lotte per il lavoro, nel diritto di cittadinanza agli stranieri, nella difesa degli ultimi. La sua era un Chiesa che includeva, che accoglieva persone dalle vite più disparate: barboni, tossici, gay, trans, lesbiche. Per Don Gallo queste erano creature di Dio e in quanto tali dovevano essere accolte dalla comunità cristiana e non emarginate e ripudiate. Si cadrebbe in errore se la figura di Don Gallo venisse ricordata unicamente per il colore del partito a cui aderiva. Ex-partigiano, non hai mai nascosto la propria fede nel socialismo, espressione dell’ amore collettivo verso un mondo libero dalle diseguaglianze sociali. Don Gallo lo vogliamo ricordare per quello che veramente era: un esempio di amore, etica e libertà per le nuove generazioni. La sua corsa non è volta al termine perchè il testimone è ora nelle nostre mani e a noi spetta l’ arduo di compito di ripercorrere la sua strada. Grazie Don Gallo Fabio Lazzari
Categoria: Attualità
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Peace Collective, Ballo Della PaceBRANO VINCITORE DEL PRIMO PREMIO “CATEGORIA AUTORI” Leggi il testo su Play Music Stop Violence
Negli ultimi anni si è sentito molto parlare della possibilità di sostituire i libri di testo con una più economica e soprattutto “pratica” versione digitale degli stessi. http://www.camera.it/parlam/leggi/08133l.htm (Legge 133/08, si veda l’Art. 15 “Costo dei libri scolastici” ) http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/normativa/legge_17_dicembre_2012n221.pdf ( Legge 221/12, si veda l’Art. 11 “Libri e centri scolastici digitali”, pagg. 84-85) La tecnologia c’è: dai tablet ai computer domestici è possibile già da molto tempo leggere una moltitudine di testi di ogni genere. In alcune scuole è stato avviato un progetto che prevede l’assegnazione di un tablet ad ogni alunno, e l’adozione di soli libri in formato digitale. Il tema è tutt’ora “caldo” e ha interessato alcuni dei più autorevoli siti di tecnologia, istruzione, famiglia, ecc. Una breve selezione di alcuni siti, da cui ricavare informazioni utili su pregi e difetti del binomio istruzione-tablet: http://www.solotablet.it/blog/a-scuola-col-tablet (contenente moltissimi articoli sull’argomento) http://www.figliefamiglia.it/2012/09/lebook-entra-in-classe-pro-e-contro-del-libro-digitale/ (contenente altri articoli sull’argomento nella sezione “articoli simili”) http://www.pcprofessionale.it/2013/04/05/tablet-school-una-scuola-a-misura-dellera-digitale/ (articolo dell’autorevole rivista “PCprofessionale”) http://scuolachefarete.it/2012/10/ipad-in-classe-pro-e-contro-di-una-rivoluzione-multimediale/ (articolo della “community dei docenti” e risposta della Sig.ra Clara, mamma di tre studenti, molto preoccupata dall’uso-abuso del tablet) http://www.controcampus.it/2013/04/scuola-digitale-pro-e-contro-della-scuola-digitale-2-0-tablet-school-intervista-alla-dott-sa-bardi/ (intervista alla Dott.ssa Bardi: artefice prima dell’adozione degli iPad in classe, fondatrice e Vice Presidente del Centro Studi ImparaDigitale e pioniera della Tablet-School) Quali vantaggi e quali conseguenze negative potrebbe avere secondo te l’adozione dei tablet nelle scuole? Aiutaci a documentarci: se conosci un sito in cui è trattato bene l’argomento, condividilo con noi nel tuo post di risposta. Grazie! Ti potrebbe interessare anche CARI PROF, E’ GIUNTA L’ORA DEGLI E-BOOK e LA VERGOGNA DEI LIBRI DI TESTO FOTOCOPIATI Em.Me.
Si afferma più volte che l’ Europa vive da tempo un periodo di prospera serenità e pace in un contesto territoriale che non conosce conflitti bellici mondiali da oltre 50 anni( in questo lasso di tempo la guerra fredda non ha rappresentato una vera e propria guerra armata). Sicuramente questo è vero ma come si può cantare vittoria quando a “pochi”chilometri di distanza da noi è in atto una guerra civile che sta decimando un’ intera popolazione? Stiamo parlando ovviamente della Siria. Questo stato si inserisce di diritto nel contesto della primavera araba, corrente di agitazioni e proteste dell’area medio-orientale iniziata nell’inverno 2010 contro i regimi di stampo autoritario/totalitario. I protagonisti del conflitto siriano sono caratterizzati da discrepanze ideologiche e soprattutto economiche: da una parte abbiamo una popolazione civile alla stregua delle forze e dall’ altra forze militari governative guidate dal presidente Bashar Al-Assad,dittatore autoritario. Come potrete ben capire l’ origine del conflitto è di natura politica. Infatti in seguito alle pressanti richieste di maggiori libertà individuali, sociali, politiche (libertà di manifestazione e libere elezioni) le risposte democratiche del regime non sono arrivate al mittente. Il governo non ha voluto compiere un processo di cambiamento istituzionale proiettato verso forme democratiche occidentali Il conflitto risale addirittura a 2 anni fa,( il 15 marzo 2011) esploso per mano di pochi rivoltosi. In poco tempo è divenuto dapprima caso nazionale e in seguito internazionale. L’ instabilità interna ha coinvolto l’ equilibrio degli stati confinanti, quali Turchia, Israele e quelli oltreoceano come gli Stati Uniti. Secondo l’ ultimo bilancio 90.000 persone sono state uccise dall’ inizio del conflitto, tra i quali anche migliaia di donne e bambini innocenti. Numero che potrebbe aumentare vertiginosamente fino a quando non si giungerà ad una proposta istituzionale pacifica. In questo drammatico panorama sono coinvolti Mar Gregorios Ibrahim e Paul Yazigi, due vescovi siriani amici della Comunità di Sant’Egidio. Sequestrati negli ultimi giorni di aprile nei pressi di Aleppo, stavano lavorando per la convivenza pacifica in Siria. L’ appello dei giovani della pace è chiaro: chiediamo che la comunità internazionale intervenga affinché i due vescovi vengano liberati e non solo. Auspichiamo che il conflitto siriano giunga al termine dopo anni di inutili e sanguinose lotte. Il nostro appoggio incondizionato va sicuramente alla popolazione siriana, da troppo tempo schiacciata dal terrore del corpo statale. La democrazia è un diritto e va tutelato. Come potremmo rimanere indifferenti quando anche una sola persona non sarà libera dalla guerra e dalle ingiustizie sociali? Fabio Lazzari
Ci siamo!!! Finalmente il 25 maggio, il gran finale del music contest “Play Music Stop Violence” promosso dai Giovani per la Pace L’appuntamento è per sabato 25 maggio alle 17 alla Sala Sinopoli, Auditorium Parco della Musica, ingresso gratuito. Un concerto a più voci, con dieci band selezionate fra trentadue gruppi musicali di Roma e non solo, per un totale di 200 giovani artisti, che hanno partecipato alle selezioni nei mesi scorsi. I “magnifici dieci” si esibiranno live nella finalissima della terza edizione di “Play Music Stop Violence – Cambia il mondo con la tua musica”, il contest musicale per giovani talenti promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Fondazione Musica per Roma con il sostegno della Camera di Commercio di Roma. Le band partecipano al concorso con brani originali sul tema dell’impegno contro ogni forma di violenza: guerra, razzismo, povertà, all’insegna del motto “Il mondo cambia musica”.
I Giovani per la Pace sono amici dei poveri e dei bambini! Per questo in più di 70 Paesi del mondo fanno la Scuola della pace. La Scuola della Pace è un doposcuola nel quale sono aiutati i bambini a fare i compiti, poiché molto spesso i genitori non possono aiutarli, o per il lavoro che gli occupa molto tempo o perché, magari stranieri, non sanno come aiutarli. Dopo i compiti si fanno delle attività su vari argomenti riguardanti l’attualità, facendo così un’educazione alla pace, s’insegna ai bambini a vivere insieme, a giocare insieme, s’insegna quanto è bello stare tutti insieme anche se diversi o per le origini, o per il colore della pelle o per religioni diverse. È bello vedere come si appassionano alle storie che raccontiamo loro, magari di bambini africani che, a differenza loro, non possono andare a scuola, o magari di bambini che non sono iscritti all’anagrafe. Dopo le attività si fa sempre una piccola festa, dove si canta, si balla e si gioca, prima di tornare tutti a casa. I bambini diventano i nostri amici: sono per noi come fratelli minori da accudire, aiutandoli a crescere, donando il nostro amore. È incredibile scoprire il mondo dei bambini, cercare di capirli e fare amicizia con loro. Non solo loro diventano dei fratellini per noi, ma siamo noi a diventare i loro fratelli maggiori, i loro confidenti e amici, tanto che iniziano a raccontarti le cose che gli succedono a scuola o magari anche dentro casa perché cercano in noi un aiuto, un punto di riferimento. Posso raccontarvi di Christian, un bambino della Scuola della Pace: è un bambino disabile che viene alla nostra scuola dalla pace da più di un anno. Nel giro di quest’anno è stato bello vedere come Christian è cambiato: all’ inizio non si fidava di nessuno, viveva nel suo mondo e non dava retta a nessuno, facendo confusione. Noi invece lo abbiamo fatto sentire come tutti i bambini, sgridandolo se necessario. Con il tempo Christian si sta affezionando, non vede l’ora di venire a scuola della pace, per giocare: si sta fidando di tutti noi e, quando qualcuno manca per tanto tempo, Christian lo mette alla prova, come a dirgli “dove sei stato tutto questo tempo?” Sono domande che Christian non ci pone con le parole ma con i suoi atteggiamenti, perché noi siamo i suoi amici e per lui è importante averci vicino e non deludere la sua fiducia. Melissa Nora
Quando Giorgio Napolitano è stato rieletto Presidente della Repubblica, vuoi per la sua abilità nel far dialogare le parti politiche, vuoi per la continuità ritenuta necessaria da taluni, in pochi hanno pensato a un tratto rilevante del pensiero politico del Presidente rieletto: nel messaggio di fine anno trasmesso a reti unificate, infatti, Napolitano ha ribadito l’importanza di riconoscere la cittadinanza italiana come diritto a chi nasce e cresce in Italia. Appello simile è giunto dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, nel suo discorso di insediamento. Il riconoscimento di questo diritto speriamo giunga a compimento dopo una lunga storia. Nella scorsa legislatura (2008-2013) sono stati presentati 48 disegni di legge per cambiare la normativa in tema di cittadinanza. Nemmeno uno convinse una maggioranza. In questo nuovo Parlamento si contano già una ventina di nuove proposte. Un tema che sembra poter essere caro solo al centrosinistra; quando, invece, è una lotta per i diritti che può trovare tutti d’accordo. Di fronte al paradosso del bambino nato da genitori stranieri, che ha compiuto i suoi studi in Italia, e forse nemmeno ricorda il Paese di provenienza, tantomeno sa parlare la lingua dei genitori con la stessa scioltezza con cui comunica in italiano, e per giunta tifa la Roma, cosa deve fare il legislatore? Sebbene per alcuni la caratteristica del tifo calcistico (sbagliato) sarebbe giusto motivo di sospensione di tutti i diritti civili e politici, ben s’intende che è l’uomo che fa la cultura e non la cultura a fare l’uomo. Cambiare la legge sulla cittadinanza non significa propiziare l’arrivo di barconi dall’Africa – peraltro problema spesso trascurato, quello dei morti nel Mediterraneo, per via delle serpeggianti pulsioni razziste. Non significa riconoscere uno ius soli puro. Mi spiego: chi nasce sul suolo italiano, sarebbe italiano, senza se e senza ma. Essere cittadini italiani però significa avere diritti e doveri costituzionali: collaborare al progresso materiale e spirituale della nazione, essendo posti nella condizione di farlo. La mobilità delle persone influisce sul welfare e, per motivi di ordine pubblico, è rassicurante evitare la ‘spesa dei diritti’. L’unico limite è l’ordine pubblico, non però quello dettato dall’ossessione per la sicurezza e dai pregiudizi per cui l’immigrato è una ‘persona illegale’. Bisogna cambiare i termini del dibattito. Non è più tempo di contrapporre il diritto del sangue (ius sanguinis), vale a dire la cittadinanza se si discende da cittadini italiani, al diritto del suolo (ius soli), ossia essere cittadini per il semplice dato fisico di esser nati su suolo italiano. Ma non si può nemmeno andare avanti con le sevizie burocratiche per cui, chi nasce e cresce in Italia a diciotto anni (e non oltre!) deve inviare la richiesta per il riconoscimento della cittadinanza e, se non s’appresta, è costretto a rivolgersi al Ministero dell’Interno, con una trafila ancora più lunga. Se è un diritto, va riconosciuto all’istante. Parliamo dunque di uno ius soli temperato – nasci sul suolo italiano, vi risiedi, studi o lavori – e di uno ius culturae (diritto della cultura) – se...
«Sarà il mio onomastico e mi piacerebbe ricevere tanti biglietti d’auguri da inondare la casella postale. Almeno quel giorno vorrei sentirmi coccolato, respirare il profumo della vita. Grazie al buon cuore di quanti vorranno scrivermi. La autorizzo a pubblicare il mio recapito:Pasquale Buono, via Appia 319. 81028 S. Maria a Vico (Ce)». Questo il messaggio pubblicato da Massimo Grammellini sulla Stampa.it. Articolo della Stampa E’ bastata la lettura del giornale, qualche telefonata di amici di altre città e Valeria e Bianca, della Comunità di Sant’Egidio di Napoli hanno preso la macchina e sono andate a S.Maria a Vico, un Comune del Casertano, a trovare Pasquale. La visita a casa di Pasquale Una storia di solitudine e sconforto si è trasformata, grazie all’interessamento del giornalista Massimo Gramellini e della pronta risposta di Valeria e Bianca, in un segno di speranza per tutti gli anziani che vivono gli ultimi anni della loro vita lontano dai propri cari. La storia di Pasquale ci insegna che la solitudine si può sconfiggere e che l’affetto di un amico, di un figlio o di un nipote può migliorare lo stato d’animo e la salute di un anziano molto di più di mille medicine. http://www.vivaglianziani.it/2013/05/la-solitudine-si-puo-vincere-e-nessuno.html Roberto Barrella
BUKAVU, REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO Da anni la Comunità di Sant’Egidio li accoglie nella casa “l’Arca dell’amicizia” e provvede alla loro formazione professionale E’ dalla crisi del 1994, dovuta al genocidio in Ruanda, che le strade della regione del Kivu si sono riempite di bambini e ragazzi che sono stati chiamati «Maibobo», cioè «ragazzi di strada». In un primo tempo si trattava di minori non accompagnati in fuga dalla guerra, che avevano perso i genitori e si erano letteralmente smarriti, spesso portando con sé traumi dovuti al conflitto. Oggi, a distanza di quasi 20 anni da quei fatti drammatici, il fenomeno dei ragazzi di strada non è finito anzi si è drammaticamente accresciuto, e ogni giorno incontriamo ragazzi di 10, 12 e persino più grandi, che hanno rotto i legami familiari, dormono all’aperto e vagano lungo strade della città in cerca di sopravvivenza, in una società che non si cura di loro e in un mondo sempre più individualista. http://www.santegidio.org/C__un_futuro_per_i_Maibobo_i_ragazzi_di_strada_di_Bukavu.html
Il sangue è un tessuto come la pelle. Come nessuno oggi, reputandosi onesto, discriminerebbe un uomo dal colore della pelle, così un cittadino non dovrebbe più esprimersi con questa categoria superata: il diritto del sangue. Hai sangue italiano? Sei italiano. Anche se alle ultime analisi del sangue, quando ho chiesto al medico di controllare se il mio sangue fosse italiano – riconoscibile dal tipico rosso con sfumature bianco-verdi – ha strabuzzato gli occhi. Un po’ di storia: è il 1912, l’Italia sognava di conquistare la Libia, e il Parlamento del Regno approvava una legge sulla cittadinanza: ha cittadinanza italiana chi nasce da padre italiano, non importa dove; non la ha chi nasce da genitori stranieri in Italia, almeno che il neonato non abbia la fortuna di essere di padre ignoto o apolide o, se per qualche motivo, non possa seguire la cittadinanza del padre. Nel frattempo in Italia sorge la Repubblica (1946), entra in vigore la Costituzione (1948), eppure la legge sulla cittadinanza è affrontata di nuovo come materia organica solo ottanta anni dopo, nel 1992. Qualche assurdità1 era già stata corretta, tuttavia la legge del 1992 ribadisce il diritto del sangue (ius sanguinis, in latino) contro il diritto del suolo (ius soli), ammesso solo in pochi casi fortunati – come si diceva prima, genitori ignoti o apolidi2 e quindi conta il suolo sul quale sei nato. Alcuni contesteranno l’uso poco metaforico qui fatto della parola ‘sangue’. Il legislatore per ‘sangue’ intendeva quella trasmissione di principi e valori italiani che solo genitori italiani possono offrire! Non intendeva certo il liquido che ci scorre nelle vene! Il sangue è una metafora della cultura. E questa è una gran baggianata storica. Quando la cittadinanza veniva concessa al popolo italiano, il popolo italiano non esisteva. Pochi avevano ricevuto un’istruzione, pochi sapevano parlare o almeno comprendere quella lingua ‘calata dall’alto’, l’italiano. Una vera lingua comune, un “italiano standard”, si forma a partire dagli anni Cinquanta, anche grazie alla diffusione della televisione (si legga quest’interessante articolo). Insomma, guardando alla storia ci si accorge che la categoria (politica) della cittadinanza è sempre servita a unire, a costruire un popolo, e non banalmente a ribadire legami già esistenti. Si pensi alla cittadinanza dell’Unione Europea e a quegli ‘invisibili’ benefici che se ne traggono. Non è un caso che i Paesi delle primavere arabe abbiano posto al centro del dibattito la questione della cittadinanza, per costruire democrazie più forti. La cittadinanza è uno strumento della coesione. È espansiva per sua natura, perché deve allargare i suoi confini quando si trasforma in privilegio, da diritto che fu. I Giovani per la Pace sostengono dal 2010 la campagna per il diritto alla cittadinanza ‘Made in Italy’ per affermare un diritto della cultura: chi cresce e studia in Italia è italiano! La lunghezza del post mi invita a concludere: seguirà un articolo a breve sul dibattito di questi giorni in Italia sul tema della cittadinanza. A. —— 1. come la disuguaglianza giuridica e morale tra i coniugi: si noti che per...
“Bisogna conoscere culture diverse, parlare con tutti, anche con i terroristi, e cercare di mettersi sempre nelle scarpe degli altri.” Così esordisce il grande musicista e cantante Peter Gabriel, che, in occasione dell’apertura del summit a Roma tra i premi Nobel per la pace del 2006, ci invita a riflettere su realtà e culture che al giorno d’oggi possono risultare remote ed inaccessibili. L’ex frontman dei Genesis ha cercato nei suoi svariati album solisti (in particolare in “III” e “IV”) di riportare in auge tradizioni e culture differenti affiancandosi artisti appartenenti al mondo africano e non, del calibro di Youssou N’Dour, Yungchen Lhamo e Nusrat Fateh Ali Khan, attingendone le sperimentazioni musicali che in seguito contribuiranno all’evoluzione della cosiddetta “world music”. Come importante esempio che risente degli influssi musicali della “world music” possiamo citare il terzo album solista “III” del 1980. Nel brano “Games Without Frontiers” il testo, ispirato ai giochi senza frontiere televisivi, da una parte dipinge una realtà sociale dove i giochi tra bambini costituiscono la soluzione alla violenza, dall’altra si fa ironico e prelude alla possibile guerra. In “Biko”, inno solenne scritto in memoria dell’attivista politico Stephen Biko, morto nel 1977 nella lotta contro l’apartheid, si può notare come le parole e la musica convergano in un vero e proprio canto africano. L’album “IV”, invece, è uno dei più grandi apporti di Gabriel alle lotte per la libertà e l’uguaglianza, che entra in sintonia con gli analoghi sforzi attivistici di Paul Simon (Simon & Garfunkel) . “Wallflower” introduce il tema dei Desaparecidos, “San Jacinto” confronta la società olistica dei pellerossa con la vuotezza dell’America dei fast food. Inoltre in questo album è esemplare il tentativo da parte di Gabriel di far coesistere le tradizioni musicali della cultura africana (“The Rhythm Of The Heat”) con le nuove tecnologie emergenti (ad esempio il nuovo sintetizzatore “Fairlight”, di lì utilizzato frequentemente dall’artista). Il cantante, che considera la musica una forma di comunicazione universale, vede nella conoscenza reciproca un fattore fondamentale per promuovere la pace nel mondo. Nella canzone “I Have The Touch” Gabriel sottolinea quanto il contatto, non solo mentale, ma anche fisico tra le persone possa risultare essenziale anche nella sua semplicità, e ciò assume il ruolo di un indispensabile gesto sociale (“The pushing of the people / I like it all so much”). L’interesse di Gabriel verso le culture lontane e meno conosciute ha gettato le basi per il movimento WOMAD (“World Of Music, Arts and Dance”), volto a diffondere tramite la musica la conoscenza e i valori di culture lontane e differenti dalla nostra. L’artista ha anche promosso il progetto “Witness”con l’obiettivo di di informare le persone degli abusi subiti tramite la distribuzione di mezzi video-informatici ai grandi attivisti che lavorano in loco. “E’ più difficile negare certe cose se sono state registrate con foto, video o testimonianze” conclude Gabriel al termine della conferenza. Pertanto la musica non solo è in grado di creare una rete umana fatta di popoli e culture variegati,...
La potenza delle immagini degli spari davanti Palazzo Chigi ha penetrato gli schermi delle TV, squarciato gli amplificatori delle radio, bucato le pagine dei quotidiani, insomma: ha travolto ogni mezzo di comunicazione. Sono immagini tristi, preoccupanti e cariche di simboli, indefiniti e pericolosamente interpretabili, che tuonano nel furore di queste rocambolesche giornate e in un gande periodo di crisi umana e economica. In tutto questo torna attuale un tema molto caro ai Giovani per la Pace, il tema della violenza. Sì, perché dopo i fatti di Palazzo Chigi, dopo una domenica che vedeva all’inizio cammino costituzionale il nuovo gioverno, la violenza è tornata a far paura, è tornata a dar traccia di se ma soprattutto e tornata a porci una domanda: cambiare senza violenza è ancora possibile ? Ha ancora senso parlare della necessità di una cultura della non-violenza ? Tutte domande che i Giovani per la Pace da tempo si pongono e pongono all’interno delle scuole, delle università e attorno alle quali spesso hanno invitato a ragionare. Il tema della violenza non è mai uscito fuori di scena, anzi si è rivelato assai presente e ha preso le somiglianze di un uomo disperato, con una crisi familiare alle spalle – legata al gioco di azzardo – e al dramma di arrivare alla fine del mese: elementi che ognuno di noi riscontra quotidianamente nell’amicizia con tanti uomini e tante donne in difficoltà. Potremmo dire, addirittura, che l’uomo di ieri poteva essere uno dei nostri tanti amici che spesso bussa alle nostre porte chiedendoci un aiuto. Il rumore degli spari ci fa riflettere e ci aiuta comprendere come quel “NO ad ogni violenza”, un concetto ribadito sempre con forza dai Giovani per la Pace, non è affatto fuori dalla storia e dal tempo che stiamo attraversando. La cultura della non-violenza, l’obbiettivo di cambiare tutto ma senza violenza, dunque, non è solo un’idea bella o qualcosa di condivisibile ma qualcosa di necessario. Diffondere la cultura della non-violenza vuol dire essere un argine a quel disagio sociale, a quella rabbia per giorni sempre più duri e faticosi che si avvertono camminando nelle strade dei quartieri, nelle piazze e nelle vie. La disperazione della gente – della gente per bene che ha speso una vita lavorando onestamente e che ha attraversato un mare di sacrifici – diventa qualcosa con cui fare i conti, diventa qualcosa da capire e a cui dare risposte credibili ma soprattutto umane. Urge il tempo di ripensarsi e di ritrovare all’interno delle città, attraverso un confronto serio e costruttivo, nuove risposte capaci di essere inclusive e di costruire alleanze per tutti. Colmare presto il divario tra chi ha e chi non ha, costruire alleanze a sostegno di chi è in difficoltà e costruire spazi di dialogo, di ascolto è il modo concreto con cui iniziare a contribuire ad un percorso di rinnovamento, in tempi di contrapposizione e rabbia. Mbaye Gueye
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