Dopo i momenti di xenofobia e violenza che abbiamo vissuto ieri, dopo i disordini a Roma e gli attacchi da ‘Mississippi Burning’ a Treviso, mi sono sentita abbattuta e sconfitta: umiliata per essere così idealista e ingenua da pensare che vivere insieme è possibile. Allora per combattere quella sensazione oggi avevo tutta l’intenzione di scrivere qualche riga infuocata,sciorinare dati e percentuali, dimostrare con ragionamenti rigorosi da che parte sta il torto e perché. Poi ho capito che non era questo il modo giusto, che anche io avrei così alzato la voce, provato a imporre con la violenza il mio pensiero. Il problema è che per quanto possa urlare non riuscirò mai a far cambiare idea a una persona così convinta della ragionevolezza della propria causa da brandire un’arma per difenderla. Il problema è che dati, percentuali e ragionamenti suonano giusti e perfetti alle mie orecchie perché io so: io vedo l’integrazione quasi ogni giorno e ho imparato ad associare agli sterili numeri dei nomi e dei volti. Delle persone. Ho imparato, per esempio, che l’integrazione inizia da noi, dal basso. Non possiamo aspettare che sia la società ad assestarsi, ma dobbiamo essere noi i motori del cambiamento. Per questo invece di chiedere documenti per prima cosa bisognerebbe tendere una mano e presentarsi, sperando che l’altro la stringa. Ho imparato nomi. Tanti. Tutti diversi dalla mia lingua madre. Perché imparare il nome di una persona è una forma di rispetto dovuta. È il primo passo per la conoscenza ed è quello fondamentale per iniziare un dialogo. Ho imparato a non fidarmi dei titoli sensazionalistici dei giornali, a non ripetere passivamente gli slogan dei politici, a non credere a tutti i numeri della televisione. E così ho letto. E leggendo ho imparato che il fanatismo non ha religione, che la ‘tendenza alla criminalità’ non è qualcosa che puoi rintracciare in un ceppo genetico, che la cattiva intenzione non è un fatto di cultura, che la malvivenza non è qualcosa che individui su una cartina geografica. Ho imparato che ‘straniero’ è una parola relativa e non determina uno stato, un modo di essere intrinseco della persona. Tutti sono stranieri per tutti in ogni luogo tranne che a casa propria. E se tutti si sforzassero di far sentire l’altro un po’ più a casa allora non esisterebbero più stranieri. Ho imparato che l’integrazione è un processo lungo e faticoso, che richiede impegno, ma che in cambio regala le più grosse soddisfazioni. L’ho imparato a Scuola della Pace, accanto a ogni bambino che ho visto sforzarsi su una pagina piena di parole di cui non conosceva il significato. Allora penso ai nostri bambini di Scuola della Pace, al loro modo di vivere insieme, e mi chiedo come questo sia possibile. Bambini di dieci nazionalità diverse che fanno i compiti spalla a spalla sullo stesso tavolo, giocano a palla nello stesso cortile, dividono la stessa merenda. Loro non sanno nulla di cifre e percentuali. Nessuno di loro si occupa di politica o si è mai fermato...
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Cristiana ha preso parte al pranzo che i Giovani per la Pace di Treviso hanno fatto con i rifugiati sabato 25 aprile. Condividiamo il suo racconto. Io sono Cristiana, sono venuta al pranzo per i profughi sabato ed è stata un bellissima esperienza! Io ero seduta vicino a Essen, del Pakistan, e lui ad un certo punto mi ha mostrato una fotografia dal cellulare in cui c’erano lui e la sua famiglia… Poi ha iniziato spontaneamente a raccontarmi la sua storia e, anche se non ho capito bene tutto quello che ha raccontato, mi ha colpita molto e per questo poi ho scritto questo racconto… … Ci sono persone che fanno parte della tua vita da quando nasci a quando muori, e non la cambiano minimamente. Stanno sullo sfondo, sempre lì, tanto che con il tempo ti abitui a vederle vicino a te, sai sempre dove sono quando vuoi stare o non vuoi stare con loro. Poi ci sono le persone che entrano ad un certo punto, o che restano qualche anno e poi se ne vanno; ma anche loro, per tutto il tempo che passano sul palcoscenico delle tue giornate, hanno un posto fisso da cui recitare la loro parte. E poi c’è Essen, che sale quando il sipario è già alzato e non ha un copione da recitare. Arriva con un’espressione confusa e con passo quasi esitante. È solo un ragazzo, un ragazzo timido e curioso che saluta il pubblico con lo sguardo di un vecchio e il sorriso di un bambino. Ma non ha battute pronte per cambiare il tuo spettacolo: tutto ciò che era stato progettato per lui è andato all’aria. Il suo ruolo è stato dimenticato, il personaggio è stato cancellato, le battute che avrebbe dovuto recitare non servono più. Gli hanno detto che se ne deve andare, che ormai è inutile. Essen ha bisogno di un posto, però. Non può improvvisare. È sempre stato bravo con le parole, un maestro nell’arte del divertire la gente. Ma questo pubblico non parla la sua lingua. Questo pubblico non ha voglia di ridere, non capisce cosa ci faccia un attore così diverso dagli altri su quel palco rimasto vuoto. Le lampade sono spente, ora c’è solo una fioca luce che illumina quell’angolo di palco in cui un attore fallito non riesce ad esprimere i suoi sentimenti. Poi, nel silenzio, si alza chiara e decisa la voce di Essen. Non parla la sua lingua, nemmeno quella del pubblico: parla la lingua degli uomini, parole che ognuno può capire e che sono così difficili da pronunciare, così dure da ascoltare. Le luci si alzano sulla scenografia dipinta a colori nostalgici, un lago azzurro, una spiaggia bianca; un uomo con una candida veste, in contrasto con il colore scuro della pelle, abbraccia tenamente quattro ragazzini vestiti di nero. La scena rimane un attimo sospesa nel silenzio, gli ultimi secondi per ricordare quelle vite che stanno per essere cambiate, rovinate, distrutte. Essen non ha un copione, ma ha una storia...
Domenica 8 Marzo, giornata internazionale della donna, i Giovani per la Pace di Napoli hanno partecipato alla Liturgia per Elisa nella Parrocchia del Sacro Cuore, che ha ospitato la Comunità in questo giorno importante. Così come una famiglia fa celebrare la messa per i suoi cari defunti, noi abbiamo ricordato i nostri amici di strada conosciuti dal ’97, anno nel quale morì la prima amica ad averci lasciato, una donna, Elisa Cariota. Sono stati ricordati i nomi di più di 200 persone incontrate, conosciute, amate e morte nelle strade di Napoli, accendendo una candela per ognuno di loro. Nomi italiani, stranieri, di giovani e di anziani, di donne e bambini. Per ogni nome un volto, un sorriso, una stretta di mano, una grande storia di amicizia. Il nome. La cosa più scontata di tutte, la prima cosa che ci attribuiscono quando nasciamo, quella che ci da un posto nel mondo. Dire i nomi dei nostri amici è stato un gesto catartico che ci ha ricordato il nostro impegno a non dimenticare nessuno, a far sì che nessuno diventi uno scarto. Ci ha ricordato che la nostra responsabilità è quella di cambiare il mondo, sconfiggendo le regole del mercato, dove quello che vale è l’economia, la convenienza, la produttività e il ricavo. In questo mondo in cui tutti gli stimoli esterni ci spingono a pensare a noi stessi, a risolvere i nostri problemi e a non curarci del prossimo, a meno che non abbia qualcosa in cambio da offrirci, la nostra missione è quella di ritagliare un posto per chi è malato, anziano, povero. Dobbiamo sconfiggere questo modo di concepire la vita dove si perde il senso della gratuitá, della generosità, della solidarietà e ricordare a tutti coloro che ci circondano che ogni vita ha un valore per il semplice fatto che è vita. E se questa concezione è diventata normale per il mondo, allora dobbiamo armarci di tutta la nostra energia per stravolgere la concezione stessa di normalità. Dobbiamo farlo perché e una normalità che rende la vita amara, insipida. Durante la liturgia, nella Chiesa erano giá pronti i tavoli per il pranzo con i nostri amici di strada. Tavoli che sono il contrario del mercato, sono l’immagine della gratuità, della fraternità e della solidarietà tra gli uomini, via di salvezza da una vita arida e priva di contenuti. Le bellezza del pranzo e della collaborazione con le persone della parrocchia che ci ha ospitato ci ha ricordato che nessuno basta a se stesso, che tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri, ma soprattutto che nessuno e così povero da non poter aiutare una altro povero. Ci siamo resi conto di quanto sia fondamentale la presenza di sempre più uomini e donne che difendano la vita dei poveri, in un tempo in cui ci si difende da chi è debole, in un tempo in cui si preferisce non vedere le debolezze degli altri, così da nascondere anche le proprie. Al contrario, esperienze come questa dovrebbero ricordare a tutti noi...
Una rappresentanza dei Giovani per la pace di Catania si è recata a Lampedusa, dove ha fatto visita al centro di accoglienza. La visita si inscrive in un periodo difficile poiché vi sono diversi sbarchi ma, cosa ancora più grave ci sono state, anche negli sbarchi di questi giorni, diverse vittime. Ormai non si riescono più a contare le vittime che sta portando questo tragico esodo dall’Africa all’Europa; il Mar Mediterraneo sta diventando l’Auschwitz del ventunesimo secolo, e il tutto proprio davanti ai nostri occhi. Bisogna fare qualcosa. E’impensabile che il mondo si stia abituando alla morte e legge il fenomeno drammatico dell’ immigrazione come qualcosa che non lo colpisce personalmente. Troppo sangue versato, troppe vittime, troppe vite che si consumano in mare. Bisogna rimanere umani davanti ala morte. I Giovani per la pace si sono recati a Lampedusa per conoscere e accogliere in maniera umana i migranti ma soprattutto per pregare per le vittime che ci sono state in mare in questo ultimo periodo. Giunti al centro di accoglienza i Giovani per la pace hanno conosciuto i migranti appena sbarcati, stanchi ma allo stesso tempo gioiosi poiché dopo tanto viaggiare e dopo tante difficoltà erano arrivati sani e salvi , felici per essere arrivati in Europa, anche se non sapevano bene dove, in Europa. I Giovani per la pace dopo aver conosciuto i migranti hanno ascoltato le loro storie e stanno cercando di ricostruire gli avvenimenti accaduti in mare che hanno provocato la morte di molti uomini. Non si conoscono ancora i nomi delle ultime trecento vittime, e si cerca di recuperarli parlando con i sopravvissuti. Questa è una sfida ardua ma che è stata già portata avanti dalla comunità di Sant’Egidio in passato. Ogni tre ottobre si celebra la preghiera Morire di Speranza, ricordando il nome di ogni vittima e pregando per loro. Ricordare è importante, perché è il primo modo di non accettare quello che avviene, di non passare oltre voltando lo sguardo dall’altra parte. In nomi ci ricordano che i morti non sono numeri ma uomini e donne, giovani, con delle storie, e un futuro che gli è stato strappato. La stagione che inizia è molto difficile poiché ci sono diversi sbarchi, ma alcuni giovani lampedusani hanno deciso di coltivare il sogno dei giovani per la Pace e andranno a trovare anche gli anziani in istituto, perché serve un’alleanza intergenerazionale. Bisogna coltivare questa grande amicizia con i migranti e soprattutto pregare e credere nella forza della preghiera, in particolar modo in questo periodo di Quaresima; bisogna creare ponti di Pace. C’è bisogno di cambiamento. Il mondo deve cambiare: è necessario fermare la “Globalizzazione dell’indifferenza”, perché l’indifferenza uccide e non crea società di uomini e donne rilevanti ma persone che davanti ai grandi appuntamenti con la storia girano le spalle e se ne vanno tristi. Articolo scritto da Giorgio Marino.
Questo è il vero Islam, quello che dovrebbe fare notizia e che costituisce la stragrande maggioranza dei musulmani. L’anello della Pace non è solo una catena umana che ha unito ebrei e musulmani a Oslo, ma è la risposta più bella e profonda a chi vorrebbe sfruttare la religione come terreno di scontro. La guerra non può essere la soluzione contro chi predica odio; sarebbe fare il loro gioco e andare contro noi stessi, contro il fondamento dell’Europa che è la Pace. Creiamo tutti una rete di Pace che accolga chi è solo, che difenda chi è discriminato per la sua condizione o per il suo credo. Solo così potremmo sperare di costruire un futuro più prossimo ai nostri desideri.
Dopo l’attentato di Parigi, la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Islamica di Sicilia hanno invitato la cittadinanza a riflettere sul dialogo tra Cristiani e Musulmani nella costruzione della società del convivere, a partire dalla vita comune nella città di Catania. Sono state organizzate infatti una serie di iniziative che hanno avuto luogo a partire da Venerdì 16 a Sabato 18 Gennaio 2015, che hanno compreso momenti di preghiera per la pace, una preghiera interreligiosa e, nella Domenica 18 Gennaio 2015, una giornata di giochi per i bambini, all’interno della suggestiva cornice del monastero dei Benedettini. La “tre giorni”, nata con l’intento di porre un argine ad un clima d’odio che sarebbe potuto nascere dalla lettura miope della tragica cronaca degli ultimi giorni, ha avuto il merito di riempire gli occhi dei cittadini di Catania dell’immagine emozionante della bellezza di una città dell’integrazione in cui cristiani e musulmani pregano, vivono e giocano insieme. Ci siamo riscoperti amanti appassionati della pace, costruttori pazienti di una città del convivere, necessaria per superare la difficoltà dei nostri tempi. -L’attentato di Parigi- come suggerisce Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio,- infatti è un campanello d’allarme che dimostra che le periferie sono vuote di proposte. Chi arriva con un’idea forte le conquista. Se a Parigi attecchisce il fondamentalismo, nelle periferie siciliane i ragazzi trovano la mafia. Ma non per questo pensiamo che tutti i cristiani sono mafiosi. Insieme, tutte le comunità religiose, devono contribuire a una città basata sulla convivenza pacifica-. E’ inaccettabile che ci si possa perdere in semplificazioni infauste sui musulmani, creando assiomi che fanno molto male a persone presenti in maniera assolutamente positiva nella vita della città di Catania e in particolare nel sostegno ai più poveri ed ai migranti durante la stagione degli sbarchi. I bambini musulmani sono nati in Italia, sono le seconde generazioni, si sentono italiani, frequentano le scuole italiane. Bisogna proteggerli da una demagogia indecente pronta ad additarli come “piccoli terroristi” o “figli di terroristi” creando una cultura d’insieme. La moschea è un luogo aperto a tutti dove si costruisce la pace e si aiutano i poveri, stranieri ed italiani, cristiani e musulmani. Il mondo in cui viviamo ci è solo dato in prestito ed abbiamo il dovere di consegnarlo ai più piccoli, migliore di come ce lo hanno lasciato, l’integrazione, anche attraverso il linguaggio universale del gioco, porta i più piccoli, di tutte le religioni, ad assimilare una cultura della solidarietà. In una società sempre più colorata stare insieme diventa cultura, e la cultura è un argine importante alla violenza. Allora perché non condividere insieme questa tensione per la pace ? Perchè non lanciare una proposta a tutta la dimensione cittadina per dare un’anima a quest’Europa delle semplificazioni e della fazioni. Perché non dimostrare che non solo è possibile ma che lo stiamo già facendo! La “tre giorni” ha visto il suo esordio Venerdì 16 Gennaio alle ore 14:00, nella Moschea della misericordia, dove centinaia di persone hanno pregato per la pace, orientati verso La Mecca,...
DATA USCITA: 18 dicembre 2014 GENERE: Commedia ANNO: 2014 REGIA: Theodore Melfi SCENEGGIATURA: Theodore Melfi ATTORI: Bill Murray, Naomi Watts, Melissa McCarthy,JaedenLieberher, Chris O’Dowd, Terrence Howard,Scott Adsit, Lenny Venito, Kimberly Quinn, Katharina Damm FOTOGRAFIA: John Lindley MONTAGGIO: Sarah Flack PRODUZIONE: Chernin Entertainment, Crescendo Productions, The Weinstein Company DISTRIBUZIONE: Eagle PICTURES PAESE: USA DURATA: 102 Min Vincent, un ex militare ubriacone, giocatore d’azzardo e frequentatore di prostitute, è costretto a badare a Oliver, figlio dodicenne della sua nuova vicina, la mamma single Maggie. Le idee di doposcuola di Vincent includono ippodromi e strip club, ma alla fine la strana coppia incomincia ad aiutarsi a vicenda e il ragazzo scoprirà cose sorprendenti che non sapeva sul conto di Vincent. Questa vicenda può sembrare scontata, e forse è così. Ma da questo film si possono trarre alcuni spunti di riflessione sulla “santità” di Vicent. Infatti Vincent all’inizio può sembrare tutto meno che un santo: beve, gioca d’azzardo, frequenta prostitute e nel rapportarsi con le persone esprime un notevole senso di cinismo e misantropia. Tuttavia, come scopre Oliver, Vincent non è solo questo ma anche altro. Infatti in Vietnam riuscì a salvare alcuni commilitoni in pericolo di vita, e, nonostante le sue difficoltà, cerca di aiutare una prostituta russa quarantenne rimasta incinta e continua a visitare sua moglie, malata di Alzheimer e ricoverata in una casa di riposo, e a cambiarle il bucato nonostante lei non lo riconosca più. In più, dopo aver conosciuto Oliver, diventa per lui una sorta di figura paterna tanto da insegnargli a difendersi e a farsi rispettare dai compagni di classe che lo maltrattavano. Queste qualità, per Oliver, rendono Vincent un vero santo, tanto che Oliver lo proclama tale. Infatti Vincent, nonostante i suoi difetti, cerca di fare del suo meglio per le persone a lui care e questo fatto, pur non cambiando il mondo in larga scala, ci insegna che possiamo fare qualcosa nel nostro piccolo per migliorare la vita di chi ci circonda. Altro spunto di riflessione importante è il fatto, spesso dimenticato, che tutti i santi sono stati prima di tutto esseri umani, fatti sia di pregi che di difetti, e che forse nel mondo esistono tanti santi che, pur non compiendo imprese epocali, si impegnano per cambiare anche poco in meglio. Dario Fraschetti
E’ stata una giornata particolare quella di Lunedi 5 Gennaio. La RAI, è venuta a Catania per registrare un servizio sul lavoro dei Giovani per la Pace durante il loro servizio ai più poveri e per raccontare una generazione che, partendo dagli ultimi, ha deciso di cambiare il mondo. Giovani catanesi e nuovi europei insieme, questo ha colpito la truope RAI, che ci ha seguito durante tutta la giornata. Villa Chiara, la casa per per anziani che i Giovani per la Pace frequentano settimanalmente, è stata la prima tappa. La prima immagine raccontata dalle telecamere, è stata quella del dialogo tra Giuseppe, di 94 anni, e Jonathan e Karamo, due Giovani per la Pace del CARA di Mineo. Tema:la Libia!!! Quella di tanti anni fa, la Libia dove gli italiani stavano bene, la Libia della giovinezza di Giuseppe…ma anche la Libia di oggi, la Libia della sofferenza, della guerra, la Libia raccontata da Karamo e Jonathan, quella della violenza, delle torture, l’inferno raccontato dalle parole dei due Giovani per la Pace di Mineo. Tanta curiosità da parte degli anziani per questo appuntamento inaspettato: “La RAI viene da noi??? E chi ce lo doveva dire!!!!” Seconda tappa di questa giornata, è stata la preparazione della cena per chi vive per strada. Ogni settimana infatti tanti giovani, liceali e universitari, preparano un pasto per chi non ha casa. Anche qui tanta curiosità da parte di tutti che, tra un panino da preparare e l’altro, hanno risposto alle domande del regista della RAI Lucio. Tanti gli intervistati, tante domande e tanta curiosità. Perchè così tanti giovani, catanesi e nuovi europei, hanno scelto di vivere, all’interno della propria settimana, una tensione e un’attenzione così particolare per che è più povero ? Perchè chiamiamo i poveri, amici ? Perchè un giovane del Ghana, del Gambia, del Senegal, che vive a Mineo, ha deciso di dedicare parte della propria settimana per servire chi è più povero di lui ? Queste, alcune delle domande che ci sono state rivolte. Non riportiamo le risposte e vi rimandiamo al servizio che andrà in onda Domenica 11 Gennaio alle ore 10.30 su RAI 1. Il servizio televisivo è continuato con le riprese della preghiera dei Giovani per la Pace, dove ancora una volta è risuonato il Vangelo di Natale; Gesù nasce nel buio e nel freddo della notte, il buio nella vita e nel cuore di tanti, il buio della guerra, del terrorismo, della povertà, della solitudine. Ma il Natale è quella luce che illumina quel buio, una luce che dà gioia e che si capisce nel servizio a chi è più povero, nell’essere insieme, cambiando il proprio cuore. Al termine della preghiera, verso le 20.30 circa, le telecamere hanno ripreso le nostre macchine riempirsi di coperte, té caldo, panini, piumoni. Siamo così partiti per il nostro “giro” lungo le vie della città, dove chi non ha casa ci aspetta per un pasto caldo, una coperta, ma sopratutto per scambiare quattro chiacchiere tra buoni amici. Anche qui tanta curiosità: “E che ci fa qui la RAI con...
I giovani per la pace hanno ancora voglia di Natale, di quello fatto di cuore, speranza e cambiamento. É per questo che un gruppo di liceali allontanandosi dal centro l’ ha ritrovato alla periferia di una periferia, dove più nessuno cerca, dove più nessuno spera: al campo rom di Scampia. Su uno sfondo di fango e baracche abbiamo pregato insieme, una preghiera che ci ha visti partecipi della stessa emozione, un’ emozione che ci ha convinti di essere nel posto giusto, era Natale negli occhi dei bambini e delle donne rom perché eravamo li, in un luogo che i più disprezzano e attentano, era Natale nei nostri occhi perché eravamo con loro a fare di una periferia il centro del nostro mondo. Questa mattinata al campo ha risposto a molte delle nostre domande, perché ci ha fatto capire cosa c’ é realmente dietro i giudizi sbagliati, ma soprattutto che alle periferia non finisce la vita, ma rinasce e si fa spazio tra mille punte di spine. La strada che porta al campo ha tutte le sembianze di una discarica di rifiuti, ma entrando capisci che é anche una discarica di mani arrese e sguardi indifferenti e che la nostra preghiera e il nostro Natale non potranno di certo finire. Sul balcone di una vela c’ era scritto che “cresce solo chi é sognato”, noi sognamo un cambiamento per Scampia, per i rom, per le periferie tutte, e giornate come questa ci fanno ben sperare!” Articolo scritto da Francesca Sepe
Da un anno ormai la sera del mercoledì è diventata speciale per i poveri senza casa di Torino: infatti i Giovani per la Pace si incontrano per preparare e distribuire la cena nelle stazioni e in altri luoghi della città.
Si è conclusa a Catania giorno 11 agosto la “Tre giorni senza frontiere”: la prima tre giorni di giochi, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio e dai Giovani per la Pace. Il nome della manifestazione racchiude in sé il significato profondo che i Giovani per la Pace hanno voluto dare: senza frontiere; frontiere che spesso sbarrano il passaggio ai sentimenti migliori, come l’amicizia, la simpatia tra persone e popoli diversi, la solidarietà, la voglia di stare insieme e fare del bene divertendosi. Le frontiere sono anche quelle che si pongono innanzi ai tanti poveri delle nostre città rendendole inumane, quelle che rendono difficile ai migranti arrivare nella terra promessa. Le frontiere per cui si muore di speranza. Così i Giovani della Comunità di Catania e tanti altri giovani provenienti da diverse città della Sicilia insieme agli oltre ad oltre 50 Giovani per la Pace che risiedono nel C.A.R.A. di Mineo come “special guests”, divisi in squadre hanno voluto dedicare a Catania uno spazio libero dove stare insieme, vivere la fraternità, creare una reale integrazione ed affrontare tutti insieme, come una sola grande squadra, i temi che stanno cambiando la Sicilia e i luoghi dove i Giovani per la Pace sono attivi, fra tutti l’accoglienza. Infatti dopo aver gareggiato per due intere giornate, passate, la prima al mare tra giochi con l’acqua ed il torneo di beach-volley, e la seconda, per tutta la città con una difficilissima “caccia al tesoro”, tutta la comunità di Sant’Egidio si è fermata il terzo giorno per commemorare le vittime del tragico sbarco di un anno fa, che ha visto morire sei migranti africani vicino al litorale catanese. Grazie ad una petizione dei Giovani per la Pace ed alla pronta sensibilità dell’amministrazione comunale, è stata infatti posta una targa commemorativa sopra una stele di pietra lavica che ricorda le vittime del mare e tutti coloro che hanno perso la vita nei viaggi della speranza. Una piccola pietra nella città che comunica qualcosa di grande: i giovani siciliani hanno scelto l’accoglienza. Nel dubbio tra respingere o abbracciare, hanno scelto l’abbraccio: infatti il 10 agosto 2013 i Giovani per la Pace e la Comunità tutta abbandonarono loro vacanze per andare a soccorrere chi era rimasto vivo e piangere le sei persone, i cui nomi, grazie questa targa, resteranno incisi per sempre nel cuore della città. Da quel dolore i giovani di Catania hanno reagito guardando l’orizzonte verso il mare e sapendo che ci sono fratelli da accogliere, da salvare e da integrare e non problematiche sociali da evitare. Uomini donne e bambini a cui volere gratuitamente bene. Tre giorni senza frontiere ha trovato il suo culmine durante la liturgia nella chiesa di Santa Chiara a Catania che ospita la vita della Comunità, dove erano presenti tantissimi poveri della città serviti durante l’anno. Poveri e ricchi, europei e nuovi europei, giovani e anziani hanno pregato insieme come una sola famiglia. La festa finale è stato un tripudio di gioia, di felicità piena, di sorrisi complici e di fraternità vera, tra persone che hanno voluto coniugare l’utile, interessante al divertente, per dimostrare come sia possibile costruire una società migliore. Sta nascendo in Sicilia una...
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