Siamo pronti a partire, con una nave carica di sogni, la Bari- Durazzo, tutti con un’unica direzione Tirana, città a cui tanti di noi sono legatissimi. A Tirana si parlerà, si sognerà, si farà PACE! Perché la pace è sempre possibile, anche in questi anni in cui sembra essersi smarrita, in cui i nostri occhi sono pieni del male di guerre senza fine, di stragi senza età di violenza. Serve tornare a sognare la pace, e le religioni in questo hanno un ruolo cruciale. Seguiteci su questo blog, sulla nostra pagina, sin dalla partenza, seguiremo il suono emozionante di religioni, uomini spirituali, leader e gente comune, uniti per la pace, tutti insieme per dire che #peaceispossible. Seguiremo le conferenze che si terranno dal 6 all’8 Settembre, ve ne renderemo conto, vi offriremo le immagini di un mondo multicolore e unito! Ecco l’appello di Pace della preghiera per la pace tenutasi ad Anversa nel 2014! Buona lettura e costruiamo insieme un mondo di Pace! APPELLO DI PACE 2014 APPELLO DI PACE Donne e uomini di religione diversa ci siamo riuniti su invito della Comunità di Sant’Egidio ad Anversa, nel cuore dell’Europa. In una terra che ha subito l’orrore della Grande Guerra Europea e Mondiale, un secolo fa. Ci inchiniamo alla memoria dei tanti caduti e ripetiamo: Mai più la guerra! Oggi invece la guerra è tornata sul suolo europeo, travolge convivenze millenarie in altre terre, fa soffrire troppi. Abbiamo ascoltato la preghiera di milioni di profughi e fuggiaschi, di chi chiede di non morire di fame e di sete, di malattie curabili in altre parti del mondo. La richiesta di dignità dei poveri, il bisogno di giustizia di popoli, le periferie del mondo. Il mondo ha avuto grandi possibilità e tempo per costruire la pace, per accorciare le distanze, per prevenire i conflitti, prima che le crisi diventassero troppo grandi. Il mondo ha perso però tante occasioni. Ma ora è tempo di decisione, non di rassegnazione. La guerra e la violenza in tante parti del mondo vogliono riscrivere i confini, le forme di vita, il modo in cui guardiamo all’altro. Il mondo rischia di perdere il senso di un destino comune proprio mentre è diventato globale. Ci sono malattie profonde che rendono tutto difficile: la divisione e la rassegnazione attraversano e indeboliscono tanti: le comunità religiose, la politica, gli assetti e le istituzioni internazionali. Le religioni sono chiamate a interrogarsi: hanno saputo dare un’anima alla ricerca di un destino comune o sono state catturate in una logica conflittuale? Ma le religioni possono molto: dare cuore e anima alla ricerca della pace come destino comune di tutti i popoli. Ci assumiamo oggi la responsabilità della pace quando troppo pochi sognano la pace. Le religioni dicono oggi con più forza di ieri: non c’è guerra santa; l’eliminazione dell’altro in nome di Dio è sempre blasfema. L’eliminazione dell’altro, usando il nome di Dio, è solo orrore e terrore. Accecati dall’odio, ci si allontana in questo modo dalla religione pura e si distrugge quella religione...
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«Io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione». Così scriveva Giovanni Paolo II. Una verità che oggi vediamo verificarsi su chi migra. Il tema della visione per l’Europa è fondamentale. Negli anni in cui poco si è parlato di migranti il senso del nulla e del torpore ha invaso tutti, in modo trasversale. Sembrava che l’Europa fosse solo un’accozzaglia di questioni economco-finanziarie lontane dagli uomini. Se ci chiedessimo cosa caratterizzava il nostro dibattito non lo ricorderemmo. O al massimo ricorderemmo di sigle e questioni economiche che per nulla hanno toccato i nostri cuori o la nostra coscienza. I migranti però, affondando in un mare diabolico o morendo nelle guerre o per mano degli specialisti del terrore, hanno fatto riemergere passioni (tristi) che ci danno l’illusione di esser vivi. Il cattivismo. L’urlo. L’indifferenza. La spietatezza dei commenti. Lo schierarsi contro, anche poco comprendendo. Tutti indicatori di passioni tristi, disumane. “Partono perché illusi”, “partono perché li andiamo a prendere”, “partono perché la Libia è un caos”. Le frasi del torpore e del nulla. Un mantra continuo, incessante, contro una verità: l’assenza di “visione”. Un’assenza che ha incendiato i conflitti, aumentato le violenze e fatto razzia di vite. Un torpore ed un nulla che anziché porre fine agli scenari di disumanità e di morte ne ha aperti altri. Ungheria, Macedonia, il tunnel della manica, i camion. Spesso si è detto che la Libia è un inferno perché nel caos: ma vige il caos lì dove anziani e bambini sono costretti a strisciare sotto il filo spinato per avere salva la vita ? No. Lì vige in torpore ed il nulla: l’assenza di visione di cui il migrante soffre. E’ uno spettacolo indegno. Un torpore indegno. Un’assenza di visione indegna. Stiamo scambiando dei diseredati per ladri, affamati per ingordi, disperati per vacanzieri. C’è una domanda che sorge spontanea davanti a muri in costruzione e fili spinati: dopo i migranti chi saranno i prossimi dall’altra parte, i prossimi a soffrire per mancanza di visione ? Chi catalizzerà la passione triste divenendo un capro espiatorio che muore senza scandalizzare ? Gli “Untermensch” – termine che nell’ideologia razzista nazista descriveva coloro che erano considerati popoli inferiori – chi saranno ? Chi saranno le categorie le cui morti non provocheranno una grande vergogna nel cuore di tutti ? Ma c’è un’altra domanda: che valore avrà la vita in Europa ? L’epifania della vita, dell’estraneo, del volto, dell’altro che evoca la nostra responsabilità saremo in grado di sperimentarla ? Le immagini di sofferenza di questi giorni non vengono dalla Libia ma dall’Europa ed è preoccupante perché se la vita non è tale dove si cerca rifugio, non lo è in nessun altro luogo. I migranti stanno soffrendo soprattutto per mancanza di visione. E lentamente anche noi. Non perché qualcuno ci toglie futuro e risorse (“ci ruba il lavoro”) ma perché non ci stiamo (pre)occupando di costruire, allargare, sperimentare una visione accogliente in grado di accogliere “l’epifania del volto”. E ormai lo sappiamo e lo vediamo:...
A come Africa, A come anziani, A come amici! Non un semplice gioco di parole il pomeriggio trascorso fra gli amici anziani dell’Istituto Brignole e alcuni giovani liceali da poco rientrati dal Malawi! Immagini e racconti della loro esperienza vissuta con i fratelli della Comunità a Blantyre: scuola della pace, centro nutrizionale e tanti, tantissimi giovani amici! I nostri anziani sono stati colpiti ed emozionati! Anna Maria ha detto: “grazie perchè quello che ci avete detto allarga i nostri interessi e le nostre preoccupazioni..noi viviamo pensando solo a poche cose, sulla nostra nuvoletta”. Franca ha confidato: “queste parole hanno colmato i miei vuoti interiori” e qualcuno ha anche proposto “adottiamo ciascuno un bambino!” . Insomma, un momento di profonda unione fra mondi apparentemente distanti ma uniti nell’ amicizia, nella fede e nello spirito della Comunità!! Un abbraccio da Genova!!
A Catania presso la sala conferenze del Palazzo della Cultura, si è svolta la cerimonia iniziale di #3GiornisenzaFrontiere, la più grande tre giorni di giochi integrazione e divertimento che avrà luogo dal 9 all’11 Agosto, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Prefettura- Ufficio territoriale del Governo di Catania, il Comune di Catania e la Capitaneria di Porto- Guardia Costiera. La cerimonia iniziale, introdotta da Sebastian Intelisano della Comunità di Sant’Egidio, ha visto presenti Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, il Vicesindaco della Città di Catania, Marco Consoli, Il presidente della Consulta Comunale Giovanile Pierangelo Spadaro e Luis Laudonia, direttore artistico del Lido Azzurro che ospiterà parte della tre giorni. La sala vedeva numerosi giovani, tra cui molti provenienti da diverse parti di Italia, in particolare da Trieste e Padova che hanno scelto di venire a Catania proprio per partecipare alla tre giorni. C’erano numerosi migranti, nuovi europei, impegnati nelle attività di solidarietà ai più poveri con la Comunità di Sant’Egidio. La città di Catania – dice Marco Consoli, vicesindaco della Città di Catania- è votata all’accoglienza, l’accoglienza è nel suo DNA e questo lo si è capito meglio da quando, dal primo sbarco del 10 Agosto 2013, le storie dei migranti hanno messo in moto un flusso di solidarietà che rende pietre inaccettabili le parole di chi vuole respingere. Accogliere significa salvare vite umane e questa tre giorni rende evidente che se l’accoglienza viene coltivata da valori come il ricordo commosso e amicizia, diviene integrazione che regala momenti belli per tutti. Accogliere è una cosa semplice- dice Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, e #3giornisenzafrontiere vuole essere una tre giorni dove si vivano tre principi: quello del gioco, che si respira tra familiari e persone che si vogliono bene, come sono i giovani italiani divenuti amici dei giovani nuovi europei, il principio della memoria, di una città che non dimentica le vittime del mare che sono considerate come parenti prossimi che abbiamo dolorosamente perso e, infine, quello della preghiera, come la preghiera “Morire di Speranza, che avrà luogo l’11 Agosto alle ore 18:00 presso la Chiesa di Santa Chiara, per ricordare tutte le vittime del mare e vivere come un grande scandalo la morte a cui non si può concedere la parola “fine”. Se respingere, come dice Papa Francesco, è un atto di guerra, accogliere è un atto di pace e la #3giornisenzafrontiere è un atto di pace, è una dichiarazione di pace ad un mondo impazzito e sedotto da una logica della guerra e della violenza diffusa, compresa quella verbale che offende la dignità dell’uomo. #3giornisenzafrontiere vuole essere un atto di pace che si tramuti in proposta: la proposta dei giovani che hanno assunto come propria l’identità dell’accoglienza e che si raduneranno nei prossimi giorni. E’ una proposta che nasce dalla Sicilia, terra che incontra più di altre chi migra. E’ una proposta netta di una città che ha un’anima e che ha scelto di non sovrapporre le logiche piccole alla larga domanda di pace...
Voglio condividere con voi le parole che buttai giù due anni fa, sull’aereo di ritorno dal Mozambico, con la certezza che la nostra Africa, neanche quest’anno, ci deluderà. Ma soprattutto, con la consapevolezza che scopriremo altri aspetti della Comunità che ci faranno appassionare, regalandoci ancora una volta la speranza che il mondo può cambiare “Mi ero persa nella mia insicurezza, nella paura di fallire, in quella del confronto. Non mi riconoscevo piú nelle cose e nelle persone che mi circondavano e mi sentivo fuori luogo a parlare di quello che volevo fare nella vita e per la mia pretesa di cambiare il mondo. Qui mi sono ricongiunta con la mia interioritá: in ogni attimo mi sono sentita me stessa, in ogni attimo mi ripetevo che quello era il posto in cui volevo stare, mi ripetevo che quello era il MIO posto. Qui abbiamo conosciuto persone che pur non essendo ricche si sentono tali, pur essendo nullatenenti ritengono la propria vita piena di senso, la ritengono un capolavoro. Pensando all’Africa adesso la prima parola che mi viene in mente è: speranza. Una speranza dettata dalla voglia di vivere, dall’incondizionato attaccamento alla vita. Una speranza e una forza così travolgenti da arrivare nel cuore di chi le sfiora soltanto. Ma dove la trovano questa forza, la fiducia in un domani che sanno essere povero quanto loro? Nella fede, che non è solo la fede in Dio, ma la fiducia nel fatto che le cose possono cambiare, che l’Africa può cambiare se con impegno e dedizione si lavora per questo. La cosa che più mi ha colpito é il modo di approcciare la vita degli africani: vivono la vita come un dono che va difeso a tutti i costi, ma allo stesso tempo prendono le cose come vengono, senza troppe aspettative. Il dolore, le gioie, le malattie sono solo insegnamenti: con le loro saggezza mitigano le delusioni. Ho scoperto gente incredibile: li osservo e mi chiedo da quali ceneri siano rinati. La loro forza probabilmente sta tutta in quella mentalitá straordinaria e primigenia, forgiata dallo stesso magma di cui è composta la nostra buona e vecchia terra. Una mentalitá antica come il primo vagito, sopravvissuta con disinvoltura attraverso le ere barbariche e le derive della modernitá. Nel profondo di questa gente brucia una fiamma eterna che li rischiara e gli ridá vita ogni volta che le tenebre cercano di inghiottirli. Queste persone sono un grande esempio. Ridono dei loro fallimenti come di una farsa mal riuscita. Sono qui, felici di essere insieme, solidali e complici. Li invidio, invidio la loro maturitá temprata da infinite sofferenza e terribili prove, il distacco filosofico con cui vivono i drammi e le sventure, e infine i il loro senso dell’umorismo, che sembra tenere spavaldamente testa a una sorte iniqua e traditrice di cui sono riusciti a decrittare il funzionamento. Parlo di tutti loro: a cominciare dagli attivisti del centro Dream per finire alle cuoche del centro nutrizionale, passando per i Giovani per la Pace di Matola....
Roma, 28 luglio. Un caldo pomeriggio come tanti altri in quest’estate infuocata. Un pomeriggio che al Cinodromo di Roma ha assunto tutto un altro sapore per tanti bambini Rom che vivono lì. Protagonisti di canti, balli e giochi organizzati dai ragazzi di Padova, in visita alla Comunità di Sant’Egidio in questi giorni, e dai Giovani per la Pace, hanno passato un pomeriggio all’insegna del divertimento e dell’allegria. La loro simpatia e i loro sorrisi ci fanno capire ancor di più come l’amicizia sia l’ingrediente più importante per costruire ponti di solidarietà che non abbiano confini! #
Dopo i momenti di xenofobia e violenza che abbiamo vissuto ieri, dopo i disordini a Roma e gli attacchi da ‘Mississippi Burning’ a Treviso, mi sono sentita abbattuta e sconfitta: umiliata per essere così idealista e ingenua da pensare che vivere insieme è possibile. Allora per combattere quella sensazione oggi avevo tutta l’intenzione di scrivere qualche riga infuocata,sciorinare dati e percentuali, dimostrare con ragionamenti rigorosi da che parte sta il torto e perché. Poi ho capito che non era questo il modo giusto, che anche io avrei così alzato la voce, provato a imporre con la violenza il mio pensiero. Il problema è che per quanto possa urlare non riuscirò mai a far cambiare idea a una persona così convinta della ragionevolezza della propria causa da brandire un’arma per difenderla. Il problema è che dati, percentuali e ragionamenti suonano giusti e perfetti alle mie orecchie perché io so: io vedo l’integrazione quasi ogni giorno e ho imparato ad associare agli sterili numeri dei nomi e dei volti. Delle persone. Ho imparato, per esempio, che l’integrazione inizia da noi, dal basso. Non possiamo aspettare che sia la società ad assestarsi, ma dobbiamo essere noi i motori del cambiamento. Per questo invece di chiedere documenti per prima cosa bisognerebbe tendere una mano e presentarsi, sperando che l’altro la stringa. Ho imparato nomi. Tanti. Tutti diversi dalla mia lingua madre. Perché imparare il nome di una persona è una forma di rispetto dovuta. È il primo passo per la conoscenza ed è quello fondamentale per iniziare un dialogo. Ho imparato a non fidarmi dei titoli sensazionalistici dei giornali, a non ripetere passivamente gli slogan dei politici, a non credere a tutti i numeri della televisione. E così ho letto. E leggendo ho imparato che il fanatismo non ha religione, che la ‘tendenza alla criminalità’ non è qualcosa che puoi rintracciare in un ceppo genetico, che la cattiva intenzione non è un fatto di cultura, che la malvivenza non è qualcosa che individui su una cartina geografica. Ho imparato che ‘straniero’ è una parola relativa e non determina uno stato, un modo di essere intrinseco della persona. Tutti sono stranieri per tutti in ogni luogo tranne che a casa propria. E se tutti si sforzassero di far sentire l’altro un po’ più a casa allora non esisterebbero più stranieri. Ho imparato che l’integrazione è un processo lungo e faticoso, che richiede impegno, ma che in cambio regala le più grosse soddisfazioni. L’ho imparato a Scuola della Pace, accanto a ogni bambino che ho visto sforzarsi su una pagina piena di parole di cui non conosceva il significato. Allora penso ai nostri bambini di Scuola della Pace, al loro modo di vivere insieme, e mi chiedo come questo sia possibile. Bambini di dieci nazionalità diverse che fanno i compiti spalla a spalla sullo stesso tavolo, giocano a palla nello stesso cortile, dividono la stessa merenda. Loro non sanno nulla di cifre e percentuali. Nessuno di loro si occupa di politica o si è mai fermato...
Succede a Siracusa pochi giorni fa: alcuni giovani Nigeriani raccontano di compagni di viaggio gettati in Libia dal quarto piano di un edificio perché non in grado di poter pagare il necessario per la tratta della salvezza; per attraversare quel fazzoletto di mare che segna il discrimine tra la morte e la speranza della vita. Emmanuel – nome e personaggio di fantasia – vola. E’ gettato nel vuoto. Sulla soglia della finestra pensa al traffico impressionante tra il residence in cui dormiva e il politecnico. Andare a lezione ? Un inferno. L’Africa non è facile di suo: con gli esami e le classi affollatissime ancora di più. Ogni mattina è la stessa routine: si legge qualche salmo, esci dalla stanza con Jacob (che sogna di progettare il marchio d’auto che farà concorrenza a quelli europei e americani), ti aggrappi sul pulmino (un balzo) e sei dentro. Chiedi la fermata e scendi – dopo aver pagato per l’ennesima volta per Jacob. Entri a lezione, un mare di gente: Innocent, Lucky, Princess e tutti gli amici sono lì. Su: al quarto piano. Il professore si asciuga la fronte, parla a voce alta, butta fuori qualcuno. E’ una lezione. Il giorno dopo stessa routine. Però succede che il cellulare squilla e a Maiduguri (o Yerwa in lingua kanuri) capitale dello stato federale di Borno 15 persone perdono la vita in un attentato. Emmanuel non entra a lezione, non vede un mare di gente: Innocent, Lucky, Princess e tutti gli amici non li vede. Jacob sta zitto perché l’unica cosa vera che vorrebbe progettare è la pace. Il professore si asciuga la fronte, parla a voce alta, butta fuori qualcuno ma non Emmanuel. E’ rimasto solo per un attentato. Torna a casa, nella sua casetta che sta giù: al terzo piano. Sulla soglia della porta di casa Emmanuel pensa a Boko Aram: impressionante. Andare a Maiduguri ? Un inferno. Impossibile se non si vuole morire. La Nigeria ultimamente non è facile: con gli attentati e i rapimenti ancora di più. Ogni mattina è la stessa routine: si legge qualche salmo in qualche Chiesa per invocare la protezione dalle violenza; si sente qualche giornale; ti aggrappi alla speranza che gli attentati finiscono e inviti i cugini rimasti a stare dentro. Questa volta però hai perso il pulmino. Chiedi della fermata a quello dopo e scendi – con la fortuna di non aver pagato per Jacob. Non entri a lezione, un mare di sangue: Innocent, Lucky, Princess e tutti gli amici saranno lì. Il poliziotto si asciuga la fronte, grida a voce alta, butta fuori tutti. Emmanuel è rimasto solo per il secondo attentato. “Degli spari – gli raccontano – venivano da dentro il politecnico esattamente dall’aula al piano di sotto”. Innocent, Lucky, Princess e tutti gli amici erano lì e Jacob insieme a loro sta zitto, per sempre, giù: al secondo piano. Sulla soglia della porta dell’autobus Emmanuel pensa a quando era piccolo: impressionante. Andare a Maiduguri ? Un gioco. Beccare una festa in famigli lì era facile:...
Amici, ma ci pensate? Qui nascono grandi amicizie tra anziani e nuovi Europei. Entrambi hanno un’ambizione: diventare amici. E da questa ambizione, nasce qualcosa di speciale proprio dalle due categorie più emarginate dalla nostra società! Non si tratta forse di una bella e grande Rivoluzione? E non immaginate quante meravigliose conseguenze ne derivano; l’anziano viene reso partecipe di ciò che sta accadendo, oggi, nel nostro paese: sbarchi, accoglienza, solidarietà (abbandonando così la sua condizione di precarietà esistenziale e di scarto); Questo è un grande segnale per tutti noi: ogni Rivoluzione è possibile solo se la si vuole fare davvero. Solo se si ha la forza di cambiare questo mondo. Siamo ambiziosi anche noi, perché la bella e grande Rivoluzione è certamente possibile. Di Myriam Magno
La storia dei rom di via Rubattino è stata l’avventura di incontro, solidarietà e amicizia che nasce dai bambini rom, alunni come tanti altri, e dagli sforzi dei loro genitori per mandarli a scuola. Rubattino è uno stradone alla periferia est di Milano, piena di fabbriche abbandonate. Qui, tra il 2008 e il 2009, si forma un campo di enormi dimensioni (più di 350 persone). I giovani della Comunità iscrivono 36 bambini rom nelle scuole del quartiere: all’inizio la diffidenza è tanta. Poi grazie al lavoro culturale che la Comunità ha svolto nel quartiere, per tanti residenti i rom non sono più “gli zingari”, una categoria infida e minacciosa, ma sono diventati “il mio alunno”, “il compagno di classe di mia figlia”. I rom sono Vadar, Flora, Madalina, Garofita: per la prima volta avevano un nome.Nel 2009 c’è l’ennesimo sgombero senza grandi alternative ma il quartiere reagisce in maniera inaspettata: insegnanti e genitori dei compagni di classe protestano per l’assenza di alternative e l’interruzione della scuola. Molte persone aprono le porte di casa per dare ospitalità alle famiglie rom, centinaia di cittadini si mobilitano per raccogliere coperte e pasti caldi. Dopo 6 anni questo “contagio di solidarietà” ha portato più di 200 rom a trovare una casa, un contratto di lavoro e a mandare con regolarità i figli a scuola. La storia più bella è quella della famiglia di Georgel, 11 anni, con tanti sgomberi alle spalle: hanno accolto in casa la signora Anna, la loro vicina anziana, quando è stata sfrattata. Georgel ha spiegato così: “È come una catena: noi rom di Sant’Egidio siamo stati aiutati dalla Comunità ad andare a scuola, conoscere il mondo, vivere in casa e non per strada. Adesso anche noi possiamo aiutare altri”. di Elisabetta D’Agostino
Diciamoci la verità non è facile farsi un’idea sulla questione della crisi greca, a volte indicata dalla parola grexit. Anche volendo capirci qualcosa, andando a cercare in rete, leggendo i giornali, non si sa bene cosa pensare. Chi ha ragione? La seria Europa, impersonata dal compassato ministro delle finanze tedesco Schauble, o la povera Grecia, senza una lira (una dracma? Un euro?) ma rappresentata da leader allegri e originali, come l’ex-ministro Varoufakis, che si presenta in maglietta attillata alle conferenze stampa. E poi, anche se non facesse così caldo, non è facile districarsi tra tutte queste questioni di debiti, accordi, riforme, fondo monetario, ristrutturazione del debito, referendum etc. Lasciamo un attimo da parte queste questioni, e proviamo a spiegare, o a interpretare, quello che sta succedendo in tre parole comprensibili a tutti. Fiducia. La Grecia deve dei soldi a molta gente in Europa. Il fatto che si faccia fatica a trovarli non è un problema solo dei greci (debitori) ma anche degli europei (creditori). Allora bisogna mettersi d’accordo per uscire da questo problema. Mettersi a litigare non conviene a nessuno. Non ai greci: un paese di 11 milioni di abitanti, con un’economia non proprio fortissima, ha un bisogno matto dell’Europa. Ce la vedi da sola a competere con gli USA e la Cina? Ma anche l’Europa come fa a essere Europa senza la Grecia? A parte che la stessa parola Europa viene dalla mitologia greca, a parte le questioni geografiche o geopolitiche, ma ce li vedete i banchieri europei (e non solo loro) che accettano di perdere 330 miliardi di debiti senza batter ciglio? Ma per trovare un accordo, un qualsiasi accordo, anche tra persone, ci vuole una cosa fondamentale: la fiducia. Un accordo si fonda sulla fiducia. Se non ci si fida della persona con cui ci si deve accordare, l’accordo è morto in partenza, prima di nascere. La fiducia è alla base dell’economia e gli economisti ce l’hanno chiaro, solo che le hanno dato un nome meno chiaro: la chiamano capitale sociale, ma sempre di fiducia si tratta. Ma i greci non si fidano dell’Europa (non solo i politici, anche la gente) e l’Europa non si fida dei greci. Certo hanno i loro motivi, da entrambi le parti. Ma se si ha bisogno gli uni degli altri, bisogna imparare a fidarsi gli uni degli altri, anche se il proprio interlocutore ha commesso qualche sbaglio. Misericordia. E qui viene la seconda parola. Una parola divenuta importante, dopo che Papa Francesco ha deciso di dedicargli un intero giubileo. Forse una parola che sembra poco utile, se la compariamo con i paroloni della politica o dell’economia, ma forse è la vera chiave per uscire da questa crisi. E’ vero che la Grecia quache anno fa ha falsificato i conti, e che ora non vuole pagare tutto e subito colpendo la popolazione. E’ anche vero che sono stati un po’ fantasiosi nel condurre le trattative (vedi il referendum tirato fuori dal cappello all’improvviso) ma forse bisognerebbe avere un po’ di misericordia...
In questo video, ricco di testimonianze, i giovani per la pace vi conducono in un bel mondo fatto di amicizia con i più poveri. Ps: Per partecipare durante questa estate alle nostre attività mandaci una mail a [email protected]
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