A Catania presso la sala conferenze del Palazzo della Cultura, si è svolta la cerimonia iniziale di #3GiornisenzaFrontiere, la più grande tre giorni di giochi integrazione e divertimento che avrà luogo dal 9 all’11 Agosto, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Prefettura- Ufficio territoriale del Governo di Catania, il Comune di Catania e la Capitaneria di Porto- Guardia Costiera. La cerimonia iniziale, introdotta da Sebastian Intelisano della Comunità di Sant’Egidio, ha visto presenti Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, il Vicesindaco della Città di Catania, Marco Consoli, Il presidente della Consulta Comunale Giovanile Pierangelo Spadaro e Luis Laudonia, direttore artistico del Lido Azzurro che ospiterà parte della tre giorni. La sala vedeva numerosi giovani, tra cui molti provenienti da diverse parti di Italia, in particolare da Trieste e Padova che hanno scelto di venire a Catania proprio per partecipare alla tre giorni. C’erano numerosi migranti, nuovi europei, impegnati nelle attività di solidarietà ai più poveri con la Comunità di Sant’Egidio. La città di Catania – dice Marco Consoli, vicesindaco della Città di Catania- è votata all’accoglienza, l’accoglienza è nel suo DNA e questo lo si è capito meglio da quando, dal primo sbarco del 10 Agosto 2013, le storie dei migranti hanno messo in moto un flusso di solidarietà che rende pietre inaccettabili le parole di chi vuole respingere. Accogliere significa salvare vite umane e questa tre giorni rende evidente che se l’accoglienza viene coltivata da valori come il ricordo commosso e amicizia, diviene integrazione che regala momenti belli per tutti. Accogliere è una cosa semplice- dice Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, e #3giornisenzafrontiere vuole essere una tre giorni dove si vivano tre principi: quello del gioco, che si respira tra familiari e persone che si vogliono bene, come sono i giovani italiani divenuti amici dei giovani nuovi europei, il principio della memoria, di una città che non dimentica le vittime del mare che sono considerate come parenti prossimi che abbiamo dolorosamente perso e, infine, quello della preghiera, come la preghiera “Morire di Speranza, che avrà luogo l’11 Agosto alle ore 18:00 presso la Chiesa di Santa Chiara, per ricordare tutte le vittime del mare e vivere come un grande scandalo la morte a cui non si può concedere la parola “fine”. Se respingere, come dice Papa Francesco, è un atto di guerra, accogliere è un atto di pace e la #3giornisenzafrontiere è un atto di pace, è una dichiarazione di pace ad un mondo impazzito e sedotto da una logica della guerra e della violenza diffusa, compresa quella verbale che offende la dignità dell’uomo. #3giornisenzafrontiere vuole essere un atto di pace che si tramuti in proposta: la proposta dei giovani che hanno assunto come propria l’identità dell’accoglienza e che si raduneranno nei prossimi giorni. E’ una proposta che nasce dalla Sicilia, terra che incontra più di altre chi migra. E’ una proposta netta di una città che ha un’anima e che ha scelto di non sovrapporre le logiche piccole alla larga domanda di pace...
Mese: August, 2015
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Voglio condividere con voi le parole che buttai giù due anni fa, sull’aereo di ritorno dal Mozambico, con la certezza che la nostra Africa, neanche quest’anno, ci deluderà. Ma soprattutto, con la consapevolezza che scopriremo altri aspetti della Comunità che ci faranno appassionare, regalandoci ancora una volta la speranza che il mondo può cambiare “Mi ero persa nella mia insicurezza, nella paura di fallire, in quella del confronto. Non mi riconoscevo piú nelle cose e nelle persone che mi circondavano e mi sentivo fuori luogo a parlare di quello che volevo fare nella vita e per la mia pretesa di cambiare il mondo. Qui mi sono ricongiunta con la mia interioritá: in ogni attimo mi sono sentita me stessa, in ogni attimo mi ripetevo che quello era il posto in cui volevo stare, mi ripetevo che quello era il MIO posto. Qui abbiamo conosciuto persone che pur non essendo ricche si sentono tali, pur essendo nullatenenti ritengono la propria vita piena di senso, la ritengono un capolavoro. Pensando all’Africa adesso la prima parola che mi viene in mente è: speranza. Una speranza dettata dalla voglia di vivere, dall’incondizionato attaccamento alla vita. Una speranza e una forza così travolgenti da arrivare nel cuore di chi le sfiora soltanto. Ma dove la trovano questa forza, la fiducia in un domani che sanno essere povero quanto loro? Nella fede, che non è solo la fede in Dio, ma la fiducia nel fatto che le cose possono cambiare, che l’Africa può cambiare se con impegno e dedizione si lavora per questo. La cosa che più mi ha colpito é il modo di approcciare la vita degli africani: vivono la vita come un dono che va difeso a tutti i costi, ma allo stesso tempo prendono le cose come vengono, senza troppe aspettative. Il dolore, le gioie, le malattie sono solo insegnamenti: con le loro saggezza mitigano le delusioni. Ho scoperto gente incredibile: li osservo e mi chiedo da quali ceneri siano rinati. La loro forza probabilmente sta tutta in quella mentalitá straordinaria e primigenia, forgiata dallo stesso magma di cui è composta la nostra buona e vecchia terra. Una mentalitá antica come il primo vagito, sopravvissuta con disinvoltura attraverso le ere barbariche e le derive della modernitá. Nel profondo di questa gente brucia una fiamma eterna che li rischiara e gli ridá vita ogni volta che le tenebre cercano di inghiottirli. Queste persone sono un grande esempio. Ridono dei loro fallimenti come di una farsa mal riuscita. Sono qui, felici di essere insieme, solidali e complici. Li invidio, invidio la loro maturitá temprata da infinite sofferenza e terribili prove, il distacco filosofico con cui vivono i drammi e le sventure, e infine i il loro senso dell’umorismo, che sembra tenere spavaldamente testa a una sorte iniqua e traditrice di cui sono riusciti a decrittare il funzionamento. Parlo di tutti loro: a cominciare dagli attivisti del centro Dream per finire alle cuoche del centro nutrizionale, passando per i Giovani per la Pace di Matola....
Oggi ricordiamo il settantesimo anniversario dallo sgancio della bomba atomica a #Hiroshima. Noi abbiamo conosciuto i sopravvissuti dalla bomba atomica che sono stati accolti dalla Scuola della Pace con dei cartelloni che recitavano la parola “Pace” in tutte le lingue. Pensate: chi ha subito la guerra fino a vederne le conseguenze più estreme, diventa un testimone di pace e cerca giovani e giovanissimi alleati in tutto il mondo affinché la guerra non produca più i suoi effetti tremendi, effetti tatuati nel cuore che svaniranno solo quando la Pace sarà di tutti. Chi oggi fugge da guerre spesso dimenticate ha un’esigenza di pace più grande a cui l’Europa, continente che ha conosciuto la guerra nel suo volto più demoniaco ma che ha scelto per una vocazione di pace deve rispondere facendosi ispirare. La pace è nel nostro nome, siamo i giovani per la pace, perché senza la pace nulla si può costruire, è la base, per dire oggi#warneveragain
Furono oltre 140mila vittime e fu seguita tre giorni dopo da un’altra esplosione simile nella città giapponese di Nagasaki. Esattamente settant’anni fa il bombardamento atomico di Hiroshima. Esattamente settant’anni fa il Giappone subiva il bombardamento atomico da parte degli americani. “Il Giappone” -commenta il Primo Ministro Giapponese Shinzo Abe– “è stato l’unico Paese al mondo che ha subito un bombardamento atomico in guerra. La nostra missione è quella di trasmettere al mondo e alle generazioni future la natura inumana delle armi nucleari”. Ricordando in tal modo il dramma della bomba atomica sganciata 70 anni fa dagli Stati Uniti su Hiroshima, è necessario rinnovare un appello alla pace all’abolizione dell armi nucleari nel mondo. Una bomba che, come ricordato dallo stesso Abe, non solo ha ucciso migliaia di persone, ma ha anche causato sofferenze indicibili ai sopravvissuti ed alle generazioni dopo. Per questo abbiamo il “dovere speciale di lavorare per un mondo libero dalle armi nucleari. In autunno presenteremo una nuova risoluzione all’assemblea dell’Onu per l’abolizione delle armi atomiche”. Sono state oltre 55mila le persone che hanno partecipato al Memoriale della Pace, vicino il punto d’epicentro dell’attacco del 6 Agosto 1945, iniziata come ogni anno con i rintocchi delle campane alle 8:15. All’evento ha partecipato per la prima volta anche un rappresentante dell’amministrazione USA: l’ambasciatrice in Giappone Caroline Kennedy. Presenti anche i sopravvissuti all’attacco, i loro discendenti, familiari delle vittime, attivisti per la pace e rappresentanti di circa 100 Paesi. In una forte dichiarazione il sindaco di Hiroshima, Kazumi Matsui, ha fatto riferimento alla perdita di vite umane e alle sofferenze causate dal bombardamento atomico, invitando i responsabili politici di tutto il mondo ad abolire le armi nucleari. Senza menzionare le controverse norme sulla sicurezza in discussione in Parlamento, ha poi esaltato il pacifismo come parte integrante della cultura nipponica e ha invitato il presidente americano Barack Obama e gli altri leader mondiali a venire nella sua città e ascoltare i racconti dei sopravvissuti perché “in futuro non si permetta che accadano cose di questo genere”.
Come vivere un’estate (ed una vita) felice? Non da soli. I giovani per la pace lo sanno. Perciò, anche in questo caldo quasi torrido, abbiamo deciso di continuare ad aiutare e a lavorare con tanti per gli altri, specie per chi ha più bisogno. La scorsa settimana, nella consueta visita al silos, dopo la distribuzione di cibo ai nostri amici senza fissa dimora, abbiamo incontrato nuovamente un centinaio di giovani, per lo più afghani, che vivono per strada, e sono arrivati da poco in città. Cercano pace qui in Europa, soprattutto, ma al momento hanno anche altre necessità. In pochi giorni abbiamo messo a soqquadro cantine, armadi, ed il magazzino del centro di solidarietà della Comunità, ed anche aiutati dalla parrocchia di Borgo San Sergio ( grazie a Niky Bibi ed alla generosa disponibilità sua e delle signore che lì aiutano chi ha bisogno) abbiamo raccolto molti vestiti; altre cose le abbiamo comprate ( grazie a Hemma Luzia e a Franca Miazzi che col cuore lo hanno fatto, e non è la prima volta!). Il bello è che oltre a noi giovani per la pace (liceali ed universitari) a lavorare per ore e giorni, noncuranti del caldo e della quantità di abiti da smistare, sono i nostri amici migranti, proventinti da Pakistan, Afghanistan, Kashmir. La sede per interi pomeriggi è stata lo specchio della Trieste ( e del paese) che vogliamo costruire e consegnare ad altri giovani: solidale, senza barriere nè confini, capace di lavorare insieme, di ridere, scherzare, prendersi in giro ma con simpatia. Le borse per la distribuzione di domani sera sono quasi pronte: contengono magliette, camicie e pantaloni puliti, sandali, asciugamani, biancheria…quanto serve ad affrontare con un po’ più di dignità il caldo che ci aspetta nei prossimi giorni e le notti al buio…in attesa delle partite da giocare insieme e di altri momenti di amicizia con noi. #EstateSolidali : un bel sogno diventato realtà per tanti! Ed oltre a fare il bene, ci stiamo anche allenando per la #tregiornisenzafrontiere, a furia di portare su e giù dalle auto e per le scale della sede scatoloni di vestiti.
Volando verso Tirana ho tentato di imparare le più elementari frasi da utilizzare in terra albanese: ciao, grazie, come ti chiami, come stai…la mia memoria purtroppo non mi ha aiutato, al controllo del passaporto ho bisbigliato “buonasera”. Secondo problema: il caldo. Alle 8 di mattina la temperatura ricorda quella del pomeriggio italiano, fortunatamente la nostra casa è munita di aria condizionata. Nel viaggio verso la “casa rossa” ci informiamo sull’Albania. Gli Albanesi sono circa 3 milioni, dei quali un milione vive nella capitale, i rimanenti 2 milioni sono divisi tra gli altri centri e piccoli paesi e infine una parte risiede all’estero. Il territorio è prevalentemente montuoso, Tirana stessa ne è circondata, in particolare il Dajti, che domina sulla città. Spesso si vedono case non finite: si aspettano i soldi delle rimesse dei figli emigrati, ma non sempre arrivano e quindi questa tipologia di casa è diffusissima. Arrivando a Tirana ecco un hotel, grandioso, in stile neoclassico e appena finito: il contrasto con le case precedenti è brutale, ma anche questa è Albania. I bunker costruiti durante la dittatura di Enver Hoxha (dal 1946 al 1985) sono quasi del tutto scomparsi, le strade sono abbellite con alberi giovanissimi: alla caduta del regime comunista nel 1991 lo stato crollò completamente con tutti i suoi servizi, compreso il riscaldamento, e per scaldare le case si tagliavano molti alberi. La piazza centrale è circondata da palazzi in stile fascista, memoria dell’occupazione: l’Opera, il Museo di Storia Nazionale, alcuni ministeri. Al centro la statua di Scanderbeg, l’eroe nazionale che guidò la rivolta contro i Turchi, ha sostituito quella di Enver Hoxha, abbattuta dal popolo. La casa rossa ospita 16 persone al piano terreno, diviso in due parti: la “casa 1” con 10 persone e la “casa 2” con le restanti 6. Nel 2012 la struttura ha aperto le porte agli amici dell’ospedale psichiatrico, che qui sono seguiti come persone, non come carcerati. Ognuno di loro ha una storia complicata alle spalle, ma adesso è felice e lo dimostra anche solo col sorriso o lo sguardo. Il nostro compito era di far loro compagnia e aiutarli: una mattina mentre in casa 1 si facevano esercizi nel cortile nella casa 2 si faceva la barba. Altre volte li abbiamo accompagnati a prendere un kafe al bar, dove poi si passava buona parte della mattinata a parlare. L’uscita è molto attesa perché li porta nel mondo, dove possono sentirsi, almeno per un po’, completamente liberi. Le sbarre dell’ospedale non ci sono più, ma ci sono quelle rimaste dentro. Molto apprezzati i canti popolari albanesi e italiani e i momenti ludici: il domino, gli scacchi, un pomeriggio si sono molto divertiti con un grande memory. Si sono fatte parecchie gite, al grande Parco Nazionale di Tirana, al castello di Petrela, con una bella vista sulla città, sul Dajti per trascorrere una bellissima giornata al fresco della montagna. Per il gruppo della Comunità di Torino c’è stata anche l’occasione di visitare altri amici ad Elbasani e Scutari. Nella...
Per noi, giovani universitari genovesi, quella in Sicilia è stata una vacanza ricca di incontri. Dalla festa con i profughi di Milazzo all’incontro con i Giovani per la pace di Catania, in una terra bella e complicata come quella siciliana non potevamo dimenticarci di una figura così importante come quella di Padre Pino Puglisi. Accompagnati da Vincenzo Ceruso siamo stati a Brancaccio, ripercorrendo i passi di Don Pino nelle vie e nei luoghi da lui frequentati fino al giorno della sua morte. Abbiamo visto la sua casa, il Centro Padre Nostro e la parrocchia dove chi lo ha conosciuto e i ragazzi più giovani tengono vivo il suo ricordo. L’impronta lasciata da Padre Puglisi è visibile in tutti quelli che lo hanno incontrato, come la signora Elisa che porta avanti i suoi pensieri e i suoi sogni, testimoniando ogni giorno la sua amicizia ai visitatori della casa di Don Pino. Era un uomo semplice, ci ha raccontato, ma sognava in grande. Anche noi vogliamo essere come lui, degli uomini e donne semplici ma con degli ideali e dei sogni da realizzare, quei sogni che non sono morti neanche con la sua uccisione. Vogliamo essere come lui nella non rassegnazione verso i tanti bambini e le situazioni più difficili che incontriamo nelle scuole della pace, pronti a parlare con tutti, anche con chi ci sembra così lontano dai nostri valori. Vogliamo sognare anche noi in grande, perché la mentalità ristretta dei quartieri in cui ci troviamo sia sconfitta da uomini e donne miti e col sorriso, proprio come Don Pino.
Mercoledì a Messina sono arrivati 453 migranti. Insieme ai vivi riusciti ad attraversare indenni la terribile prova del mare, sono arrivate drammaticamente e quattordici bare, quattordici vite spezzate prima di abbracciare la nuova speranza in Europa, quattordici persone che oggi non ci sono più e che ci ricorderanno per sempre come sia inaccettabile morire di speranza. Noi eravamo al porto per accogliere e per porgere un fiore su ciascuno di quelle bare, eravamo insieme al vicario del vescovo, a un monaco buddhista e al Presidente della Comunità Islamica di Messina, per pregare per questi fratelli che sono scappati dalle loro città, dalla guerra e povertà, che sono scappati per trovare un rifugio sicuro ed hanno trovato un muro di acqua a fermarli. Le nostre preghiere devono infrangere quel muro perché mai più chi parte dalle tragedie del mondo debba morire di speranza.
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