La foto di Aylan, bambino di Kobane sta sempre più diventando l’immagine del risveglio dei cuori dell’Europa. Sembra quasi volerci comunicare “in guerra si muore e si muore anche fuggendo dalla guerra” muoiono anche i bambini. Ci stiamo chiedendo guardando l’immagine come fermare le guerre? Come accogliere senza morte? E’ fresca nei ricordi l’immagine delle bare arrivate a Catania: Oggi è il momento in cui c’è bisogno di uno sforzo comune, collettivo, personale che si tramuti in sforzo internazionale. Un’immagine è di per sé statica se la gente non si muove attorno ai sentimenti che suscita: un bambino, la sabbia, la morte ed è facile creare resistenze anche alla commozione, all’indignazione, tornare ad abituarci alla morte di tanti Aylan nel mondo, non provare quel sussulto di impegno, quell’orgoglio di essere rifugio! Perchè un rifugiato senza rifugio è un uomo morto, è un bambino senza asilo, è una donna spenta ed il rifugio deve essere come un ventre materno e non cadere in balia delle ondate sociali di simpatia e antipatia. Pensiamoci: All’occhio sociale e mediatico si rincorrono queste due immagini sul migrtante: poco prima il migrante è il problema, poco dopo è risorsa: questa è schizofrenia che va superata. Oggi l’Europa può veramente essere quel rifugio, quella culla che si era immaginata al tramonto della seconda guerra mondiale. Un luogo di serenità per chi scappa dalla guerra che l’Unione è riuscita a cacciare via dai suoi confini. Questo è un merito e al tempo stesso una responsabilità verso il mondo! Tenendo fuori chi scappa dalla guerra, la guerra tornerà dentro i nostri confini e già bussa alla porta con un suono allettante. La nostra responsabilità ce la ricorda il papà di Aylan mentre parla di suo figlio non come un’immagine ma restituendogli carne, rendendolo simbolo e non solo fotografia, parlandone semplicemente come un bambino, che giocava, piangeva, rideva, saltellava e faceva i dispetti. Come un bambino che oggi è vivace nel bussare alle porte dei nostri cuori facendoci riscoprire che ogni tanto è giusto piangere. Bisogna uscire e incontrare, cambiare, protestare, accogliere a mani nude, perchè non fare passare un pensiero aberrante che ci vuole chiusi è la grande battaglia corpo a corpo contro il male di questo tempo. Una battaglia che non si può perdere.
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Sandra è una ragazza nigeriana incinta di 28 anni, è sposata e decide di lasciare il proprio paese, affrontando il deserto, il caos libico e la traversata del Canale di Sicilia per poter assicurare un futuro migliore alla sua bambina. Ha superato l’inferno, a differenza di tanti altri è viva, è arrivata in Sicilia, in Italia, in Europa. Viene portata all’ospedale Piemonte di Messina, la sua bambina è prematura e viene al mondo con qualche settimana di anticipo. Sandra decide di chiamarla “Miracle”, il Miracolo è che lei e la sua bambina ce l’abbiano fatta. Andiamo a trovarla all’ospedale, ci racconta la sua storia, ci dice che non riesce a mettersi in contatto con il marito, anche lui partito dalla Nigeria, ci dice anche che si sente sola qui, nessuno parla inglese, e ci confessa che siamo la sua famiglia adesso. Le portiamo una torta, chiacchieriamo un po’ e poi andiamo a vedere la piccola. È dentro l’incubatrice e dovrà stare in ospedale per alcuni giorni ancora. Sua madre è felicissima, e ci ringrazia molto per l’aiuto che le stiamo dando. Ci congediamo da Sandra per tornare a casa, lei ci ringrazia ancora e ci dice: “God bless you”, “che Dio vi benedica”. Rimaniamo con lei che ci rivedremo nei prossimi giorni, e le lasciamo un numero di telefono per chiamare per qualsiasi eventualità. Usciamo dalla porta dell’ospedale pensando a ciò che verrà per Sandra e la bambina, rassicurati dal fatto che quello che hanno passato non accadrà più. Come Sandra sono tante le donne, incinte o con bambini piccoli, che intraprendono i viaggi della speranza, molte non ce l’hanno fatta, inghiottite insieme ai loro piccoli dal mare. Il nostro pensiero e quello di tutti dovrebbe essere rivolto a queste donne coraggiose, che rischiano tutto per assicurare un futuro migliore ai loro figli. Con la speranza nel cuore che tutte le donne come Sandra possano avere una vita giusta. di Giorgio Cannetti
«Io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione». Così scriveva Giovanni Paolo II. Una verità che oggi vediamo verificarsi su chi migra. Il tema della visione per l’Europa è fondamentale. Negli anni in cui poco si è parlato di migranti il senso del nulla e del torpore ha invaso tutti, in modo trasversale. Sembrava che l’Europa fosse solo un’accozzaglia di questioni economco-finanziarie lontane dagli uomini. Se ci chiedessimo cosa caratterizzava il nostro dibattito non lo ricorderemmo. O al massimo ricorderemmo di sigle e questioni economiche che per nulla hanno toccato i nostri cuori o la nostra coscienza. I migranti però, affondando in un mare diabolico o morendo nelle guerre o per mano degli specialisti del terrore, hanno fatto riemergere passioni (tristi) che ci danno l’illusione di esser vivi. Il cattivismo. L’urlo. L’indifferenza. La spietatezza dei commenti. Lo schierarsi contro, anche poco comprendendo. Tutti indicatori di passioni tristi, disumane. “Partono perché illusi”, “partono perché li andiamo a prendere”, “partono perché la Libia è un caos”. Le frasi del torpore e del nulla. Un mantra continuo, incessante, contro una verità: l’assenza di “visione”. Un’assenza che ha incendiato i conflitti, aumentato le violenze e fatto razzia di vite. Un torpore ed un nulla che anziché porre fine agli scenari di disumanità e di morte ne ha aperti altri. Ungheria, Macedonia, il tunnel della manica, i camion. Spesso si è detto che la Libia è un inferno perché nel caos: ma vige il caos lì dove anziani e bambini sono costretti a strisciare sotto il filo spinato per avere salva la vita ? No. Lì vige in torpore ed il nulla: l’assenza di visione di cui il migrante soffre. E’ uno spettacolo indegno. Un torpore indegno. Un’assenza di visione indegna. Stiamo scambiando dei diseredati per ladri, affamati per ingordi, disperati per vacanzieri. C’è una domanda che sorge spontanea davanti a muri in costruzione e fili spinati: dopo i migranti chi saranno i prossimi dall’altra parte, i prossimi a soffrire per mancanza di visione ? Chi catalizzerà la passione triste divenendo un capro espiatorio che muore senza scandalizzare ? Gli “Untermensch” – termine che nell’ideologia razzista nazista descriveva coloro che erano considerati popoli inferiori – chi saranno ? Chi saranno le categorie le cui morti non provocheranno una grande vergogna nel cuore di tutti ? Ma c’è un’altra domanda: che valore avrà la vita in Europa ? L’epifania della vita, dell’estraneo, del volto, dell’altro che evoca la nostra responsabilità saremo in grado di sperimentarla ? Le immagini di sofferenza di questi giorni non vengono dalla Libia ma dall’Europa ed è preoccupante perché se la vita non è tale dove si cerca rifugio, non lo è in nessun altro luogo. I migranti stanno soffrendo soprattutto per mancanza di visione. E lentamente anche noi. Non perché qualcuno ci toglie futuro e risorse (“ci ruba il lavoro”) ma perché non ci stiamo (pre)occupando di costruire, allargare, sperimentare una visione accogliente in grado di accogliere “l’epifania del volto”. E ormai lo sappiamo e lo vediamo:...
Impossibile, vero? Eppure no! Non è affatto impossibile! Niente è impossibile! Basta guardare questa foto per capire quanto l’amore ci porti ad essere una sola entità. In questa foto non c’è un’anziana, non ci sono bianchi e non ci sono neri. C’è solo un sorriso di Libertà. Libertà di essere amati e libertà di amare, incondizionatamente, senza nessun trucco. Libertà di Coraggio. Quel coraggio travolgente volto ad aprire gli occhi dei cuori di tutti donandone la vista. Mai più cecità! Libertà di Rivoluzione. Abbattere ogni frontiera, di odio, di limite, di prevenzione, di paura è possibile! Libertà di Preghiera. Pregare insieme tutte le volte che lo si vuol fare, per i più cari, per i più lontani, per i dimenticati. Perchè la potenza della preghiera è l’elisir di lunga vita dell’amicizia. Libertà di Speranza. Un filo sottile ma ricco di energia che lega i cuori dei contagiati d’amore. Senza la speranza non si può essere liberi. Libertà di PACE. Estinguere ogni guerra e ogni rifiuto, per non rigettare mai più nessuno in mare. Ecco. In questa foto c’è solo un sorriso di grande Libertà. Quella meravigliosa libertà contagiosa di cui tutti dovremmo deliziarci. Lasciamoci contagiare. Non è affatto impossibile! Niente è impossibile! Myriam Magno
Gabrielle è una bambina della Costa d’Avorio sbarcata a Catania con la madre insieme a tanti altri migranti. Al porto La piccola Gabrielle ha giocato, era viva nel gioco. Per fortuna a lei non è toccata in sorte, tra i deboli di cui a pieno titolo lei fa parte, la fine degli altri quarantanove compagni di viaggio morti asfissiati. Vedere Grabrielle fa comprendere cosa vuol dire che tra quelle salme alcune erano di bambini. Il gioco che ha ridato a tutti i presenti, lì, al porto di Catania, la conferma potente, prepotente e imponente della vitalità di Gabrielle sono state le bolle di sapone. Ed è strano perché le bolle di sapone sono l’immagine che Papa Francesco a Lampedusa ha utilizzato ricordando a tutti di quella crudeltà “trasparente” – fintamente perbenista ma estremamente cinica e disumana – in cui tanti hanno trovato rifugio. Nell’isola a Nord della Tunisia il Papa diceva La una cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio… Una bolla che scoppia è il gioco di una bambina in un porto ma forse, prima di questo, è la realtà di ciò che accade, di ciò che siamo e di ciò che operiamo restituitaci nel modo più semplice. Gabrielle fa scoppiare con forza quei finti perbenismi che ci rendono follemente disumani restituendoci la realtà di ciò che siamo non per volontà ma per operato e pensiero: insensibili e concentrati sui noi stessi. “Il grido, il pianto, il grande lamento”: è questa stagione che viviamo – sono ancora parole dell’omelia di Bergoglio a Lampedusa. Ma il Papa continuava dicendo: “«Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone”. Le bolle con cui Gabrielle gioca e che ci ridanno la realtà sono un forte discrimine tra l’essere Rachele o Erode. Rachele che cade disperata per la morte dei figli che negli sbarchi diventano fratelli e sorelle: figli di un’umanità dolente che in preda ai dolori tenta di non soffocare il gemito della vita. Erode invece cade dalla bolla che Gabrielle, i figli di Rachele e figli senza nome inghiottiti dal mare scoppiano. Erode è colui che cade dalla sua onnipotente cultura del benessere che lo porta a pensare a sé. Erode è smascherato dalle bolle di sapone. Ed Erode non è smascherato in quanto mentitore ma come assassino. La bolla di sapone non è il rifugio dei bugiardi ma di colore che accecati nella difesa del proprio benessere (della propria bolla) seminano morte. La descrizione più dura ma più vera di quanto sta accadendo. I moli dei nostri porti dovrebbero accogliere più bambini e insieme a loro i loro genitori e cari. Le bolle di sapone solo i bambini sono in grado di farle scoppiare con delicatezza. In una salma è impossibile.
Oggi Catania ha visto la Chiesa di Santa Chiara accendersi ancora una volta per ricordare tutte le vittime del mare. Ha visto tanti cuori all’unisono pregare insieme, ha visto le istituzioni presenti, ha visto partecipare alla veglia di Preghiera “Morire di Speranza” organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio e presieduta dal vicario del Vescovo Mons. Salvatore Genchi , giovani provenienti da tutta Italia che si sono stretti insieme, ha visto gente comune, uomini e donne dei suoi quartieri più periferici, ha visto i migranti commossi ricordare il loro viaggio e i loro amici che non sono più vivi. Morire di speranza è stato un momento altissimo e profondo che si è svolta durante #3giornisenzafrontiere la tre giorni di pace dialogo e integrazione della Comunità di Sant’Egidio, proprio perché la preghiera non ha frontiere, supera i confini fino ad infiggersi dentro l’anima di tutti in tutto il mondo. La preghiera è stata introdotta da Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio che ha ricordato le parole di Papa Francesco – respingere è un atto di guerra- proponendo un modello di accoglienza che nascendo dalla preghiera dei migranti su quel mare di paura che diventa il Mediterraneo durante il viaggio della speranza, sia un fatto di pace nelle città: un abbraccio che dà frutto. Durante l’omelia appassionata, Mons. Genchi ha ricordato quanto sia fondamento degli uomini di Dio non respingere chi arriva da lontano e sia necessario stringere quelle braccia bagnate che affiorano da una barca in cerca di speranza e salvezza, braccia bagnate come dovrebbero tornare ad essere i nostri occhi nel riscoprire il pianto di fronte al grido di aiuto di chi scappa dalla guerra, il pianto di chi vuole essere semplicemente umano davanti a Gesù che ci chiede di accoglierlo quando è straniero, sempre, senza nessun giudizio perché la salvezza è per tutti. Il canto del Kyrie eleison ha accompagnato la lettura dei nomi delle persone morte in mare durante il viaggio, cullando come onde quiete la commozione visibile sugli occhi di tanti, della gente che si è alzata in piedi per accendere una candelina, dei migranti presenti che hanno sentito ricordare il nome di un amico, di un parente, di un fratello. Nella Chiesa di Santa Chiara tanti uomini e tante donne hanno voluto dare una casa al ricordo di chi non è arrivato vivo con il corpo, uomini e donne che hanno fatto una scelta netta ed hanno pregato affinché nessuno debba morire di speranza e perché si apra una faglia di amore nel cuore troppo indurito di chi vuole respingere: morire di speranza infatti, è sempre inaccettabile.
Il 10 Agosto 2013 è una data che ha segnato profondamente la città di Catania: A pochi metri dalla speranza raggiunta, la riva della sabbia della playa, al largo del Lido Verde, la speranza infranta : Una barca si arena, sei sono i morti, tutti africani, sei volti, cinque nomi, uno ignoto che la città di Catania, ad un anno dalla tragedia, ha voluto incidere su una targa in metallo posta sopra una stele in pietra lavica. Nomi incisi nell’anima della città su una pietra che pesa nel cuore dei suoi cittadini. Quella data non è solo una data di morte, ma rappresenta la data da cui inizia un movimento di pace e di speranza che raccoglie Catania, che raccoglie i suoi giovani che quel giorno erano alla Playa ad abbracciare i sopravvissuti e a piangere i morti, le sue istituzioni che hanno scelto per l’accoglienza, la sua gente, come il proprietario del lido verde che chiuse lo stabilimento per lutto. A due anni dal naufragio il 10 Agosto rappresenta ancora di più una data da ricordare, da tenere stretta nella memoria, una data da cui nasce un movimento che ha dato frutto nella città e sta interessando l’Europa tutta. Davanti alla stele commemorativa oggi c’erano tanti giovani migranti e italiani insieme, c’era il vicesindaco Marco Consoli, Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, il titolare del Lido Verde Dario Monteforte, il cerimoniere del Comune di Catania Luigi Maina, c’eravamo noi giovani per la pace, da tutta Italia, il movimento genti di Pace. La memoria è parte di #3giornisenzafrontiere. Oggi siamo tutti qui per ricordare il 10 Agosto 2013, dice il Vicesindaco Marco Consoli, una data importante, un giorno in cui nella nostra spiaggia abbiamo raccolto quei corpi inermi, quelle persone che volevano raggiungere il sogno di una vita migliore, è importante esserci tutti, istituzioni, come quelle della città di Catania che hanno fatto una scelta netta, società civile e gente comune perché in quella data è nato un flusso di solidarietà che ha abbracciato tanti nella città, in particolare tanti giovani migranti, nuovi europei, come quelli che fanno parte della comunità di Sant’Egidio che, una volta accolti in maniera umana e semplice hanno scelto di aiutare i più poveri italiani. Questi sono fatti che la città di Catania vive che superano qualsiasi demagogia volta ad orientare l’opinione per interesse e oggi da Catania vogliamo una nuova Europa che sia accogliente con i migranti. Fare memoria – sostiene Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio- ci aiuta a ricordare che morire in mare o durante i viaggi, morire di speranza è uno scandalo. Dall’esercizio della memoria è nata un alleanza per l’accoglienza. Il respingimento, dice Papa Francesco, è un atto di guerra, ma se anche l’Europa fa atti di guerra, allora chi scappa dalla guerra dove dovrà andare? Noi in Sicilia abbiamo fatto una scelta netta per l’accoglienza che ha coinvolto tanti. Fare memoria è un atto di Pace, oggi noi ricordiamo lo sbarco del 10 Agosto 2013 che ha acceso...
A Catania presso la sala conferenze del Palazzo della Cultura, si è svolta la cerimonia iniziale di #3GiornisenzaFrontiere, la più grande tre giorni di giochi integrazione e divertimento che avrà luogo dal 9 all’11 Agosto, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Prefettura- Ufficio territoriale del Governo di Catania, il Comune di Catania e la Capitaneria di Porto- Guardia Costiera. La cerimonia iniziale, introdotta da Sebastian Intelisano della Comunità di Sant’Egidio, ha visto presenti Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, il Vicesindaco della Città di Catania, Marco Consoli, Il presidente della Consulta Comunale Giovanile Pierangelo Spadaro e Luis Laudonia, direttore artistico del Lido Azzurro che ospiterà parte della tre giorni. La sala vedeva numerosi giovani, tra cui molti provenienti da diverse parti di Italia, in particolare da Trieste e Padova che hanno scelto di venire a Catania proprio per partecipare alla tre giorni. C’erano numerosi migranti, nuovi europei, impegnati nelle attività di solidarietà ai più poveri con la Comunità di Sant’Egidio. La città di Catania – dice Marco Consoli, vicesindaco della Città di Catania- è votata all’accoglienza, l’accoglienza è nel suo DNA e questo lo si è capito meglio da quando, dal primo sbarco del 10 Agosto 2013, le storie dei migranti hanno messo in moto un flusso di solidarietà che rende pietre inaccettabili le parole di chi vuole respingere. Accogliere significa salvare vite umane e questa tre giorni rende evidente che se l’accoglienza viene coltivata da valori come il ricordo commosso e amicizia, diviene integrazione che regala momenti belli per tutti. Accogliere è una cosa semplice- dice Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, e #3giornisenzafrontiere vuole essere una tre giorni dove si vivano tre principi: quello del gioco, che si respira tra familiari e persone che si vogliono bene, come sono i giovani italiani divenuti amici dei giovani nuovi europei, il principio della memoria, di una città che non dimentica le vittime del mare che sono considerate come parenti prossimi che abbiamo dolorosamente perso e, infine, quello della preghiera, come la preghiera “Morire di Speranza, che avrà luogo l’11 Agosto alle ore 18:00 presso la Chiesa di Santa Chiara, per ricordare tutte le vittime del mare e vivere come un grande scandalo la morte a cui non si può concedere la parola “fine”. Se respingere, come dice Papa Francesco, è un atto di guerra, accogliere è un atto di pace e la #3giornisenzafrontiere è un atto di pace, è una dichiarazione di pace ad un mondo impazzito e sedotto da una logica della guerra e della violenza diffusa, compresa quella verbale che offende la dignità dell’uomo. #3giornisenzafrontiere vuole essere un atto di pace che si tramuti in proposta: la proposta dei giovani che hanno assunto come propria l’identità dell’accoglienza e che si raduneranno nei prossimi giorni. E’ una proposta che nasce dalla Sicilia, terra che incontra più di altre chi migra. E’ una proposta netta di una città che ha un’anima e che ha scelto di non sovrapporre le logiche piccole alla larga domanda di pace...
Mercoledì a Messina sono arrivati 453 migranti. Insieme ai vivi riusciti ad attraversare indenni la terribile prova del mare, sono arrivate drammaticamente e quattordici bare, quattordici vite spezzate prima di abbracciare la nuova speranza in Europa, quattordici persone che oggi non ci sono più e che ci ricorderanno per sempre come sia inaccettabile morire di speranza. Noi eravamo al porto per accogliere e per porgere un fiore su ciascuno di quelle bare, eravamo insieme al vicario del vescovo, a un monaco buddhista e al Presidente della Comunità Islamica di Messina, per pregare per questi fratelli che sono scappati dalle loro città, dalla guerra e povertà, che sono scappati per trovare un rifugio sicuro ed hanno trovato un muro di acqua a fermarli. Le nostre preghiere devono infrangere quel muro perché mai più chi parte dalle tragedie del mondo debba morire di speranza.
Piazza Bologna, una mattina d’estate. Una quindicina di ragazzi ventenni eritrei, ospiti del centro Baobab di via Cupa si ritrovano con tanti giovani e studenti universitari del quartiere per passare una mattinata diversa. I passanti guardano incuriositi, sicuramente ciò che notano è insolito. Infatti armati di rastrelli e palette concessi gentilmente dall’AMA, europei e nuovi europei, come una cosa sola, puliscono la piazza dallo sporco, bottiglie, bicchieri da cocktail. È un gesto concreto per il quartiere. Lavorare insieme crea legami, ci capiamo al volo nel gestire le cose da fare. Insieme raccogliamo una quindicina di sacchi neri di immondizia e, una volta finito, decidiamo di andare insieme a villa Torlonia. Sulla strada, anche se con difficoltà, cerchiamo di comunicare (solo Laga, il più grande, parla inglese e traduce per gli altri in tigrino). Una cosa che si rivela utile è la cartina dell’Africa mostrata sul cellulare. Su di essa cercano di spiegarci che viaggio hanno fatto, da dove vengono, dove sono i fratelli e le mamme. Qualcuno li va a raggiungere in Europa, alcuni ci raccontano che i propri parenti non hanno visto l’Europa a causa del terrorismo del Daesh. Dopodiché ci separiamo, ognuno torna a casa, chi alla sua, chi al Baobab, ma è nata l’amicizia di chi si chiama per nome e di chi vuol bene alla città. È bello pensare che il bicchiere sporco lasciato a terra sia stato raccolto dal senso civico di un migrante come Thomas, dall’Eritrea. Lo ha fatto senza rimprovero né vanto: solo un gesto semplice di civiltà e un segno di buona convivenza che è sempre possibile! di Michele Mastropietro
A Primavalle, il 25 giugno nella parrocchia romana di Santa Maria Assunta e San Giuseppe c’erano all’incirca 400 persone, tutte lì a testimoniare la loro presenza,per far comprenderei che esiste ancora la solidarietà. Entrati nella chiesa, si sente l’odore di una calda famiglia, di cuori pronti a battere all’unisono per condividere gli stessi sentimenti. Nell’aria si sentiva tristezza,malinconia. Le lacrime iniziano a scendere a poco a poco sul viso della gente alla pronuncia dei nomi delle vittime del mare. Il dolore è straziante,ma la voglia di stringersi attorno ai loro nomi, alla loro storia lo è ancora di più. Moltissime persone hanno partecipato all’accensione di una candela,che in breve tempo sembrava essersi trasformato in un grande cero fatto di candele,dove,ognuna di esse,rappresentava una vita, illuminata dal ricordo che ancora illumina la nostra speranza. Persone che come noi,volevano vivere una vita tranquilla,senza distinzioni. Perchè in fondo,tutti siamo uguali. di Francesca Iachini
Basterebbe la testimonianza di Alì, giovane del Mali sopravvissuto ad una delle tante stragi del Mediterraneo, per esprimere il senso della fiaccolata di ieri. Le ingiustizie subite durante il viaggio nel deserto, in Libia e nell’estremo tentativo di raggiungere l’Italia..si estremo perché lui non voleva partire, sperava ancora di trovare un futuro sereno in Africa. Ma la guerra, la povertà e la barbara uccisione di un suo caro amico in Libia l’hanno convinto che l’unico modo per ricominciare a sperare era raggiungere l’Europa. Il racconto di Alì e di tanti altri che sono stati costretti ad abbandonare la propria terra deve far riflettere ognuno di noi per tutti i giorni che ci lamentiamo delle nostre condizioni, dei problemi( se pur veri) che attanagliano la nostra città e non la fanno respirare,pensare che una soluzione è possibile se cominciamo a voltarci verso l’altro invece di guardare solo all’ abisso del nostro Io.
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