CONAKRY (GUINEA) – Perché non vinca il sonno della rassegnazione che fa ritenere la guerra inevitabile; perché si allontani il sonno dell’arrendevolezza al male che continua ad opprimere il mondo.
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Con Ibrahima Sory Barry Per coloro i quali non conoscono la storia della Guinea (cartina geografica), val la pena di ricordare che il 28 settembre 2009, giorno che sarà poi soprannominato “lunedì di sangue”, le Forze dell’ordine guineane uccisero più di 150 connazionali e violentarono oltre 40 donne.Almeno 1500 persone furono ferite, molte altre furono vittime di “sparizione” o vennero arrestate. Una serie spaventosa di esecuzioni extragiudiziali, torture e altri maltrattamenti, stupri, schiavitù sessuale e detenzioni arbitrarie furono perpetrati ad opera della gendarmeria (un corpo d’élite delle forze armate della Guinea) e della polizia. Ad oggi, solo otto persone sono state processate per atti che sono stati commessi invece da decine di membri delle Forze dell’ordine. Un massacro questo sepolto nel dimenticatoio della storia. Solo nel 2013, è stata condotta un’inchiesta da parte diSouhyer Belhassen, Presidente onorario della Federazione internazionale delle leghe per i Diritti dell’Uomo (FIDH), per rinforzare la lotta contro la dilagante impunità (tutt’ora presente nel Paese), per garantire lo stato di diritto e favorire il processo di riconciliazione nazionale. Proprio in questi giorni, la FIDH e l’OGDH (l’Organizzazione Guineana a difesa dei diritti dell’uomo e del cittadino) hanno finalmente imposto alle autorità guineane di rendere giustizia alle vittime del massacro entro la fine del 2015. “Oggi la Guinea è impegnata in una corsa contro il tempo: ha l’opportunità, per la prima volta nella sua storia, di rendere giustizia alle vittime dei crimini commessi sul suo territorio negli ultimi anni, a partire dal sanguinoso 28 settembre 2009. Se non vi saranno provvedimenti immediati per chiudere i processi in corso, la Corte Penale Internazionale si approprierà del dossier e giudicherà i presunti responsabili in qualità di organo sovranazionale” – queste le parole della stessa Souhayer Belhassen. “Il nuovo ministro della giustizia – ha detto Angel Gadiry Diallo, rappresentante della OGDH – sembra aver dato una spinta importante per la realizzazione di un sistema giudiziario efficiente; specialmente per la risoluzione di casi sensibili come quelli citati. Attendiamo ora una conferma di questa apertura attraverso la rapida conclusione dei processi”. La strada che la Guinea deve percorrere è quella dell’istituzione di un Consiglio Superiore della Magistratura e della riforma del sistema giudiziario, condizioni essenziali per la nascita di un vero e proprio apparato legislativo: il codice di procedura penale deve essere riesaminato alla luce degli impegni internazionali che la Guinea si trova a dover ottemperare. Forse, dopo quasi tre anni dalla fondazione della “Commissione provvisoria di riconciliazione nazionale”, co-presieduta dal Primo Imam della grande Moschea e dall’Arcivescovo di Conakry, si potranno davvero raccogliere i primi frutti del processo di riconciliazione che consentirà alla Guinea di soddisfare il bisogno di verità e giustizia del suo popolo, ed alleviare il dolore profondo dei tanti cittadini guineani, tuttora vittime di gravi violazioni dei diritti umani. E viene spontaneo pensare alle tante parti della Terra dove i diritti umani sono calpestati e derisi giorno per giorno…E poi diteci se questo non dovrebbe far notizia! Guarda il seguente reportage, “Guinea: cercando giustizia per un massacro”: Leggilo anche su: Vento nuovo
Il primo maggio 2014, a San Giovanni Gemini, nell’Agrigentino si è tenuta la manifestazione “Giovaninfesta” dal tema “Don’t pass over” ovvero “Non passare oltre”. La manifestazione ha visto coinvolti più di quattromila giovani, che hanno impiegato un giorno di vacanza per ascoltare diverse testimonianze. La prima, da parte del signor Costantino Baratta, un uomo comune che con tanto coraggio è riuscito a salvare la vita di undici migranti sbarcati sulle coste dell’isola di Lampedusa. L’uomo ha raccontato di essersi accorto di alcune persone in mare, bisognose disoccorso e con grande prontezza, ha offerto loro un efficace aiuto e, dopo averli salvati, li ha accolti nella sua casa, aiutandoli a mettersi in contatto con le loro famiglie. E’ stata messa in risalto la determinazione dell’uomo a “non passare oltre” ma invece, a preoccuparsi di salvare le persone in pericolo. Un’altra significativa testimonianza sull’immigrazione è quella di Felix, Giovane per la pace di Mineo, che ha raccontato il suo passato di sofferenze e pericoli prima di giungere sulla nostra terra, condividendo con il numeroso pubblico, le emozioni di paura, di sconforto provate durante il suo pericoloso viaggio dove ha più volte rischiato la vita. E’ stato arrestato in Libia ingiustamente, perchè scambiato per un sostenitore del dittatore Gheddafi: lì ha subito molte ingiustizie e torture durante i mesi di reclusione e, ormai libero, è riuscito a raggiungere le coste della nostra isola. Alla fine della testimonianza ha esclamato con gioia di aver finalmente trovato la pace e l’ospitalità presso la Comunità di Sant’Egidio – Sono molto felice di essere qui- ha affermato sorridendo. Tra divertenti coreografie e coinvolgenti canzoni, quello della “mafia” diventa l’argomento trattato attraverso la testimonianza dell’ imprenditrice Valentina Ferraro che con ammirevole coraggio ha denunciato Mario Messina Denaro, fratello del boss mafioso Matteo Messina Denaro. Forte infatti e a più riprese, è stata la presa di posizione contro la Mafia del Vescovo di Agrigento, Francesco Montenegro. La manifestazione si è conclusa con il brano “ We want peace” eseguito da Felix e da altri due Giovani per la Pace di Mineo, realtà composta da giovani richiedenti asilo politico, che hanno voluto dedicare il loro pensiero alla pace nel mondo. Nelle ore del pomeriggio, vari stand sono stati aperti al pubblico, compreso quello dei “Giovani per la pace” di Catania. Abbiamo lanciato una raccolta firme, rivolta alla pubblica amministrazione catanese per ottenere una targa commemorativa per le vittime dello sbarco a Catania del 10 agosto 2013. Firma on line la petizione dei Giovani per la Pace Incontrando i giovani dell’agrigentino abbiamo illustrato i servizi dei “Giovani per la Pace”, rivolti ai più poveri e invitato i passanti incuriositi a conoscere in modo più approfondito la Comunità di Sant’Egidio e soprattutto a farne parte. Con alcuni di loro, provenienti da tutte le parti della Sicilia, si prospetta di aprire delle nuove sedi laddove ce ne sia bisogno. Qualche ora dopo, gli stand vengono chiusi e la giornata si conclude con la felicità di aver passato un
Se vuoi scoprire il valore del silenzio, immergiti nel frastuono. E se vuoi scoprire il valore di una parola gentile, immergiti nella solitudine di una sera. Se vuoi scoprire il valore di un sorriso, asciuga le lacrime di chi è nel pianto. E se vuoi scoprire il valore di un abbraccio, stringi forte a te con tutta la tua dolcezza un bambino che non ha mai avuto nessuno che si prendesse cura di lui: colmerai in questo modo un po’ del suo infinito bisogno d’affetto.
Oggi parleremo di un argomento che a noi Giovani per la Pace sta a cuore perché alcuni di noi sono stati in Mozambico, perché ventuno anni fa la pace è stata raggiunta grazie all’impegno della Comunità, perché in Mozambico ci sono circa 100 comunità tra città e realtà locali, perché l’amicizia con questo paese è nata proprio sul tema della pace e ci ha aperto il cuore sull’Africa. Parlo di Mozambico, però, perché sono preoccupata. La Frelimo e la Renamo si sono combattute per quasi vent’anni in una sanguinosa guerra civile, finché la Comunità di Sant’Egidio, non ha deciso di porsi come mediatore, riuscendo a raggiungere dopo 2 anni di trattative la pace. A seguito dei Trattati di Roma (4.10.1992), l’esercito è stato unificato e in Mozambico si sono tenute elezioni libere e democratiche, che hanno portato al potere la Frelimo, mentre la Renamo riusciva a ottenere delle vittorie politiche locali (soprattutto nel nord del paese). La democrazia ha permesso che il Mozambico divenisse uno dei paesi più ricchi ed emergenti dell’Africa, meta di turisti, ma anche di tanti profughi che fuggono dalle guerre e dalla povertà. Dai giornali ho appreso che il 21 ottobre l’esercito ha attaccato la base della Renamo a Gorongosa, dove il capo del partito, Afonso Dhlakama, era rifugiato da circa un anno e da cui è fuggito verso un luogo ignoto. Sta bene, secondo le dichiarazioni di alcuni giornalisti del giornale mozambicano O Paìs, che l’hanno incontrato, così come sta bene la popolazione, fuggita prima dei bombardamenti. Ho quindi letto su diverse testate che Afonso Dhlakama non riconosceva più i trattati di Roma, per poi leggerne l’esatto contrario circa quattro giorni dopo (il 25 ottobre). Ho pensato, allora, di parlare con qualcuno che è continuamente in contatto con il Mozambico e i Mozambicani, per avere un’immagine più chiara della situazione; pertanto, ho intervistato la professoressa Chiara Turrini, responsabile della Comunità di Sant’Egidio in Mozambico. Redattore: Dai giornali italiani abbiamo letto dell’attacco del governo alla base della Renamo, ma è scoppiata così improvvisamente la tensione o c’erano già dei presupposti? Chiara Turrini: Sì, dei presupposti c’erano già perché la Renamo ha chiesto di cambiare la legge elettorale in vista delle elezioni municipali che ci saranno e il 20 novembre e le nazionali che ci saranno il prossimo anno e purtroppo non hanno trovato un accordo sulla riforma della legge elettorale. Si erano create da alcuni mesi due delegazioni, una del governo e una della Renamo, per provare a fare un tavolo di dialogo ma purtroppo non è stato trovato l’accordo, fino a che sono cominciati… Degli incidenti c’erano già stati dopo Pasqua di quest’anno nell’ultimo tratto di autostrada, che è la strada principale che collega il Nord con il Sud, vicino a Beira. R: Quali potrebbero essere le cause delle tensioni? Sono semplicemente politiche o c’entrano anche i giacimenti di gas recentemente scoperti? CT: In Mozambico hanno trovato molte ricchezze naturali negli ultimi anni, il carbone, il gas… Io penso che sì, ha a che...
La prima impressione appena arrivati a Blantyre(Malawi) è stata quella di non aver mai realmente pensato e vissuto la povertà africana prima di allora; allo stesso tempo abbiamo respirato subito quel desiderio di rinascita e speranza del popolo africano. La vera Africa non è quella del Safari, ma quella della calorosa accoglienza dei nostri amici della Comunità di Sant’Egidio di Blantyre, dell’incontro con i bambini e della visita agli anziani confinati in piccoli rustici sulla montagna. La percezione della vecchiaia in Africa è un insieme di contraddizioni: anche se a volte si riconosce agli anziani il ruolo di padri della patria e custodi della saggezza, nella maggior parte dei casi li si abbandona al di fuori della società; il parallelo con i nostri amici anziani in Italia ci ha fatto riflettere su come bisogna cambiare la cultura nelle nostre città e costruire un’amicizia tra generazioni. La visita al centro DREAM ci ha fatto capire che nella vita non bisogna mai rassegnarsi: la professionalità e la solidarietà di dottori, attivisti e volontari hanno creato in Africa un futuro di speranza per molti malati di AIDS. Il primo incontro con i bambini del Centro Nutrizionale è stato molto toccante: vedere nei loro occhi la felicità per un piccolo gesto di affetto o una parola dolce ci ha fatto comprendere quanto aspettavano la nostra visita e quanto in due settimane avremmo potuto fare per non far rimanere il nostro incontro solo un’esperienza, ma renderlo un punto di partenza per un futuro migliore. La nostra amicizia significa molto per loro, ci fa capire l’importanza della vicinanza ai poveri e la gioia che si prova nel dedicare il proprio tempo agli ultimi. In particolare Sellina e Lucy si sono affezionate subito a noi e, quando siamo andati a trovare gli anziani, loro ci hanno aspettato al centro nutrizionale per poterci rivedere e salutarci calorosamente. Nel week-end siamo andati a trovare i ragazzi del riformatorio: la maggior parte di loro sono lì per aver rubato poco più di una gallina ma, nonostante le precarie condizioni di vita, si riesce a leggere nei loro occhi il desiderio di riscatto e la voglia di vivere una vita serena; l’accoglienza che ci hanno riservato ci ha subito scaldato l’animo e ci ha fatto capire che per loro anche una semplice visita significa molto. All’orfanotrofio il benvenuto è stato sempre molto gioioso: i bambini erano felicissimi della nostra visita e ci hanno dedicato alcuni balli africani; i bimbi del centro nutrizionale hanno regalato i loro disegni agli orfani e si sono esibiti con le canzoni della Scuola della Pace. Quello che abbiamo imparato in queste due settimane in Malawi non lo si apprende né leggendo i giornali né guardando la tv: la felicità, la speranza e l’amicizia con i bambini ha addolcito il nostro cuore e ci ha aperto gli occhi sul mondo africano e sull’importanza di un ponte di solidarietà tra Europa e Africa. http://www.santegidio.org/pageID/3/langID/it/itemID/7467/Vi_raccontiamo_la_nostra_estate_di_solidariet_in_Africa.html Roberto Barrella
“Bisogna conoscere culture diverse, parlare con tutti, anche con i terroristi, e cercare di mettersi sempre nelle scarpe degli altri.” Così esordisce il grande musicista e cantante Peter Gabriel, che, in occasione dell’apertura del summit a Roma tra i premi Nobel per la pace del 2006, ci invita a riflettere su realtà e culture che al giorno d’oggi possono risultare remote ed inaccessibili. L’ex frontman dei Genesis ha cercato nei suoi svariati album solisti (in particolare in “III” e “IV”) di riportare in auge tradizioni e culture differenti affiancandosi artisti appartenenti al mondo africano e non, del calibro di Youssou N’Dour, Yungchen Lhamo e Nusrat Fateh Ali Khan, attingendone le sperimentazioni musicali che in seguito contribuiranno all’evoluzione della cosiddetta “world music”. Come importante esempio che risente degli influssi musicali della “world music” possiamo citare il terzo album solista “III” del 1980. Nel brano “Games Without Frontiers” il testo, ispirato ai giochi senza frontiere televisivi, da una parte dipinge una realtà sociale dove i giochi tra bambini costituiscono la soluzione alla violenza, dall’altra si fa ironico e prelude alla possibile guerra. In “Biko”, inno solenne scritto in memoria dell’attivista politico Stephen Biko, morto nel 1977 nella lotta contro l’apartheid, si può notare come le parole e la musica convergano in un vero e proprio canto africano. L’album “IV”, invece, è uno dei più grandi apporti di Gabriel alle lotte per la libertà e l’uguaglianza, che entra in sintonia con gli analoghi sforzi attivistici di Paul Simon (Simon & Garfunkel) . “Wallflower” introduce il tema dei Desaparecidos, “San Jacinto” confronta la società olistica dei pellerossa con la vuotezza dell’America dei fast food. Inoltre in questo album è esemplare il tentativo da parte di Gabriel di far coesistere le tradizioni musicali della cultura africana (“The Rhythm Of The Heat”) con le nuove tecnologie emergenti (ad esempio il nuovo sintetizzatore “Fairlight”, di lì utilizzato frequentemente dall’artista). Il cantante, che considera la musica una forma di comunicazione universale, vede nella conoscenza reciproca un fattore fondamentale per promuovere la pace nel mondo. Nella canzone “I Have The Touch” Gabriel sottolinea quanto il contatto, non solo mentale, ma anche fisico tra le persone possa risultare essenziale anche nella sua semplicità, e ciò assume il ruolo di un indispensabile gesto sociale (“The pushing of the people / I like it all so much”). L’interesse di Gabriel verso le culture lontane e meno conosciute ha gettato le basi per il movimento WOMAD (“World Of Music, Arts and Dance”), volto a diffondere tramite la musica la conoscenza e i valori di culture lontane e differenti dalla nostra. L’artista ha anche promosso il progetto “Witness”con l’obiettivo di di informare le persone degli abusi subiti tramite la distribuzione di mezzi video-informatici ai grandi attivisti che lavorano in loco. “E’ più difficile negare certe cose se sono state registrate con foto, video o testimonianze” conclude Gabriel al termine della conferenza. Pertanto la musica non solo è in grado di creare una rete umana fatta di popoli e culture variegati,...
“La vita è come un lungo viaggio in macchina, soggetto a imprevisti. Un giorno, la macchina su cui viaggiavo si è rotta all’improvviso. Nel buio della notte. In una strada deserta. Davanti a una linea rossa. Ma proprio quando avevo cominciato a rassegnarmi qualcuno è venuto in mio soccorso. Si è sporcato le mani e mi ha permesso di riprendere il viaggio. La linea rossa non era più il termine, ma un punto di partenza. Da quel momento non sarei più stata sola.” Pacem Kawonga, Un domani per i miei bambini P. Kawonga, Un domani per i miei bambini Piemme, aprile 2013 La vita di Pacem è segnata. È una condannata a morte, ma il suo boia è paziente: non la viene a prendere subito, forse la lascerà tranquilla a lungo, ma prima o poi la verrà a prendere, lo sa. Il suo boia ha già cominciato a stuzzicare Melinda, la sua secondogenita, sempre malaticcia e piccola, e suo marito, James, un uomo manesco e infedele nel quale Pacem cerca disperatamente di ritrovare colui di cui si era innamorata. Il boia di Pacem si chiama AIDS, una malattia che in Malawi, come in tutta l’Africa, equivale a una condanna a morte, anzitutto sociale. Pacem, però, ascolta la radio, ascolta le storie dei malati, scopre che una speranza c’è, che forse può allontanarsi dal burrone verso il quale sembra si stia dirigendo. Si chiama DREAM ed è un sogno per ogni malato di AIDS. DREAM, Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrion, è il programma di cura dell’AIDS e prevenzione materno-infantile della Comunità di Sant’Egidio, è il sogno di dare agli Africani le cure Occidentali e permettere a madri malate di far nascere figli sani a costo zero. È un sogno che ha esordito nel 2002 in Mozambico, riuscendo a raggiungere nel 2012 dieci paesi (Mozambico, Malawi, Tanzania, Kenya, Repubblica di Guinea, Guinea Bissau, Camerun, Congo RDC, Angola e Nigeria), dopo essersi scontrato con il pregiudizio di tanti. Pacem ha incontrato questo sogno quando era appena approdato in Malawi e si è fidata di medici, infermieri, operatori di quell’ambulatorio un po’ strano dove nessuno sembrava aver fretta e in cui il paziente diventava il centro delle attenzioni del personale. Oggi, Pacem è un’attivista del progetto DREAM, parla per le piazze, per le strade e i quartieri, racconta la sua storia, come in Un domani per i miei bambini, edito per Piemme, che consigliamo di leggere; parla al cuore di uomini e donne che ancora il test non l’hanno fatto, dona loro una nuova speranza: l’AIDS si può vincere! Non è una condanna a morte. È proprio la Speranza la grande coprotagonista di questo libro e non è solo la speranza di Pacem, che fa il test e va alla ricerca delle cure per lei e per il marito anzitutto per paura di lasciare orfani i suoi bambini come a lei stessa era successo. È la speranza di quanti si sono affidati al Programma DREAM e hanno scoperto che ciascuno di...
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