L’ abbiamo attesa come un dono l’Africa, ci siamo preparati il cuore e siamo partiti. In Africa si può andare anche senza una valigia, basta veramente un cuore, che parte povero e torna ricco. Questa Africa ci ha insegnato l’ amore e il valore per la vita di ognuno. In Mozambico ci siamo sentiti a casa, abbiamo incontrato parte della nostra grande famiglia ed era come appartenersi da sempre. Immaginiamo lo stesso mondo. Dream é il luogo più sacro del nostro mondo, dove si rinnova ogni giorno il miracolo della vita, soprattutto nella forza delle attiviste. I giovani per la pace di Matola stanno crescendo, hanno grinta, tenacia, l’ allegria e più di ogni altra cosa ci credono fedelmente con ogni fibra e su questo abbiamo veramente da imparare. Questa nostra Africa ci ha insegnato la cura e l’ attenzione, ma soprattutto ci ha trasmesso passione. La passione per il cambiamento, per quella rivoluzione dei cuori e del mondo e ci ha mostrato segni evidenti di quanto tutto questo sia possibile, di quanto è capace di cose grandi la Comunità che prega e che sogna. Le cuoche, i bambini, i bambini che diventano grandi ma restano per aiutare i piccoli dopo di loro, il centro nutrizionale, la fatica che è sempre alllegria, c’ e’ sempre un motivo per abbracciarsi e per sorridere insieme al centro di Matola, anche quando ci sono più di 500 bocche da sfamare ogni giorno. Torniamo a Napoli cosapevoli che quella.terra adesso ci appartiene più di prima. Torniamo con la forza e l’ entusiasmo che ci spingono a fare di più per quell’ “Africa” che ritroviamo ogni giorno nella nostra città, soprattutto nelle periferie dove più nessuno volge lo sguardo, ai bordi delle strade che si fanno case, negli istituti, nei giovani. In noi. L’ Africa insegna a guardare. Ad amare. Questo é il dono. Di Francesca Sepe
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Ogni città nasconde segreti e meraviglie che molto spesso nemmeno le persone che le abitano conoscono. Non è difficile trovarle, a volte basta cercarle e guardare oltre le apparenze. Si trovano in zone trafficate dove le persone passano continuamente ma sono immerse nei loro pensieri, poco curiose di scoprirle o meglio impaurite da quello che possono rivelare. A volte è più facile non sapere; il diverso destabilizza. Voglio raccontarvi alcune storie per farvi scoprire luoghi nascosti, persone poco conosciute della mia città che hanno un passato, un presente e un futuro da condividere con noi. Le stazioni sono luoghi di transito, ove persone ogni giorno circolano con le loro valigie, corrono ,hanno paura di perdere il treno e non si rendono conto di quello che li circonda. Ecco, il primo luogo della nostra storia, la stazione. La stazione nasconde molti segreti, è un luogo conosciuto da tutti dove gli sguardi si incrociano per poi perdersi nei diversi vagoni ma aldilà dei binari, del rumore del treno che sta partendo possiamo intravvedere un edificio apparentemente abbandonato. Non è così, ci vivono persone, ragazzi con una propria meravigliosa storia. Faisal, il ragazzo degli occhiali fashion , ha diciannove anni, sguardo penetrante, è arrivato in Italia da poco dopo un viaggio estenuante, non vuole niente soltanto un ombrello per ripararsi dalla pioggia che neanche il tetto di un palazzo riesce a bloccare e un paio di occhiali Fashion. Vuole poter essere un ragazzo della sua età, vivere la spensieratezza di un ventenne e dimenticare per qualche istante le difficoltà della vita. Romi, il più rumoroso del gruppo pensa che alzare la voce sia il modo migliore per sembrare forte ma in realtà è soltanto un modo per nascondere le paure, le malinconie. desidera amici, vuole una vita normale, quella vita che molti ragazzi come noi sprecano senza capire la fortuna che hanno. Ad un altro ragazzo mancavano due mesi per finire l’università nel suo paese ma è dovuto scappare, lasciare i suoi affetti i suoi luoghi… Queste sono alcune storie di ragazzi come noi, che hanno dovuto abbandonare la loro città in cerca di qualcosa di migliore. Cerco un luogo dove custodire i loro ricordi, le emozioni delle ultime settimane. Le persone speciali di queste storie sono riuscite con uno sguardo, con poche parole a rispondere ad alcuni dubbi/domande che i grandi e i giornali non sempre riescono a darmi. Ho condiviso con loro momenti importanti, costruito un’amicizia, abbattuto barriere e sconfitto la paura collegata all’ignoto. Ho capito che le mie paure derivano dal fatto di non conoscere una cultura, un popolo, delle abitudini diverse dalle mie. La cronaca ci informa solamente di episodi negativi senza mostrarci che anche loro vogliono far parte della nostra comunità, aiutando il prossimo. Ieri uno dei nostri amici richiedenti asilo ha aperto la propria casa per festeggiare il compleanno di una bambina rumena perché avessimo un posto più grande dove poter stare tutti. Un altro giovane per la pace nuovo europeo ha voluto comprare personalmente un...
La guerra non è mai santa” dice l’appello di #peaceispossible e ripensando all’11 settembre di quattordici anni fa queste parole risuonano nelle mie orecchie. Non esiste una guerra santa, non è mai santo togliere la vita a un altro uomo e non esiste modo di giustificare un assassinio o una strage. Il Signore chiede di porre la nostra vita al suo servizio, non di macchiare il suo altare con il sangue dei suoi figli. Il sacrificio di Isacco ce lo ricorda: il Signore non permise ad Abramo, padre di tutti i credenti, di uccidere suo figlio, bloccò la sua mano. Neanche Dio permise ad Abramo di offrirgli sacrificio con il sangue del proprio figlio, quindi come possiamo pensare che uccidere altri esseri umani sia santo? La violenza in nome di Dio è un sacrilegio, uccidere in nome di Dio è un sacrilegio. Non c’era nulla di santo negli attentati dell’11 settembre 2001, non c’era nulla di Santo nelle guerre che dopo ne sono scaturite. Dopo quattordici anni ci si apre la domanda di come onorare l’11 settembre, di come chiudere questo periodo di violenze e attentati contro i deboli, contro gli innocenti in nome di un Dio che è amore e misericordia, non certo violento e crudele. La guerra, è sotto gli occhi di tutti, ha miseramente fallito dimostrando che la violenza non può essere risposta perché genera solo altro dolore e altro odio. Deve finire il tempo della guerra, il tempo in cui si può prendere la vita degli innocenti e trovare giustificazione (che sia religiosa o laica). Questo mondo ha bisogno di pace. La pace è l’unica strada possibile per uscire dalla spirale del dolore. Non esiste guerra santa, solo la pace è santa.
Migranti, una sfida globale. E’ questo il titolo della conferenza che si e’ tenuta stamattina al Palazzo dei COngressi di Tirana e trasmessa in diretta dal sito ufficiale della Comunita’ di Samnt’Egidio. Un titolo scottante, che si presenta come una vera e propria provocazione e che richiama un tema di estrema attualita’, nonche’ di emergenza. Una particolare attenzione e’ stata rivolta verso l’intervento di Daniela Pompei, della Comunita’ di Samnt’Egidio. All’interno del suo discorso, e’ stato infatti possible riassumere con estrema chiarezza e precisione la drammatica situazione dei profughi, e di come per anni l’Europa ha scelto di voltare le spalle a queste persone, discutendo piuttosto il numero di quote che eventualmente si sarebbero potute accogliere. Ma l’Europa ha tuttavia rucevuto un colpo, un colpo infertogli dall’immagine – che Daniela definisce “emblematica” – del piccolo Aylan. E da queste immagini che hanno fatto il giro del mondo, qualcosa si e’ finalmente svegliato. Ed e’ per questo che Daniela ha presentato al meeting una serie di proposte finalmente concrete per fronteggiare l’emergenza profughi. Tra le proposte, spicca senza dubbio la necessita’ urgente di riconoscere la protezione europea temporanea ai Siriani, organizzare un sistema di accoglienza fondati su una piu’ ampia cooperazione che coinvolga anche I cittadini, le associazioni, le diocesi e, soprattutto, rivedere il sistema di asilo e di immigrazione europeo. Fa senza dubbio un certo effetto vedere finalmente concretizzarsi delle proposte che non contemplino il ripudio di queste popolazioni che cercano asilo, ma e’ anche vero che queste iniziative comporteranno un imopegno non statico, ma progressivo, interattivo e che non potra’ realizzarsi senza una fitta rete di cooperazione non solo tra comuni cittadini, ma soprattutto tra I giovani. Laura Vesprini
Tirana, 2015. A ventinove anni dal primo incontro tra le religioni di Assisi ,e’ questo il luogo dove si sta svolgendo l’incontro internazionale interreligioso di Preghiera per la Pace, che si presenta con un titolo semplice ma incisivo: Peace is always possible (la pace e’ sempre possible). Ci si chiede tuttavia come mai la scelta sia ricaduta su una citta’ come Tirana, e la risposta non puo’ che ricercarsi nel passato turbolento del paese. Come infatti spiega il presidente della Comunita’ di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, l’Albania e’ stata protagonista di uno scenario drammatico che ha visto durante gli anni un enorme flusso migratorio di cittadini albanesi abbandonare la propria terra in condizioni disastrose, tragiche. Ricordi lontani, ma che oggi sono considerati parte di un tema di grande attualita’. Ma il fascino di Tirana, dove in questi giorni si respirera’ lo spirito di Assisi, lo si ritrova anche nel suo clima di ottima convivenza tra le varie realta’ etniche e religiose presenti sul territorio. Puo’ sembrare infatti surreale, se non utopica, la presenza di cristiani ( cattolici, protestanti e ortodossi) e musulmani che vivono pacificamente giorno per giorno in pace e amicizia. Ma sono queste le fondamenta su cui lavora l’incontro internazionale di preghiera per la pace, e sono queste le fondamenta su cui la Comunita’ di Sant’Egidio si impegna, giorno per giorno, a costruire un mondo piu’ umano. Laura Vesprini
Martedì 11 Agosto alla sera a Gorizia nel parco della Rimembranza si è tenuta una veglia di preghiera per Taimur Shinwari, un ragazzo pakistano di 25 anni. Venerdì scorso è morto tragicamente nelle acque dell’Isonzo goriziano. Taimur aveva percorso un lungo tragitto da migrante per tutto il Medio Oriente e i Balcani come tanti suoi connazionali e coetanei, ma purtroppo è affogato in modo banale nel fiume di Gorizia. Per ricordarlo e per raccogliere fondi, affinché il suo corpo possa ritornare a casa dalla sua famiglia, il movimento dei Focolarini ha organizzato una liturgia assieme agli altri rifugiati alternando preghiere musulmane a quelle cristiane. Oltre ai cittadini italiani vi era un numeroso gruppo di ragazzi richiedenti asilo di Gorizia che hanno mostrato molta solidarietà per il compagno morto. Tante erano le candele accese per Taimur e tanti sono stati i ringraziamenti da parte dei suoi compagni per il rispetto dimostrato durante la loro funzione. I Giovani per la Pace hanno partecipato a questo momento di raccoglimento.
A Catania presso la sala conferenze del Palazzo della Cultura, si è svolta la cerimonia iniziale di #3GiornisenzaFrontiere, la più grande tre giorni di giochi integrazione e divertimento che avrà luogo dal 9 all’11 Agosto, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Prefettura- Ufficio territoriale del Governo di Catania, il Comune di Catania e la Capitaneria di Porto- Guardia Costiera. La cerimonia iniziale, introdotta da Sebastian Intelisano della Comunità di Sant’Egidio, ha visto presenti Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, il Vicesindaco della Città di Catania, Marco Consoli, Il presidente della Consulta Comunale Giovanile Pierangelo Spadaro e Luis Laudonia, direttore artistico del Lido Azzurro che ospiterà parte della tre giorni. La sala vedeva numerosi giovani, tra cui molti provenienti da diverse parti di Italia, in particolare da Trieste e Padova che hanno scelto di venire a Catania proprio per partecipare alla tre giorni. C’erano numerosi migranti, nuovi europei, impegnati nelle attività di solidarietà ai più poveri con la Comunità di Sant’Egidio. La città di Catania – dice Marco Consoli, vicesindaco della Città di Catania- è votata all’accoglienza, l’accoglienza è nel suo DNA e questo lo si è capito meglio da quando, dal primo sbarco del 10 Agosto 2013, le storie dei migranti hanno messo in moto un flusso di solidarietà che rende pietre inaccettabili le parole di chi vuole respingere. Accogliere significa salvare vite umane e questa tre giorni rende evidente che se l’accoglienza viene coltivata da valori come il ricordo commosso e amicizia, diviene integrazione che regala momenti belli per tutti. Accogliere è una cosa semplice- dice Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio, e #3giornisenzafrontiere vuole essere una tre giorni dove si vivano tre principi: quello del gioco, che si respira tra familiari e persone che si vogliono bene, come sono i giovani italiani divenuti amici dei giovani nuovi europei, il principio della memoria, di una città che non dimentica le vittime del mare che sono considerate come parenti prossimi che abbiamo dolorosamente perso e, infine, quello della preghiera, come la preghiera “Morire di Speranza, che avrà luogo l’11 Agosto alle ore 18:00 presso la Chiesa di Santa Chiara, per ricordare tutte le vittime del mare e vivere come un grande scandalo la morte a cui non si può concedere la parola “fine”. Se respingere, come dice Papa Francesco, è un atto di guerra, accogliere è un atto di pace e la #3giornisenzafrontiere è un atto di pace, è una dichiarazione di pace ad un mondo impazzito e sedotto da una logica della guerra e della violenza diffusa, compresa quella verbale che offende la dignità dell’uomo. #3giornisenzafrontiere vuole essere un atto di pace che si tramuti in proposta: la proposta dei giovani che hanno assunto come propria l’identità dell’accoglienza e che si raduneranno nei prossimi giorni. E’ una proposta che nasce dalla Sicilia, terra che incontra più di altre chi migra. E’ una proposta netta di una città che ha un’anima e che ha scelto di non sovrapporre le logiche piccole alla larga domanda di pace...
Voglio condividere con voi le parole che buttai giù due anni fa, sull’aereo di ritorno dal Mozambico, con la certezza che la nostra Africa, neanche quest’anno, ci deluderà. Ma soprattutto, con la consapevolezza che scopriremo altri aspetti della Comunità che ci faranno appassionare, regalandoci ancora una volta la speranza che il mondo può cambiare “Mi ero persa nella mia insicurezza, nella paura di fallire, in quella del confronto. Non mi riconoscevo piú nelle cose e nelle persone che mi circondavano e mi sentivo fuori luogo a parlare di quello che volevo fare nella vita e per la mia pretesa di cambiare il mondo. Qui mi sono ricongiunta con la mia interioritá: in ogni attimo mi sono sentita me stessa, in ogni attimo mi ripetevo che quello era il posto in cui volevo stare, mi ripetevo che quello era il MIO posto. Qui abbiamo conosciuto persone che pur non essendo ricche si sentono tali, pur essendo nullatenenti ritengono la propria vita piena di senso, la ritengono un capolavoro. Pensando all’Africa adesso la prima parola che mi viene in mente è: speranza. Una speranza dettata dalla voglia di vivere, dall’incondizionato attaccamento alla vita. Una speranza e una forza così travolgenti da arrivare nel cuore di chi le sfiora soltanto. Ma dove la trovano questa forza, la fiducia in un domani che sanno essere povero quanto loro? Nella fede, che non è solo la fede in Dio, ma la fiducia nel fatto che le cose possono cambiare, che l’Africa può cambiare se con impegno e dedizione si lavora per questo. La cosa che più mi ha colpito é il modo di approcciare la vita degli africani: vivono la vita come un dono che va difeso a tutti i costi, ma allo stesso tempo prendono le cose come vengono, senza troppe aspettative. Il dolore, le gioie, le malattie sono solo insegnamenti: con le loro saggezza mitigano le delusioni. Ho scoperto gente incredibile: li osservo e mi chiedo da quali ceneri siano rinati. La loro forza probabilmente sta tutta in quella mentalitá straordinaria e primigenia, forgiata dallo stesso magma di cui è composta la nostra buona e vecchia terra. Una mentalitá antica come il primo vagito, sopravvissuta con disinvoltura attraverso le ere barbariche e le derive della modernitá. Nel profondo di questa gente brucia una fiamma eterna che li rischiara e gli ridá vita ogni volta che le tenebre cercano di inghiottirli. Queste persone sono un grande esempio. Ridono dei loro fallimenti come di una farsa mal riuscita. Sono qui, felici di essere insieme, solidali e complici. Li invidio, invidio la loro maturitá temprata da infinite sofferenza e terribili prove, il distacco filosofico con cui vivono i drammi e le sventure, e infine i il loro senso dell’umorismo, che sembra tenere spavaldamente testa a una sorte iniqua e traditrice di cui sono riusciti a decrittare il funzionamento. Parlo di tutti loro: a cominciare dagli attivisti del centro Dream per finire alle cuoche del centro nutrizionale, passando per i Giovani per la Pace di Matola....
Oggi ricordiamo il settantesimo anniversario dallo sgancio della bomba atomica a #Hiroshima. Noi abbiamo conosciuto i sopravvissuti dalla bomba atomica che sono stati accolti dalla Scuola della Pace con dei cartelloni che recitavano la parola “Pace” in tutte le lingue. Pensate: chi ha subito la guerra fino a vederne le conseguenze più estreme, diventa un testimone di pace e cerca giovani e giovanissimi alleati in tutto il mondo affinché la guerra non produca più i suoi effetti tremendi, effetti tatuati nel cuore che svaniranno solo quando la Pace sarà di tutti. Chi oggi fugge da guerre spesso dimenticate ha un’esigenza di pace più grande a cui l’Europa, continente che ha conosciuto la guerra nel suo volto più demoniaco ma che ha scelto per una vocazione di pace deve rispondere facendosi ispirare. La pace è nel nostro nome, siamo i giovani per la pace, perché senza la pace nulla si può costruire, è la base, per dire oggi#warneveragain
#Prima giornata di lavoro per i Giovani per la pace che anzitutto sono andati a conoscere “sul campo” il progetto Dream. Sono andati a visitare i centri Dream di Manga Chingussura e Praia Nova, due quartieri di Beira. Il centro di Praia Nova, più recente, è affiancato dal laboratorio che permette di processare i campioni delle analisi di routine e misurare la carica virale, senza dover mandare il materiale a Maputo (la capitale), dal Centro Nutrizionale, dove ogni giorno a turno vanno a mangiare 200/250 bambini (di cui 30 bambini di strada), dall’asilo e dalla scuola per i bambini di strada. I Giovani per la Pace hanno prima aiutato al centro nutrizionale, poi con alcuni bambini sono andati a giocare, prima del rientro alle rispettive scuole o case. Oggi invece dopo la visita al centro si sono divisi in due gruppi per visitare le due nuove scuole della pace
La storia dei rom di via Rubattino è stata l’avventura di incontro, solidarietà e amicizia che nasce dai bambini rom, alunni come tanti altri, e dagli sforzi dei loro genitori per mandarli a scuola. Rubattino è uno stradone alla periferia est di Milano, piena di fabbriche abbandonate. Qui, tra il 2008 e il 2009, si forma un campo di enormi dimensioni (più di 350 persone). I giovani della Comunità iscrivono 36 bambini rom nelle scuole del quartiere: all’inizio la diffidenza è tanta. Poi grazie al lavoro culturale che la Comunità ha svolto nel quartiere, per tanti residenti i rom non sono più “gli zingari”, una categoria infida e minacciosa, ma sono diventati “il mio alunno”, “il compagno di classe di mia figlia”. I rom sono Vadar, Flora, Madalina, Garofita: per la prima volta avevano un nome.Nel 2009 c’è l’ennesimo sgombero senza grandi alternative ma il quartiere reagisce in maniera inaspettata: insegnanti e genitori dei compagni di classe protestano per l’assenza di alternative e l’interruzione della scuola. Molte persone aprono le porte di casa per dare ospitalità alle famiglie rom, centinaia di cittadini si mobilitano per raccogliere coperte e pasti caldi. Dopo 6 anni questo “contagio di solidarietà” ha portato più di 200 rom a trovare una casa, un contratto di lavoro e a mandare con regolarità i figli a scuola. La storia più bella è quella della famiglia di Georgel, 11 anni, con tanti sgomberi alle spalle: hanno accolto in casa la signora Anna, la loro vicina anziana, quando è stata sfrattata. Georgel ha spiegato così: “È come una catena: noi rom di Sant’Egidio siamo stati aiutati dalla Comunità ad andare a scuola, conoscere il mondo, vivere in casa e non per strada. Adesso anche noi possiamo aiutare altri”. di Elisabetta D’Agostino
Domenica 8 Marzo, giornata internazionale della donna, i Giovani per la Pace di Napoli hanno partecipato alla Liturgia per Elisa nella Parrocchia del Sacro Cuore, che ha ospitato la Comunità in questo giorno importante. Così come una famiglia fa celebrare la messa per i suoi cari defunti, noi abbiamo ricordato i nostri amici di strada conosciuti dal ’97, anno nel quale morì la prima amica ad averci lasciato, una donna, Elisa Cariota. Sono stati ricordati i nomi di più di 200 persone incontrate, conosciute, amate e morte nelle strade di Napoli, accendendo una candela per ognuno di loro. Nomi italiani, stranieri, di giovani e di anziani, di donne e bambini. Per ogni nome un volto, un sorriso, una stretta di mano, una grande storia di amicizia. Il nome. La cosa più scontata di tutte, la prima cosa che ci attribuiscono quando nasciamo, quella che ci da un posto nel mondo. Dire i nomi dei nostri amici è stato un gesto catartico che ci ha ricordato il nostro impegno a non dimenticare nessuno, a far sì che nessuno diventi uno scarto. Ci ha ricordato che la nostra responsabilità è quella di cambiare il mondo, sconfiggendo le regole del mercato, dove quello che vale è l’economia, la convenienza, la produttività e il ricavo. In questo mondo in cui tutti gli stimoli esterni ci spingono a pensare a noi stessi, a risolvere i nostri problemi e a non curarci del prossimo, a meno che non abbia qualcosa in cambio da offrirci, la nostra missione è quella di ritagliare un posto per chi è malato, anziano, povero. Dobbiamo sconfiggere questo modo di concepire la vita dove si perde il senso della gratuitá, della generosità, della solidarietà e ricordare a tutti coloro che ci circondano che ogni vita ha un valore per il semplice fatto che è vita. E se questa concezione è diventata normale per il mondo, allora dobbiamo armarci di tutta la nostra energia per stravolgere la concezione stessa di normalità. Dobbiamo farlo perché e una normalità che rende la vita amara, insipida. Durante la liturgia, nella Chiesa erano giá pronti i tavoli per il pranzo con i nostri amici di strada. Tavoli che sono il contrario del mercato, sono l’immagine della gratuità, della fraternità e della solidarietà tra gli uomini, via di salvezza da una vita arida e priva di contenuti. Le bellezza del pranzo e della collaborazione con le persone della parrocchia che ci ha ospitato ci ha ricordato che nessuno basta a se stesso, che tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri, ma soprattutto che nessuno e così povero da non poter aiutare una altro povero. Ci siamo resi conto di quanto sia fondamentale la presenza di sempre più uomini e donne che difendano la vita dei poveri, in un tempo in cui ci si difende da chi è debole, in un tempo in cui si preferisce non vedere le debolezze degli altri, così da nascondere anche le proprie. Al contrario, esperienze come questa dovrebbero ricordare a tutti noi...
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