Nando Tagliacozzo incontra gli studenti della Luiss nell'incontro organizzato da Sant'Egidio e Giovani per la Pace“Se oggi vi dicessero: mi hanno deportato su un treno con altre 3000 persone, ci credereste?”. Nando Tagliacozzo incontra i ragazzi della LUISS

Il sopravvissuto al rastrellamento degli ebrei romani del 16 ottobre 1943 racconta la sua vita iniziata con le leggi razziali del’38

“Abitavo poco lontano da qui; a Largo Benedetto Marcello, se vi dice qualcosa”. Nando Tagliacozzo inizia così l’incontro con i ragazzi del corso di International Organizations and Human Rights alla LUISS, e organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Verve romana, parlata sciolta ed ottantun anni senza bastone od altro a dimostrarli. “Sono nato nell’anno delle Leggi razziali, il 1938” – annuncia, infatti, tra gli sguardi stupiti degli studenti che cominciano a fare due calcoli. Ma la sua non è mera voglia di mostrare quanto sia ancora attivo alla sua età: è far vedere il suo atto di nascita che gli interessa. “È l’originale, quello depositato negli archivi del Comune”. Quindi quello ancora valido. “Razza ebraica” – si legge. Tale postilla è stata resa nulla, ovviamente. Ma la dizione razziale è ancora lì, come una ferita ancora da rimarginare. Del resto, le ferite interne, Nando le deve ancora avere, anche se, sotto la sua simpatia, sono difficili da vedere. “Sono sincero: non so cosa facessi il 16 ottobre 1943: probabilmente dormivo e sono stato svegliato da un colpo”. Aveva infatti 5 anni. Ma ora sa cosa successe: i suoi vicini, ovvero la nonna, lo zio e la sorella, vennero trascinati via – “non arrestati, perché ciò presupporrebbe una qualche legalità” – e deportati nei campi di sterminio. La sua famiglia non fu, però, toccata. Semplicemente, infatti, non risultava nei registri. Registri che, tiene a far notare, erano stati stilati dal Ministero dell’Interno, il dicastero che si occupa di pubblica sicurezza e di arresti. Non di ricerche demografiche.

Adesso Nando gira per le scuole, per le università, con la forza di raccontare, come chi abbia visto l’orrore dei campi di concentramento o ne sia stato toccato. Ma non è stato così per tutti: alcuni non sono riusciti a trovare la forza di raccontare, o di preservarla. “Ho conosciuto Alberto Sed all’inizio del 2000. Aveva smesso di raccontare, mi disse, quando fuori dalla Sinagoga aveva notato i suoi stessi correligionari mettere in dubbio la sua esperienza”. Ed in effetti, continua, “è difficile credere a simili storie“. Pensate se qualcuno vi dicesse oggi che è stato caricato su un treno insieme ad altre 3000 persone e mandato a morire in strutture organizzate nella campagna: gli credereste?” – domanda retoricamente. “E allora andate a vedere cosa sta succedendo in Libia. Quando ci andai, in mezzo al deserto incontrai una persona: mi disse “vuoi vedere le fosse comuni?”. Era il 2009. Solo adesso si comincia a leggere qualcosa a riguardo sui giornali. Da questo paragone, quindi, la necessità di raccontare, raccontare e raccontare. Perché persone come Nando possano essere semplicemente dei nonni o degli ingegneri in pensione. E non dei sopravvissuti ad un rastrellamento razziale o ad un internamento in campi sperduti nascosti in terre lontane.

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