L’apertura di una porta non è sempre quello che si pensa

Porte aperte alla vita

“L’apertura di una porta non è sempre quello che si pensa”. La riflessione di Sara Garelli dei Giovani per la Pace di Cuneo

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Una porta. Mentre ascoltiamo Andrej, è questa immagine a colpirmi. Per noi che lo ascoltiamo, la porta serve per raggiungere ciò che vogliamo, oppure fa passare una cosa o una persona desiderata. La porta di casa si apre quando arrivano i nostri amici, i familiari; le porte del treno si aprono per farci raggiungere la città dove studiamo o per portarci nel luogo della nostra prossima vacanza. E anche se dalla porta giunge una persona con una brutta notizia, ci sarà sempre qualcuno a cui potremo appoggiarci per farci forza ed andare avanti. Una porta non potrà mai rappresentare una cosa così negativa come lo è per i condannati a morte.

Andrej Paluda è un attivista bielorusso del Centro per la difesa dei Diritti Umani “Vjasna”. La maggior parte dei condannati a morte – spiega Andrej – ha paura delle porte perché per loro la morte arriva proprio da lì. “Conoscono ogni singolo movimento delle persone che lavorano in prigione e hanno imparato a capire quando quella porta si aprirà e perché” racconta e continua “La loro volontà è schiacciata, non parlano più, hanno affinato i sensi come degli animali per capire quando arriverà il momento della loro esecuzione”. L’apertura di quella porta può significare la fine della loro vita. Per i loro familiari la porta rimarrà sempre chiusa invece, nessuno verrà a dare loro la triste notizia. Il giorno dell’esecuzione infatti in Bielorussia è segreto e i parenti non possono nemmeno seppellire il corpo del condannato.

Andrej racconta di come una donna abbia sepolto gli abiti del figlio vicino al corpo del marito, per poter avere un posto in cui pregare. Pregare di fronte ad una bara che non c’è, una bara che non è mai stata né aperta né chiusa. Un’altra ‘porta’ che non si è aperta. Ed è quest’immagine della porta che ci deve far pensare a come la pena di morte trasformi in modo negativo la realtà, una realtà dove invece le porte significano accoglienza, voglia di partecipare.
Come le porte di tante scuole, teatri e strutture, che si sono aperte per ascoltare testimonianze di vita, storie che a volte riguardano persone che non sono state direttamente coinvolte da una tragedia, proprio come la storia di Andrej. Al Cinema Teatro don Bosco di Cuneo, dove i Giovani per la Pace insieme alla Comunità di Sant’Egidio hanno organizzato un incontro per dire #penadimortemai, alcuni dei ragazzi si sono un po’ stupiti quando hanno scoperto che nessuno dei familiari o delle persone care a lui era stato ucciso.

Allora perché ha deciso di combattere la pena di morte? Anche in me è sorta spontanea questa domanda. Ma poi, anche successivamente, mi sono chiesta: ma bisogna essere davvero “coinvolti” per voler abolire la pena di morte, per far parte di questa campagna? Non basta amare la propria città, le persone, come fa Andrej? Perché è proprio così che risponde: lui ama la sua città, le persone, e non vuole che il suo Paese sia riconosciuto come “il Paese con la pena di morte”, ma vorrebbe che fosse apprezzato per altre sue qualità. (La Bielorussia è l’unico Paese europeo a non poter entrare nel Consiglio d’Europa in quanto non ha ancora abolito la pena di morte, ndr).

Andrej, per me, è uno dei tanti attivisti al mondo che vuole le porte della sua città uguali a quelle di tutti gli altri Paesi senza la pena di morte. Vuole porte che non trasmettano paura, porte che non vengano guardate con terrore. Vuole porte aperte alla vita, in Città per la vita.

Sara Garelli (GXP Cuneo)

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