
Durante la preghiera per la pace abbiamo avuto l’occasione di ascoltare le parole di Kondo Koko, sopravvissuta alla bomba atomica di Hiroshima. Aveva otto mesi quando la bomba fu sganciata il 6 agosto del 1945, la sua casa si trovava a poco più di un chilometro dall’ipocentro. Troppo piccola per ricordare l’esplosione, ma nel corso della sua vita è cresciuta con le conseguenze che essa ha comportato.
Suo padre, ministro cristiano, ha dedicato la sua vita ad aiutare gli altri. All’età di tre o quattro anni alcune ragazze sono venute nella sua chiesa, la trattavano come una sorella minore, una ragazza trovò un pettine e si mise a pettinarle delicatamente i capelli. Fu allora che si accorse che le sue dita erano fuse insieme. Attorno a sé alcune ragazze non riuscivano a chiudere gli occhi, altre avevano le labbra fuse.
Anche una bambina, senza fare domande, capiva che la guerra aveva reso orfani tanti bambini e sfigurate tante ragazze. Allo stesso tempo, crescendo con quest’unica consapevolezza aveva sviluppato dentro di sé l’idea di essere l’unica vittima della storia e identificava le persone su quell’aereo come i cattivi, i carnefici colpevoli di tutte quelle disgrazie che la circondavano. In questo modo venivano alimentati sentimenti sempre più forti di odio e rabbia, bramando anche una vendetta, magari anche con un calcio o con un pungo.
Dall’altra parte suo padre, pastore, predicava amore e perdono. Kondo non comprendeva come si potesse amare chi aveva provocato tutto quel dolore.
Un giorno tutto questo cambiò. L’odio, il male che covava dentro, morì di fame.
Nel 1955, lei e suo padre vennero invitati negli Stati Uniti a prendere parte ad un noto show televisivo. Inaspettatamente avevano invitato un ospite a sorpresa. Si trattava di Robert Lewis, copilota dell’aereo che aveva rilasciato la bomba atomica quel 6 agosto di dieci anni fa. Era lui, era lì, di fronte a lei. Quando lo vide però non riconobbe il mostro che aveva immaginato per tutti quegli anni. Vide un uomo e nei suoi occhi il dolore per la consapevolezza di ciò che aveva fatto.
“In quel momento, tutto dentro di me cambiò. Capii che se avessi continuato a odiarlo, avrei soltanto continuato a odiare la violenza che è dentro tutti noi”
Alla fine dello spettacolo si avvicinò a lui, gli tenne le mani e con il cuore gli disse “Mi dispiace”. In quel momento l’odio diventò comprensione. Non esistono parti buone o cattive.
Quel giorno Kondo Koko apprese una cosa molto importante che tutti noi dovremmo tenere a cuore, quel giorno comprese che non sono le persone da odiare, ma la guerra.
Questo non significa dimenticare, ma permette di non trasmettere il dolore alle generazioni.
“Perché in ogni guerra sono i bambini a soffrire di più. Sono loro che perdono le loro case, le loro famiglie e il loro futuro. Nessun bambino, in nessun luogo, che sia Hiroshima, l’Ucraina, Gaza o qualsiasi altro posto, dovrebbe mai più vivere un dolore simile”.
Gesù ci insegna “Non rendete ad alcuno male per male. […] non essere vinto dal male, ma vinci il male con il bene”. Floribert ci ricorda che “C’è sempre un altro modo”. Un altro modo alla violenza, un altro modo all’odio, un altro modo alla guerra.
Kondo durante il suo intervento alla preghiera per la pace ci ha detto di parlare “non come vittima, ma come testimone”.
Per Martin Luther King: “La violenza genera violenza; l’odio genera odio e l’intransigenza genera altra intransigenza. È una spirale discendente, e alla fine non vi è che distruzione, per tutti. Non vi chiedo di abbandonare il vostro malcontento, ma di evitare di trasformarlo in odio e rancore. E la nonviolenza vi dice che potete lottare anche senza odiare”.
La violenza genera violenza. Non limitiamoci al linguaggio dell’odio che imperversa. L’odio avvelena prima di tutto noi stessi e ci acceca. Sforziamoci di guardare gli altri negli occhi e riconoscerli come nostri fratelli. Impariamo a porgere l’altra guancia, a scegliere non la strada più comoda, ma quella più umana.
Dal dialogo tra Edith Bruck, sopravvissuta ai campi di concentramento, e Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, emerge la necessità di “non accettare la deumanizzazione dell’altro, riscoprire l’umanità dell’altro. Questa è la pace. Accettare che l’altro sia come te, anche se diverso”. “Non possiamo abituarci alla normalità del male, il male non è normale; il bene dovrebbe essere normale, e bisogna alimentare quel poco di bene che c’è in ognuno, anche nella persona peggiore. […] “Nessuno dovrebbe rassegnarsi al male, perché tutti hanno la possibilità di fare un minimo di bene”.
Kondo Koko ricorda e ci insegna che “Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo cambiare il modo in cui lo ricordiamo. Possiamo ricordarlo con compassione, non con odio. E possiamo scegliere un futuro senza armi nucleari. Facciamo in modo che ciò che è accaduto a Hiroshima non si ripeta mai più, in nessun luogo e per nessuno”.
Per ascoltare l’intervista a Kondo Koko dei Giovani per la Pace clicca qui!