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Recensione

“Lacrime di sale”, Pietro Bartolo e Lidia Tilotta

Lacrime di sale è l’autobiografia di un grande uomo, Pietro Bartolo, prima che medico, che ogni giorno dal 1991 si occupa del poliambulatorio dell’isola di Lampedusa. È questo un luogo di disperazione e accoglienza per i migranti che, in cerca di un futuro migliore, scappano dalle loro case, famiglie e amicizie e salgono su imbarcazioni fatiscenti, attraversando il Mediterraneo con la speranza di arrivare nella loro terra promessa: l’Europa.

Nel libro le tragiche storie dei migranti sono raccolte e intrecciate con episodi della vita di Bartolo, sempre pronto ad ascoltare, amare e far sentire importanti persone che, al termine del viaggio, sono perseguitate da terribili immagini e episodi di violenza visti o vissuti e che il medico vede come fratelli, perché “figli dello stesso mare”. Mare che “è vita, non morte” e che accompagna Pietro nella narrazione, dalla nascita in un’umile famiglia di pescatori, fino alla morte del padre. Il racconto inizia con un episodio della giovinezza del piccolo Pietro che, uscito in barca col padre a bordo del Kennedy, il loro peschereccio, rischia di morire annegato. Questa è solo la prima di una lunga serie di prove che il mare farà vivere al medico lampedusano. In ogni capitolo emerge come la vita di Bartolo sia strettamente legata a quella dei migranti che soccorre ogni giorno. Le loro storie di crudeltà, soprusi e ingiustizie andrebbero tutte raccontate, io sono rimasto particolarmente colpito da quelle di quattro migranti: un padre siriano, Favour, Faduma e Jerusalem.

11 ottobre 2013, ennesima strage al largo di Malta, nove sopravvissuti vengono trasportati con l’elicottero al poliambulatorio di Lampedusa. Su una sedia, muto e con lo sguardo spento stava un uomo siriano, accanto a lui una donna, anche lei con lo sguardo spento, con in braccio un bimbo di nove mesi. Sembravano due sconosciuti, dopo circa un’ora l’uomo decise di raccontare al dottor Bartolo la sua storia: quella accanto a lui era sua moglie e il bimbo di nove mesi il loro figlio. Durante il naufragio del barcone con a bordo più di 800 persone la loro famiglia si era ritrovata in acqua e il padre, abile nuotatore, si era messo il bimbo di nove mesi sotto il maglione, con una mano afferrato la moglie e con l’altra il figlio di tre anni; aveva nuotato senza fermarsi ma non riusciva a rimanere a galla, da qui la tragica scelta di aprire la mano destra e consegnare suo figlio al mare, solo pochi minuti dopo erano arrivati i soccorsi.

25 maggio 2016, nel canale di Sicilia, in un barcone fatiscente i migranti erano torturati da una miscela micidiale di benzina e acqua salata che ustionava e corrodeva ogni centimetro di pelle; in questo contesto si inserisce la storia di Favour, bimba nigeriana di nove mesi dagli enormi occhi neri che, sul tragitto verso la libertà, ha perso la madre incinta di un altro bimbo. La madre prima di morire aveva affidato la piccola ad una delle sue compagne di viaggio, una sconosciuta fino al giorno della partenza, che l’ha protetta fino all’arrivo a Lampedusa. Sofii, così si chiamava la sconosciuta, era sul letto d’ospedale mentre combatteva con le profonde ustioni arrecategli dalla miscela letale, quando chiese notizie della piccola Favour. La bimba si trova ora a Palermo e coloro che vorrebbero diventare i suoi nuovi genitori rischiano di perderla dato che, prima di ottenere l’adozione internazionale, è necessario verificare che il minore non abbia parenti in vita in Europa, che magari la madre stava cercando di raggiungere.

Primavera del 2016, arrivava a Lampedusa in elicottero Faduma, donna di trentasette anni con un’emiparesi (metà del suo corpo era paralizzato) che aveva affrontato il viaggio da sola. Quando Bartolo le ha chiesto di raccontargli la sua storia, lei, “senza lasciar trapelare emozioni”, gli ha parlato di come fino a sei mesi prima vivesse a Mogadiscio con il marito, i figli e la madre quando i miliziani avevano fatto irruzione in casa sua e, davanti a lei e ai suoi figli, avevano decapitato il marito innocente e poi mostrando un ghigno beffardo se ne erano andati. Morto il marito era stata costretta ad abbandonare il suo paese in cerca di lavoro e così aveva affidato i figli alla madre e da sola, con metà del corpo paralizzato, come conseguenza del parto del terzo figlio, aveva intrapreso il viaggio per poter giungere in Europa e così da potere sostenere economicamente la propria famiglia a distanza.

Primavera del 2016, pochi giorni dopo l’arrivo di Faduma, arrivava a Lampedusa Jerusalem, ragazzina eritrea di quindici anni che temeva di essere incinta. Quando però i dottori le chiesero se era stata violentata lei disse di no e spiegò che era da quattro mesi che non aveva il ciclo e che, durante la permanenza nel campo di raccolta in Libia, le era stata fatta una puntura che serviva a non farla rimanere incinta. Quell’iniezione però, oltre a rendere sterile temporaneamente una donna, provocava un pesante squilibrio ormonale, soprattutto in donne in giovane età. I trafficanti offrivano questa puntura perché un eventuale figlio avrebbe rovinato il mercato delle donne, che una volta arrivate in Europa venivano vendute alla criminalità organizzata che le sfruttava come prostitute. Quando Pietro le aveva comunicato che non era rimasta incinta aveva esultato per la gioia, rendendo quindi evidente che il suo corpo era stato violato, il suo corpo come quello di migliaia di altre poverette.

Breve commento e considerazioni personali

I fatti e le storie narrate sono un vero e proprio pugno nello stomaco per chi come noi è inserito in una società dove prevale l’IO rispetto al NOI, dove l’indifferenza è purtroppo ormai un tratto distintivo della società e dove, attorniati dal benessere, siamo ciechi di fronte al dramma e alla sofferenza che provano ogni giorno i “nostri fratelli” che stanno sulle rive opposte del Mediterraneo. Il modo in cui Bartolo, con l’aiuto della giornalista Lidia Tilotta, riesce a raccontare e descrivere i drammi che ogni giorno è costretto a vivere nella sua Lampedusa non può e non deve lasciare indifferenti. Le cose che mi hanno colpito di più sono state la tenacia e la speranza che Pietro Bartolo continua a opporre alla strage che quotidianamente è costretto a combattere. Il suo messaggio, che purtroppo è in controtendenza con la politica attuale, ossia che i migranti sono fratelli, non nemici e come fratelli abbiamo il dovere di accoglierli e amarli, dovrebbe scuotere le nostre coscienze e aiutarci a riflettere sui drammi che purtroppo ancora in questi giorni si vivono nei campi profughi d’oltremare e, soprattutto, nel sovraffollato campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo, dove in un luogo adibito ad accogliere duemilaottocento persone, sono ospitati quasi ventimila esseri umani in disastrose condizioni igienico sanitarie, sottoposti a soprusi e angherie di ogni genere.

 
Andrea Cusa

 

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