Il coraggio di afferrare la speranza

12745653_10153873719343467_1965449770576544708_n20 febbraio. Una platea di quattrocento studenti di Parma si è riunita presso il cinema Astra per ascoltare le parole di Dawood Yousefi, un migrante giunto in Italia per fuggire dall’Afghanistan. L’incontro si apre con la notizia della prima famiglia siriana giunta in Italia tramite il corridoio umanitario aperto anche grazie alla Comunità di Sant’Egidio, la prima famiglia a godere di un diritto senza dover rischiare la propria vita. Sì, perché è di migrazione che abbiamo parlato, e lo abbiamo fatto ascoltando le parole di Dawood. Lui parla e pende dalle sue labbra tutto il pubblico: per la vicenda che riporta con estrema lucidità, sebbene continuamente scandita dalla presenza del dolore; per la franchezza della sua voce, dei suoi occhi. Aveva diciassette anni, studiava presso un liceo scientifico ed era volontario per la Croce Rossa Internazionale, in Afghanistan. Come possiamo senza fatica immaginare, anche una ventina di anni fa la situazione politica dell’Asia centrale mancava di stabilità, e anche nel paese natale di Dawood. Più volte minacciato dai talebani, si decide infine a lasciare le sue radici dopo che furono uccisi diversi suoi compagni: saluta la famiglia e con un gruppo di tre amici si mette in viaggio alla ricerca di un futuro. La fuga si fa ardua, soprattutto in corrispondenza dell’attraversamento dei monti: la strada è tanto minata di esplosivo, quanto di resti d’uomo e animali, triste monito della pericolosità del terreno. Abbiamo voluto chiamare l’incontro “Il coraggio della speranza”: sì, perché ci vuole speranza per potere attraversare il mare in balìa di un mare che non perdona; perché serve il coraggio per fare sopravvivere la speranza dopo aver visto uno dei tuoi compagni cadere in mare ed essere inghiottito dalle onde dopo un ultimo grido d’aiuto. Un viaggio pericoloso e pure costoso, che Dawood ha pagato grazie agli ingenti aiuti economici di uno zio che viveva in Australia. Toccate le spiagge greche, riesce a giungere infine in Italia, nascosto sotto un camion. Il viaggio è durato un anno e qui, proprio in Italia, ritrova la sua vita, portata in salvo. Oggi Dawood vive a Roma, lavora. Si sente italiano. Parla perfettamente l’italiano: potrebbe sembrare una nota superflua, ma lui stesso si sofferma sull’aspetto della lingua. Dawood, infatti, pensa che l’integrazione sia il primo passo verso la costruzione di una nuova vita lontano da casa: e declina l'”integrazione” come un atto consapevole del profugo che, senza dimenticare le proprie origini e cultura, è disposto ad accettare i costumi del Paese ospitante. “Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo”: sono i versi iniziali della poetessa Warsan Shireh citati da Dawood. Un ragazzo del pubblico gli chiede se mai farebbe di nuovo il viaggio della speranza: risponde convinto di sì, perché il viaggio lo ha reso una persona migliore, consapevole della propria dignità di essere umano. Infine, suggerisce che per comprendere appieno il fenomeno delle migrazioni non dobbiamo soffermarci su numeri, ma sulle storie delle singole persone.“Ci sono tante storie”, dice infine parlando dei migranti di ogni giorno, e questa è la sua.

Luca Cantoni

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