Ho accettato di rimettere piede nel Liceo B. Russell di Roma per aiutare Bill Pelke a raccontare la sua storia. Bill viene dagli Stati Uniti, per gran parte della sua vita ha vissuto in Indiana, ora in Alaska, ma viaggia da anni per il suo paese e per l’Europa per condividere il suo “viaggio di speranza”. Bill infatti ha fondato Journey of Hope per unire le famiglie di vittime di violenza i cui responsabili sono stati condannati a morte, per combattere insieme affinché la pena capitale sia abolita.
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Questo è il vero Islam, quello che dovrebbe fare notizia e che costituisce la stragrande maggioranza dei musulmani. L’anello della Pace non è solo una catena umana che ha unito ebrei e musulmani a Oslo, ma è la risposta più bella e profonda a chi vorrebbe sfruttare la religione come terreno di scontro. La guerra non può essere la soluzione contro chi predica odio; sarebbe fare il loro gioco e andare contro noi stessi, contro il fondamento dell’Europa che è la Pace. Creiamo tutti una rete di Pace che accolga chi è solo, che difenda chi è discriminato per la sua condizione o per il suo credo. Solo così potremmo sperare di costruire un futuro più prossimo ai nostri desideri.
Nel caos della vita moderna non c’è più tempo per fermarsi, per osservare, per pensare. Veniamo inghiottiti dalla frenesia della citta e diventiamo complici involontari di un’ indifferenza collettiva. In quest’amalgama procediamo spediti senza alzare la testa, senza fare caso ai dettagli delle cose che ci circondano, dimentichiamo in fretta le periferie e i visi che le abitano. Cè chi, in tutto questo, rimane perennemente invisibile, nonostante sia sotto gli occhi di tutti: persone che vivono ai margini delle nostre città, segregate al di fuori dei confini della nostra società. Persone dimenticate ormai da tutti, che gridano per essere ascoltate ma non hanno voce. Persone che hanno alle spalle mille e più storie, di sofferenza, di dolore, di rassegnazione, ma anche di gioia, di amori, di risate. Persone di ogni provenienza, cittadini del mondo senza diritti. A Messina, ogni venerdì, un gruppo di giovani più o meno numeroso si riunisce, accomunato dalla stessa voglia di conoscere queste persone e le loro storie, e gira la città, passando per i posti apparentemente dimenticati da tutti. Portano un panino e delle bevande, un gesto simbolico, un pensiero che si traduce in qualcosa di concreto, che significa: “Io, ogni venerdì, sarò qui ad ascoltarti”. I ragazzi e le ragazze dei Giovani per la Pace di Messina hanno preso una decisione, quella di rompere la monotonia e l’indifferenza della vita della loro città e trasformarla in un gesto concreto di supporto e di amicizia. Hanno ascoltato la storia di Leon, di Achille, di Salvatore e di tanti altri, hanno riso insieme a loro ma si sono anche fermati a riflettere, perchè hanno capito che la condizione di queste persone è ingiusta, e che c’è ancora molto da fare per portare all’attenzione di tutti un problema che, di questi tempi, è stato completamente dimenticato. Articolo scritto da Giorgio Cannetti
Conosco poco il Talmud e ancor meno l’ebraismo; mi professo un ignorante cosciente di ciò che ignora e della bellezza contenuta nei libri sacri delle grandi religioni della storia. Negli anni ho sempre avuto davanti agli occhi, per i motivi più svariati, alcuni versi ma se c’è qualcosa che mi ha colpito più di tutti è sempre stato leggere “chi salva un uomo, salva l’umanità intera”. Alla vigilia del 70′ anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, credo che questa frase porti con sé tutto ciò che pagine e pagine non potrebbero spiegare mai. Il 27 Gennaio risveglia dal torpore un po’ tutti. Riporta alla mente immagini che sin da piccoli abbiamo imparato a non dimenticare, con la consapevolezza di un bambino che sa quanto sia sbagliato far del male a qualcun altro. Oggi, a 70 anni da quella data, io sono un po’ diverso dal bambino che ero e in cuor mio spero di essere un po’ migliore, ma mi sento profondamente bugiardo. E a dire il vero, bugiardi siamo un po’ tutti. Non fraintendetemi, non voglio essere polemico. O meglio, voglio esserlo ma come lo è un bambino, chiedendo il ‘perché?’ di tutte le cose fin quando non è sazio di risposte, fino al nuovo slancio di domande verso ciò che lo circonda. Perché siamo tutti un po’ bugiardi? Perché ogni anno ci troviamo a ripetere che “ricordiamo per far sì che tutto ciò non accada mai più”, non vi siano uomini, donne e bambini che debbano temere per la propria vita, nascondendosi per paura di ciò che sono, si tratti di un credo religioso, del colore della pelle o di un accento diverso. Siamo bugiardi perché sono cambiati i luoghi, le persone, i bersagli e gli aguzzini, ma trasuda ancora violenza dalle mani di questo mondo ‘nuovo e civilizzato’ che stiamo contribuendo a costruire. 27 Gennaio. Villaggi rasi al suolo, donne e bambini sgozzati, omicidi di massa. Trascorse circa tre settimane dalle elezioni in Nigeria, i fondamentalisti islamici Boko Haram hanno “intensificato l’offensiva contro città e villaggi nel nord-est, abitati a grandissima maggioranza da musulmani.” Attualmente nessun civile può entrare o uscire dalla metropoli e le organizzazioni umanitarie lanciano un grido, temendo per la vita di centinaia di migliaia di civili. Uomini, donne e bambini. 27 Gennaio. Riesplode la violenza in Ucraina. Gli scontri si sono riaperti lungo tutto il fronte, mentre Donetsk, le città e i villaggi circostanti vengono martellati dai mortai. Ogni giorno si apre con le notizie di nuove vittime, civili e non. Una nuova ondata di violenza che è culminata negli attacchi contro i mezzi pubblici, non ultimo quello di qualche giorno fa che ha fatto registrare nove morti ad una fermata di filobus. Uomini, donne e bambini. 27 Gennaio. Non si è ancora chiusa la ‘questione CharlieHebdo’ che ha svegliato tutto il mondo, puntando i riflettori su Parigi e fermando il calendario al 7 Gennaio. I giornali titolano “Il terrore insaguina Parigi e la Francia”, “Assalto alla redazione del giornale satirico, 12...
Floribert era un giovane che voleva vivere appieno e fare cose grandi: era “fissato” con la giustizia e perciò donava la sua vita a coloro che vivevano ai margini e sempre voleva costruire la pace dove c’era un conflitto, una guerra o un semplice diverbio. Voler cambiare la realtà, diventare protagonisti del proprio tempo poteva essere forse una cosa da europei, non certo per congolesi: in Congo è pericoloso.
No, non lo siete e non lo siamo. Non è così perché ancora, in questo come in altri Paesi, è difficile togliersi di dosso il velo d’ignoranza che tira giù tutti coloro che hanno voglia di respirare il fresco profumo di libertà, anziché quel tanfo fatto di uccisioni e censure. Non siamo tutti Charlie perché, in fin dei conti, quasi nessuno si è concentrato sul fatto che esista un altro Islam, fratelli e sorelle (e sono la maggior parte) che condannano a testa alta quanto accaduto a Parigi. Ma esiste, ed è ahimè pressante, un bel trancio di mondo che sta iniziando a giustificare azioni repressive e guerre di vendetta che porteranno altri figli di questa terra a morire per un ideale feticcio, mai giustificato e mai propugnato da alcuna religione. Religione. Quella parola che, almeno a me così hanno insegnato, viene da “religo” ovvero “lego insieme, più forte”. Non certo “divido” o “vendico” o peggio ancora “uccido liberamente”. La libertà, quella vera, è data dal coraggio di scrivere ogni giorno una storia di unione, nonostante quanto accade per dividerci; quando sarà passata l’onda della “notizia choc” che in tanti stanno cavalcando selvaggiamente, come avvoltoi che volteggiano sui corpi delle vittime di ogni strage analoga, spero solo che si possa iniziare a ricostruire un percorso di pace che sia capace di relegare in un angolo simili gesti inumani. La speranza di rinascere e di ricostruire, oggi, è la cosa più importante che dobbiamo conservare nei nostri cuori, poiché -parafrasando Gandhi- “non può stringersi una mano in segno di pace, se si tiene chiuso il pugno!”.
Pubblichiamo una poesia di Antuane E. Davila Mazzetti, giovane per la pace, che esprime in versi essenziali la memoria del 16 ottobre 1943, giorno in cui furono deportati gli ebrei romani nei campi di sterminio nazisti. La poesia nasce dall'incontro dei Giovani per la Pace con Enzo Camerino, sopravvissuto alla deportazione e custode di una fondamentale testimonianza.
Puglia, San Vito dei Normanni. A dieci chilometri da questo piccolo paesino del Salento i Giovani Per la Pace della Comunità di Sant’Egidio incontrano i rifugiati politici ospitati nell’ex villaggio turistico Green Garden. Ragazzi come tutti, ma con un passato travagliato. Vengono dalla Nigeria, dal Pakistan, dal Mali; da tutti quei paesi che, anche se meravigliosi, a causa di guerre e povertà non hanno più la possibilità di regalare un futuro sicuro ai loro giovani. Ed è in questa piccola oasi lontana dal centro abitato che i Giovani Per la Pace hanno incominciato un’amicizia con quei ragazzi che portano le ferite della guerra e del disprezzo.Questi si presentano con allegria, talvolta con il loro abito più bello, talvolta indossando semplicemente l’unico che hanno. Una volta instaurato un rapporto di confidenza e complicità con loro, alcuni profughi si sentono anche di condividere la loro tragica esperienza del viaggio della speranza verso l’Italia. Troppo spesso, quando si pensa agli immigrati, l’immagine che viene automaticamente trasmessa è quella di uomini o donne che vendono oggetti per la strada o per la spiaggia. Si evitano, si allontanano e a volte li si schernisce. Ma non si riflette mai su quello che è stato il loro viaggio, il dramma che li ha spinti a lasciare il loro paese, la loro famiglia, i loro affetti. E ancora meno si riflette su ciò che hanno dovuto passare per raggiungere l’Italia. È il caso di un giovane del Mali, Mandila, che ha voluto condividere con alcuni Giovani Per la Pace la storia del suo viaggio. “Per imbarcarmi per l’Italia ho dovuto raggiungere la Libia” spiega Mandila, “ma dal Mali alla Libia ho viaggiato in un pullman. Eravamo in trenta”. Per pullman, Mandila intende un furgoncino da undici posti massimo; e questo viaggio, da quanto racconta, è stato un inaspettato colpo di fortuna. “Molti miei amici che non hanno trovato posto sul pullman hanno dovuto viaggiare sotto i camion” dice. Poi la barca con cui lascia la Libia, l’ultima tappa del viaggio; anche lì la fortuna ha voluto assistere Mandila che, ci confida, non ha visto nessuno dei suoi compagni di viaggio perdere la vita in mare. Ma spesso i pericoli non sono nemmeno in mare. Ce lo racconta Austin, un ragazzo nigeriano di ventiquattro anni: “Il mio viaggio è durato sette mesi, di cui tre passati da prigioniero in Libia”. Contrabbandieri, trafficanti di organi, il valore della merce umana sembra oltrepassare quello della vita. Ma il timore di venire uccisi non ferma questi giovani coraggiosi; coraggiosi di sognare, pronti a costruirsi un futuro. Ce lo dimostra Austin, la cui aspirazione è quella di fare il meccanico: “Nel mio paese facevo il meccanico. Voglio continuare a farlo anche qui. È il mio lavoro, quello che so e che mi piace fare”. Ed è in questo clima di amicizia e solidarietà che i Giovani Per la Pace pregano insieme ai loro fratelli stranieri; in questo frangente cristiani, musulmani ed ebrei si ritrovano a pregare per la prima volta insieme...
I giovani non trovano lavoro, non hanno opportunità, né vale la pena per loro darsi da fare, in tempi di crisi. La crisi impoverisce i giovani, in tutti i sensi. Oppure, c’è una speranza e la realtà, a partire da quella giovanile, non è così tragica. Il pessimismo, in verità, è una profezia che si avvera da sola. Avvertite anche voi che i giovani sono la speranza del futuro? Riportiamo una breve lettera al Corriere della Sera del nostro amico Massimiliano, pubblicata il 25 novembre, per cercare di dare insieme una risposta. Oltre la crisi Non più bamboccioni Condivido l’articolo di Giovanni Belardelli (Corriere, 23 novembre) che osservava che la crisi ‘ormai è dentro di noi’ e invitava a ‘rompere la spirale di un pessimismo che rischia, inevitabilmente, di autoavverarsi’. Sono dottore di ricerca e ricercatore (precario) in un’università romana. Conosco un po’ l’ambiente universitario, anche perché coordino le attività della Comunità di Sant’Egidio tra i giovani di Roma. Mi capita sempre più di vedere ragazzi pronti a imparare e faticare, ben diversi dallo stereotipo dei bamboccioni di qualche anno fa. Riscontro un fermento, che è come la spia del loro desiderio di mettersi in gioco, di aiutare e di rischiare. Anche la recente inchiesta del Censis indicava una ripresa della voglia di impegno civile e di adesione a iniziative di solidarietà, nonostante la crisi. Percepisco insomma quelle ‘energie vitali’, evocate da Belardelli sulla falsariga di Chateaubriand. Mi pare che queste energie, poco visibili, se non oscurate da tanti altri fenomeni negativi, ci permetteranno di guardare con speranza il futuro. Massimiliano Signifredi Roma
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