La mattina del 10 ottobre un forte nubifragio ha fatto esondare il torrente Mela sulla costa tra Milazzo e Barcellona Pozzo di Gotto. L’acqua ha inondato parecchie abitazioni in prossimità della foce e molte famiglie sono state sfollate dalle loro case ormai sommerse dal fango che ha distrutto tutto. L’acqua ha raggiunto anche i tre metri di altezza rompendo porte, mobili e trascinato auto nel mare. I residenti sono riusciti a salvarsi raggiungendo i piano alti delle case. I Giovani per la Pace di Barcellona Pozzo di Gotto insieme ai ragazzi dello SPRAR di Milazzo, muniti di stivali e pale, si sono uniti all’intenso lavoro per liberare le case dal fango e dare conforto ai tanti residenti che si sono visti spazzare tutto dalla furia dell’acqua. Tra ruspe della protezione civile e vigili del fuoco si è lavorato fianco a fianco con i residenti. E’ stata una giornata intensa, in tanti chiedevano sostegno ed aiuto in un clima reso più sereno dalla presenza dei tanti volontari. Un’anziana signora, tra il divertimento dei presenti, richiedeva esclusivamente l’aiuto di Omar che con la diligenza di un bravo nipote l’affiancava nel duro lavoro di pulizia.
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“Quando inviti a cena un amico, lo fai sedere nel salotto buono, no?”. Roberta sorride, mentre risponde alla curiosità dei giornalisti che le chiedono il perché di una location tanto prestigiosa, ma in fondo lo sa che la presenza dei giovani rifugiati negli spazi più chic della città sembra stridente, in un tempo che cerca di nascondere la diversità. Eppure sembrava naturale, lo scorso venerdì sera, vedere seduti a tavola gli universitari genovesi e i ragazzi africani ed asiatici in attesa di asilo politico: i giovani di Università Solidale – il movimento che a Genova raccoglie studenti di ogni facoltà, e che fa capo alla Comunità di Sant’Egidio – hanno scelto di realizzare la cena “Welcome refugees” tra i marmi e i velluti del foyer del teatro d’opera Carlo Felice, in piazza De Ferrari, di fronte al palazzo della Regione, accanto alla Prefettura, al Palazzo Ducale, alla Cattedrale. Circa cento giovani rifugiati – che abitano nelle strutture di accoglienza situate dentro un ospedale, su una collina in periferia e nell’ex istituto psichiatrico – sono stati accolti da 150 studenti universitari che hanno cucinato, allestito la tavola, servito la cena. Seduti insieme a tavola, hanno chiacchierato, scherzato e poi ballato scatenati sulle note dei Free Shots, una delle più popolari band swing della città. “È così bello che mi sembra Natale” ha detto con le lacrime agli occhi Franklin, 19 anni, nigeriano, prima di scattare un selfie da far arrivare alla famiglia lontana. “E poi – ha aggiunto – per noi non è scontato stare in mezzo a tanta gente e non sentirci disprezzati da nessuno”. Giulia, che studia Scienze della Formazione ha portato i piatti – un riso con stufato di carne e verdure, speziato “per farlo apprezzare sia dagli africani sia dai bengalesi” – e poi si scatena nella danza. Spiega com’è nata l’iniziativa: “sui social network abbiamo letto tanta volgarità e paura nei confronti dei profughi, per questo ci siamo detti che, noi che ci consideriamo loro amici, non potevamo stare zitti: questa cena è il nostro modo, mite, ma convinto, per dire che non accettiamo una città dura ed inospitale e che non c’è futuro senza l’incontro e l’accoglienza”. Per questo, i ragazzi di Università Solidale moltiplicheranno le occasioni di incontro con i rifugiati e saranno presenti in tutte le facoltà per raccogliere firme per l’appello #savemigrantsaveeurope, a sostegno delle proposte della Comunità di Sant’Egidio sull’accoglienza dei profughi e le politiche di asilo
Domenica è stata una giornata di festa per noi gxp di Trieste. Abbiamo organizzato un pranzo con gli amici della scuola di italiano, in occasione di alcuni compleanni e di due belle novità. In sede c’era un’atmosfera magica tipica del pranzo in famiglia: il buon profumo del cibo cucinato in una grande pentola, una tavola lunga per farci stare tutti, le sorprese nascoste per i festeggiati, noi che correvano per le scale il più veloce possibile per riabbracciarci. A tavola ci siamo raccontati le cose successe nelle ultime settimane, brindato e festeggiato la vita, ci siamo commossi della grande fortuna che abbiamo avuto nel conoscerci. Al momento dei regali Cosimo, uno dei maestri della scuola di lingua e cultura italiana, nel ringraziare per l’inaspettata festa di compleanno a sorpresa, si è emozionato e ci ha detto:”Alla scuola non insegno solo, ma ho trovato in voi degli amici, nei miei studenti delle persone speciali che non dimenticherò mai!”. Sony e Muhammad, due nuovi europei, hanno voluto comunicare alla loro famiglia italiana il buon esito della loro richiesta di asilo. (Davvero avevamo degli ottimi motivi per far festa!) Con gli occhi pieni di gioia ci hanno raccontato del momento in cui hanno ricevuto la notizia che potevano rimanere in Italia; hanno ballato e abbracciato un poliziotto in questura. Sony al termine del pranzo ci ha detto: “sono molto contento, oggi è come se stessi ballando dentro. Voi amici mi avete aiutato tantissimo, oggi qui mi sento in famiglia”. Per tutti noi questo pranzo è stato un grande dono, si vedeva sui nostri volti la gioia di stare insieme, di condividere sentimenti e felicità, le emozioni provate, non solo un pasto.Noi gxp facciamo parte di una grande famiglia formata da persone di età diverse, provenienti da paesi diversi che aiutano i loro fratelli nei momenti difficili e festeggiano le belle notizie tutti insieme. Andiamo oltre il colore della pelle, non abbiamo paura di amare.#changeyourcity è anche questo! fare festa insieme. Gli amici pachistani, prima di andare via, hanno scritto sulla lavagna ”thanks italian people”, questo è stato il regalo più bello, la dimostrazione che stiamo costruendo un’amicizia, abbattendo barriere e lottando tutti insieme per cambiare la società. #changeyourcity non è solo uno slogan, ma quanto facciamo insieme, nuovi europei ed italiani, volendoci bene e vivendo ogni giorno piccoli ma importanti momenti come un pranzo domenicale in famiglia! Che cos’è la felicità? La felicità è qualcosa che costruiamo giorno dopo giorno, attraverso i sorrisi dei nostri amici aiutando le persone quando hanno bisogno, volendo il bene delle persone che amiamo. Per essere felici non servono oggetti preziosi ma le persone speciali che incontriamo nella nostra vita.
Il mondo cambia a partire dalle periferie, quelle urbane, umane, quelle esistenziali che toccano tanti giovani oggi che sognano il cambiamento e non sanno da dove iniziare! Vienici a trovare! Il mondo cambia a partire dalle nostre città che hanno diritto ad un pensiero nuovo che nasca dall’amicizia con i poveri, con la preghiera, con tanti anziani dimenticati negli istituiti, dai bambini che vivono i quartieri periferici e che hanno il diritto al cambiamento, ad avere un giovane per amico che lo accompagni nell’avventura della vita che insieme diventa meno complicata. I bambini hanno diritto alla Scuola della Pace. Il mondo cambia a partire dall’accoglienza dei rifugiati nelle nostre città, nei porti e nelle stazioni, luoghi di passione e di incontro, luoghi dove i Giovani per la Pace hanno trovato grandi alleati per costruire la globalizzazione della solidarietà e per sconfiggere la globalizzazione dell’indifferenza di cui parla Papa Francesco. Infatti molti rifugiati incontrati in tutta Italia oggi aiutano gli italiani in difficoltà! Il mondo cambia se costruiremo città più umane che devono tornare a guardare con compassione chi vive in strada. Possiamo scegliere se costruire la città del filo spinato o la civiltà del convivere. I giovani per la Pace da anni hanno legato la propria vita a quella dei poveri ed hanno scoperto che solo così il volto delle città può cambiare, concretamente: sono infatti migliaia i poveri che già ora andiamo a trovare con fedeltà e da anni in tutta Italia, perché l’amicizia con i poveri è un’amicizia fedele. Puoi farlo anche tu! #ChangeYourCity con i giovani per la pace! Partecipa anche tu alle attività di solidarietà con i più poveri, vienici a trovare alla sede dei giovani per la pace più vicina e scopri anche tu che insieme il mondo può cambiare. Non esitare #ChangeyourCity Partecipa su Twitter scrivendoci le tue idee taggando i @gxlapace con l’hashtag #ChangeYourCity
La foto di Aylan, bambino di Kobane sta sempre più diventando l’immagine del risveglio dei cuori dell’Europa. Sembra quasi volerci comunicare “in guerra si muore e si muore anche fuggendo dalla guerra” muoiono anche i bambini. Ci stiamo chiedendo guardando l’immagine come fermare le guerre? Come accogliere senza morte? E’ fresca nei ricordi l’immagine delle bare arrivate a Catania: Oggi è il momento in cui c’è bisogno di uno sforzo comune, collettivo, personale che si tramuti in sforzo internazionale. Un’immagine è di per sé statica se la gente non si muove attorno ai sentimenti che suscita: un bambino, la sabbia, la morte ed è facile creare resistenze anche alla commozione, all’indignazione, tornare ad abituarci alla morte di tanti Aylan nel mondo, non provare quel sussulto di impegno, quell’orgoglio di essere rifugio! Perchè un rifugiato senza rifugio è un uomo morto, è un bambino senza asilo, è una donna spenta ed il rifugio deve essere come un ventre materno e non cadere in balia delle ondate sociali di simpatia e antipatia. Pensiamoci: All’occhio sociale e mediatico si rincorrono queste due immagini sul migrtante: poco prima il migrante è il problema, poco dopo è risorsa: questa è schizofrenia che va superata. Oggi l’Europa può veramente essere quel rifugio, quella culla che si era immaginata al tramonto della seconda guerra mondiale. Un luogo di serenità per chi scappa dalla guerra che l’Unione è riuscita a cacciare via dai suoi confini. Questo è un merito e al tempo stesso una responsabilità verso il mondo! Tenendo fuori chi scappa dalla guerra, la guerra tornerà dentro i nostri confini e già bussa alla porta con un suono allettante. La nostra responsabilità ce la ricorda il papà di Aylan mentre parla di suo figlio non come un’immagine ma restituendogli carne, rendendolo simbolo e non solo fotografia, parlandone semplicemente come un bambino, che giocava, piangeva, rideva, saltellava e faceva i dispetti. Come un bambino che oggi è vivace nel bussare alle porte dei nostri cuori facendoci riscoprire che ogni tanto è giusto piangere. Bisogna uscire e incontrare, cambiare, protestare, accogliere a mani nude, perchè non fare passare un pensiero aberrante che ci vuole chiusi è la grande battaglia corpo a corpo contro il male di questo tempo. Una battaglia che non si può perdere.
Cristiana ha preso parte al pranzo che i Giovani per la Pace di Treviso hanno fatto con i rifugiati sabato 25 aprile. Condividiamo il suo racconto. Io sono Cristiana, sono venuta al pranzo per i profughi sabato ed è stata un bellissima esperienza! Io ero seduta vicino a Essen, del Pakistan, e lui ad un certo punto mi ha mostrato una fotografia dal cellulare in cui c’erano lui e la sua famiglia… Poi ha iniziato spontaneamente a raccontarmi la sua storia e, anche se non ho capito bene tutto quello che ha raccontato, mi ha colpita molto e per questo poi ho scritto questo racconto… … Ci sono persone che fanno parte della tua vita da quando nasci a quando muori, e non la cambiano minimamente. Stanno sullo sfondo, sempre lì, tanto che con il tempo ti abitui a vederle vicino a te, sai sempre dove sono quando vuoi stare o non vuoi stare con loro. Poi ci sono le persone che entrano ad un certo punto, o che restano qualche anno e poi se ne vanno; ma anche loro, per tutto il tempo che passano sul palcoscenico delle tue giornate, hanno un posto fisso da cui recitare la loro parte. E poi c’è Essen, che sale quando il sipario è già alzato e non ha un copione da recitare. Arriva con un’espressione confusa e con passo quasi esitante. È solo un ragazzo, un ragazzo timido e curioso che saluta il pubblico con lo sguardo di un vecchio e il sorriso di un bambino. Ma non ha battute pronte per cambiare il tuo spettacolo: tutto ciò che era stato progettato per lui è andato all’aria. Il suo ruolo è stato dimenticato, il personaggio è stato cancellato, le battute che avrebbe dovuto recitare non servono più. Gli hanno detto che se ne deve andare, che ormai è inutile. Essen ha bisogno di un posto, però. Non può improvvisare. È sempre stato bravo con le parole, un maestro nell’arte del divertire la gente. Ma questo pubblico non parla la sua lingua. Questo pubblico non ha voglia di ridere, non capisce cosa ci faccia un attore così diverso dagli altri su quel palco rimasto vuoto. Le lampade sono spente, ora c’è solo una fioca luce che illumina quell’angolo di palco in cui un attore fallito non riesce ad esprimere i suoi sentimenti. Poi, nel silenzio, si alza chiara e decisa la voce di Essen. Non parla la sua lingua, nemmeno quella del pubblico: parla la lingua degli uomini, parole che ognuno può capire e che sono così difficili da pronunciare, così dure da ascoltare. Le luci si alzano sulla scenografia dipinta a colori nostalgici, un lago azzurro, una spiaggia bianca; un uomo con una candida veste, in contrasto con il colore scuro della pelle, abbraccia tenamente quattro ragazzini vestiti di nero. La scena rimane un attimo sospesa nel silenzio, gli ultimi secondi per ricordare quelle vite che stanno per essere cambiate, rovinate, distrutte. Essen non ha un copione, ma ha una storia...
Si deve però manifestare un senso di vergogna di fronte ai romani, soprattutto ai deboli: «Speriamo che il 2013 sia pieno di monnezza, profughi, sfollati e bufere» – diceva un sms augurale di un attore di questa vicenda
Pubblichiamo una risposta scritta da alcuni giovani “nuovi europei”, studenti di lingua italiana, alla lettera dei rifugiati di Tor Sapienza
Abbiamo ricevuto un comunicato scritto dai ragazzi del Centro di Tor Sapienza, che è bene diffondere come risposta pacifica.
Puglia, San Vito dei Normanni. A dieci chilometri da questo piccolo paesino del Salento i Giovani Per la Pace della Comunità di Sant’Egidio incontrano i rifugiati politici ospitati nell’ex villaggio turistico Green Garden. Ragazzi come tutti, ma con un passato travagliato. Vengono dalla Nigeria, dal Pakistan, dal Mali; da tutti quei paesi che, anche se meravigliosi, a causa di guerre e povertà non hanno più la possibilità di regalare un futuro sicuro ai loro giovani. Ed è in questa piccola oasi lontana dal centro abitato che i Giovani Per la Pace hanno incominciato un’amicizia con quei ragazzi che portano le ferite della guerra e del disprezzo.Questi si presentano con allegria, talvolta con il loro abito più bello, talvolta indossando semplicemente l’unico che hanno. Una volta instaurato un rapporto di confidenza e complicità con loro, alcuni profughi si sentono anche di condividere la loro tragica esperienza del viaggio della speranza verso l’Italia. Troppo spesso, quando si pensa agli immigrati, l’immagine che viene automaticamente trasmessa è quella di uomini o donne che vendono oggetti per la strada o per la spiaggia. Si evitano, si allontanano e a volte li si schernisce. Ma non si riflette mai su quello che è stato il loro viaggio, il dramma che li ha spinti a lasciare il loro paese, la loro famiglia, i loro affetti. E ancora meno si riflette su ciò che hanno dovuto passare per raggiungere l’Italia. È il caso di un giovane del Mali, Mandila, che ha voluto condividere con alcuni Giovani Per la Pace la storia del suo viaggio. “Per imbarcarmi per l’Italia ho dovuto raggiungere la Libia” spiega Mandila, “ma dal Mali alla Libia ho viaggiato in un pullman. Eravamo in trenta”. Per pullman, Mandila intende un furgoncino da undici posti massimo; e questo viaggio, da quanto racconta, è stato un inaspettato colpo di fortuna. “Molti miei amici che non hanno trovato posto sul pullman hanno dovuto viaggiare sotto i camion” dice. Poi la barca con cui lascia la Libia, l’ultima tappa del viaggio; anche lì la fortuna ha voluto assistere Mandila che, ci confida, non ha visto nessuno dei suoi compagni di viaggio perdere la vita in mare. Ma spesso i pericoli non sono nemmeno in mare. Ce lo racconta Austin, un ragazzo nigeriano di ventiquattro anni: “Il mio viaggio è durato sette mesi, di cui tre passati da prigioniero in Libia”. Contrabbandieri, trafficanti di organi, il valore della merce umana sembra oltrepassare quello della vita. Ma il timore di venire uccisi non ferma questi giovani coraggiosi; coraggiosi di sognare, pronti a costruirsi un futuro. Ce lo dimostra Austin, la cui aspirazione è quella di fare il meccanico: “Nel mio paese facevo il meccanico. Voglio continuare a farlo anche qui. È il mio lavoro, quello che so e che mi piace fare”. Ed è in questo clima di amicizia e solidarietà che i Giovani Per la Pace pregano insieme ai loro fratelli stranieri; in questo frangente cristiani, musulmani ed ebrei si ritrovano a pregare per la prima volta insieme...
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