Quando Giorgio Napolitano è stato rieletto Presidente della Repubblica, vuoi per la sua abilità nel far dialogare le parti politiche, vuoi per la continuità ritenuta necessaria da taluni, in pochi hanno pensato a un tratto rilevante del pensiero politico del Presidente rieletto: nel messaggio di fine anno trasmesso a reti unificate, infatti, Napolitano ha ribadito l’importanza di riconoscere la cittadinanza italiana come diritto a chi nasce e cresce in Italia. Appello simile è giunto dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, nel suo discorso di insediamento. Il riconoscimento di questo diritto speriamo giunga a compimento dopo una lunga storia. Nella scorsa legislatura (2008-2013) sono stati presentati 48 disegni di legge per cambiare la normativa in tema di cittadinanza. Nemmeno uno convinse una maggioranza. In questo nuovo Parlamento si contano già una ventina di nuove proposte. Un tema che sembra poter essere caro solo al centrosinistra; quando, invece, è una lotta per i diritti che può trovare tutti d’accordo. Di fronte al paradosso del bambino nato da genitori stranieri, che ha compiuto i suoi studi in Italia, e forse nemmeno ricorda il Paese di provenienza, tantomeno sa parlare la lingua dei genitori con la stessa scioltezza con cui comunica in italiano, e per giunta tifa la Roma, cosa deve fare il legislatore? Sebbene per alcuni la caratteristica del tifo calcistico (sbagliato) sarebbe giusto motivo di sospensione di tutti i diritti civili e politici, ben s’intende che è l’uomo che fa la cultura e non la cultura a fare l’uomo. Cambiare la legge sulla cittadinanza non significa propiziare l’arrivo di barconi dall’Africa – peraltro problema spesso trascurato, quello dei morti nel Mediterraneo, per via delle serpeggianti pulsioni razziste. Non significa riconoscere uno ius soli puro. Mi spiego: chi nasce sul suolo italiano, sarebbe italiano, senza se e senza ma. Essere cittadini italiani però significa avere diritti e doveri costituzionali: collaborare al progresso materiale e spirituale della nazione, essendo posti nella condizione di farlo. La mobilità delle persone influisce sul welfare e, per motivi di ordine pubblico, è rassicurante evitare la ‘spesa dei diritti’. L’unico limite è l’ordine pubblico, non però quello dettato dall’ossessione per la sicurezza e dai pregiudizi per cui l’immigrato è una ‘persona illegale’. Bisogna cambiare i termini del dibattito. Non è più tempo di contrapporre il diritto del sangue (ius sanguinis), vale a dire la cittadinanza se si discende da cittadini italiani, al diritto del suolo (ius soli), ossia essere cittadini per il semplice dato fisico di esser nati su suolo italiano. Ma non si può nemmeno andare avanti con le sevizie burocratiche per cui, chi nasce e cresce in Italia a diciotto anni (e non oltre!) deve inviare la richiesta per il riconoscimento della cittadinanza e, se non s’appresta, è costretto a rivolgersi al Ministero dell’Interno, con una trafila ancora più lunga. Se è un diritto, va riconosciuto all’istante. Parliamo dunque di uno ius soli temperato – nasci sul suolo italiano, vi risiedi, studi o lavori – e di uno ius culturae (diritto della cultura) – se...
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