Come non sottovalutare questa pagina buia della storia italiana
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Torna il razzismo in Europa: perché rifletterci il 16 Ottobre Sono i bambini ad aprire la commemorazione della deportazione degli ebrei del 16 Ottobre 1943, nella marcia di Comunità di Sant’Egidio e Comunità Ebraica di Roma Sono i bambini della Scuola della Pace in prima fila nella marcia e poi ad ascoltare il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, che li saluta, mentre parla della “nostra Europa” dove si risvegliano fantasmi che credevamo sepolti. “Oltre al terrorismo” dice “dobbiamo chiamarli con molta precisione: nazismo, fascismo, antisemitismo“. Anche i Giovani per la Pace hanno partecipato alla marcia, dopo un intenso incontro con Nando Tagliacozzo, che ha raccontato loro la sua esperienza e ha risposto alle loro domande. Il suo racconto è stato ripreso in una recente e intensa clip inedita. “Non pensi che il razzismo contro gli ebrei possa ritornare anche oggi? Per esempio con gli stranieri?” gli ha chiesto una giovane per la pace. “Se mi guardo intorno ho paura che non se ne sia mai andato” risponde lui, “ma sono felice di venire a parlare con i giovani per la pace, di venire a trovare la Comunità di Sant’Egidio, perché voi siete ottimisti, non perdete la speranza”. Ed è vero, non perdiamo la speranza e pensiamo che sia possibile un futuro bello e di pace, per l’Europa e per il mondo. Alla marcia era presente anche Sami Modiano, a cui abbiamo scritto una lettera, per ringraziarlo della sua amicizia con noi. Non c’è futuro senza memoria! I Giovani per la Pace ne sono convinti, e tu? Condividi il post con il messaggio di Andrea Riccardi
Dopo i momenti di xenofobia e violenza che abbiamo vissuto ieri, dopo i disordini a Roma e gli attacchi da ‘Mississippi Burning’ a Treviso, mi sono sentita abbattuta e sconfitta: umiliata per essere così idealista e ingenua da pensare che vivere insieme è possibile. Allora per combattere quella sensazione oggi avevo tutta l’intenzione di scrivere qualche riga infuocata,sciorinare dati e percentuali, dimostrare con ragionamenti rigorosi da che parte sta il torto e perché. Poi ho capito che non era questo il modo giusto, che anche io avrei così alzato la voce, provato a imporre con la violenza il mio pensiero. Il problema è che per quanto possa urlare non riuscirò mai a far cambiare idea a una persona così convinta della ragionevolezza della propria causa da brandire un’arma per difenderla. Il problema è che dati, percentuali e ragionamenti suonano giusti e perfetti alle mie orecchie perché io so: io vedo l’integrazione quasi ogni giorno e ho imparato ad associare agli sterili numeri dei nomi e dei volti. Delle persone. Ho imparato, per esempio, che l’integrazione inizia da noi, dal basso. Non possiamo aspettare che sia la società ad assestarsi, ma dobbiamo essere noi i motori del cambiamento. Per questo invece di chiedere documenti per prima cosa bisognerebbe tendere una mano e presentarsi, sperando che l’altro la stringa. Ho imparato nomi. Tanti. Tutti diversi dalla mia lingua madre. Perché imparare il nome di una persona è una forma di rispetto dovuta. È il primo passo per la conoscenza ed è quello fondamentale per iniziare un dialogo. Ho imparato a non fidarmi dei titoli sensazionalistici dei giornali, a non ripetere passivamente gli slogan dei politici, a non credere a tutti i numeri della televisione. E così ho letto. E leggendo ho imparato che il fanatismo non ha religione, che la ‘tendenza alla criminalità’ non è qualcosa che puoi rintracciare in un ceppo genetico, che la cattiva intenzione non è un fatto di cultura, che la malvivenza non è qualcosa che individui su una cartina geografica. Ho imparato che ‘straniero’ è una parola relativa e non determina uno stato, un modo di essere intrinseco della persona. Tutti sono stranieri per tutti in ogni luogo tranne che a casa propria. E se tutti si sforzassero di far sentire l’altro un po’ più a casa allora non esisterebbero più stranieri. Ho imparato che l’integrazione è un processo lungo e faticoso, che richiede impegno, ma che in cambio regala le più grosse soddisfazioni. L’ho imparato a Scuola della Pace, accanto a ogni bambino che ho visto sforzarsi su una pagina piena di parole di cui non conosceva il significato. Allora penso ai nostri bambini di Scuola della Pace, al loro modo di vivere insieme, e mi chiedo come questo sia possibile. Bambini di dieci nazionalità diverse che fanno i compiti spalla a spalla sullo stesso tavolo, giocano a palla nello stesso cortile, dividono la stessa merenda. Loro non sanno nulla di cifre e percentuali. Nessuno di loro si occupa di politica o si è mai fermato...
Cristiana ha preso parte al pranzo che i Giovani per la Pace di Treviso hanno fatto con i rifugiati sabato 25 aprile. Condividiamo il suo racconto. Io sono Cristiana, sono venuta al pranzo per i profughi sabato ed è stata un bellissima esperienza! Io ero seduta vicino a Essen, del Pakistan, e lui ad un certo punto mi ha mostrato una fotografia dal cellulare in cui c’erano lui e la sua famiglia… Poi ha iniziato spontaneamente a raccontarmi la sua storia e, anche se non ho capito bene tutto quello che ha raccontato, mi ha colpita molto e per questo poi ho scritto questo racconto… … Ci sono persone che fanno parte della tua vita da quando nasci a quando muori, e non la cambiano minimamente. Stanno sullo sfondo, sempre lì, tanto che con il tempo ti abitui a vederle vicino a te, sai sempre dove sono quando vuoi stare o non vuoi stare con loro. Poi ci sono le persone che entrano ad un certo punto, o che restano qualche anno e poi se ne vanno; ma anche loro, per tutto il tempo che passano sul palcoscenico delle tue giornate, hanno un posto fisso da cui recitare la loro parte. E poi c’è Essen, che sale quando il sipario è già alzato e non ha un copione da recitare. Arriva con un’espressione confusa e con passo quasi esitante. È solo un ragazzo, un ragazzo timido e curioso che saluta il pubblico con lo sguardo di un vecchio e il sorriso di un bambino. Ma non ha battute pronte per cambiare il tuo spettacolo: tutto ciò che era stato progettato per lui è andato all’aria. Il suo ruolo è stato dimenticato, il personaggio è stato cancellato, le battute che avrebbe dovuto recitare non servono più. Gli hanno detto che se ne deve andare, che ormai è inutile. Essen ha bisogno di un posto, però. Non può improvvisare. È sempre stato bravo con le parole, un maestro nell’arte del divertire la gente. Ma questo pubblico non parla la sua lingua. Questo pubblico non ha voglia di ridere, non capisce cosa ci faccia un attore così diverso dagli altri su quel palco rimasto vuoto. Le lampade sono spente, ora c’è solo una fioca luce che illumina quell’angolo di palco in cui un attore fallito non riesce ad esprimere i suoi sentimenti. Poi, nel silenzio, si alza chiara e decisa la voce di Essen. Non parla la sua lingua, nemmeno quella del pubblico: parla la lingua degli uomini, parole che ognuno può capire e che sono così difficili da pronunciare, così dure da ascoltare. Le luci si alzano sulla scenografia dipinta a colori nostalgici, un lago azzurro, una spiaggia bianca; un uomo con una candida veste, in contrasto con il colore scuro della pelle, abbraccia tenamente quattro ragazzini vestiti di nero. La scena rimane un attimo sospesa nel silenzio, gli ultimi secondi per ricordare quelle vite che stanno per essere cambiate, rovinate, distrutte. Essen non ha un copione, ma ha una storia...
Non si può rimanere indifferenti di fronte a tanti morti. 700 morti sono troppi. Bisogna fermarsi almeno un poco, riflettere, come ha fatto la nostra amica Alessandra di Padova, e prendere posizione. I Giovani per la pace italiani stanno lanciando numerose iniziative in tutta la penisola: preghiere, veglie, minuti di silenzio nelle scuole, flash mob, o anche solo un piccolo gesto, come quello di questi studenti romani nelle foto, per dire che non si può far finta di nulla e voltare pagina. Bisogna mettere fine alle morte in mare di tanti nostri coetanei. Invitiamo tutti gli studenti italiani ad unirsi a noi. Facciamo vedere che non accettiamo un mondo ingiusto, in cui chi sogna un futuro migliore debba morire nell’indifferenza generale. Mandateci le foto o i resoconti di quello che farete, gli daremo visibilità attraverso i nostri canali.
Di fronte al dolore così forte per la tragedia di sabato notte nel Canale di Sicilia con oltre 700 morti nel naufragio del mercantile, gli Universitari Solidali della Comuntà di Sant’Egidio hanno deciso di invitare tutti i cittadini romani, specialmente i giovani e gli studenti, a due veglie che si terranno MARTEDI, 20 APRILE alle 20.00 Momento di preghiera presso la Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina MERCOLEDI 22 APRILE alle 19.45 Fiaccolata a Piazzale del Verano di fronte la Basilica di San Lorenzo a pochi metri dall’Università La Sapienza. Insieme per pregare per tutte le vittime del Naufragio degli immigrati avvenuto nella notte tra sabato e domenica; tragedia che si è consumata nel Canale di Sicilia con circa 700 vittime. Una fiaccolata in cui unire tanti per pregare per persone che “cercavano la felicità”, ma hanno trovato la morte e chiedere la mobilitazione della comunità internazionale. Un momento in cui le tante fiamme delle candele che verranno accese accompagneranno il dolore di tanti. Mercoledì Al termine dell’incontro, come gesto concreto a servizio dei più bisognosi, verrà organizzata la distribuzione itinerante di strada di coperte e pasti ai senza tetto di Roma.
Rom. Una parola, ed è già polemica. Popolo di ladri, delinquenti e – laddove la fantasia trova libero sfogo – rapitori di bambini. Una popolazione di criminali che, a sentire dai media e dai numerosi commenti dei Social Network, ha invaso il nostro paese. Viene però da chiedersi da dove viene tutto questo odio nei confronti della popolazione Rom e Sinti, tra i quali spicca anche un discreto numero di italiani. O forse sarebbe più corretto chiedersi come mai la società italiana ha sviluppato una paura così contorta nei confronti di questa popolazione “nomade” con cui convive da svariati decenni ( se non addirittura secoli)? La paura dopotutto è figlia dell’ignoranza (impressionante come le parole di un filosofo come Seneca siano capaci di raggiungerci a distanza di duemila anni), e questa constatazione ci porta purtroppo davanti a una dura e triste verità. Quello italiano,sebbene sia un popolo dotato di grandi potenzialità, è al tempo stesso un popolo colpito da una brutale ignoranza. E’ inutile dire che i media hanno giocato un ruolo fondamentale, per quanto riguarda la disinformazione sui Rom e sugli atti di cronache che li “coinvolgono”, accumulando così una non indifferente audience per i loro programmi malati e inducendo di conseguenza la gente a farsi un’opinione del tutto sbagliata su questa etnia ponendola ai margini della società e costringendola ad alienarsi. E i politici non sono da meno (basti ricordarsi delle cordiali parole dell’onorevole Salvini, menzionando ad un eventuale “ preavviso di sfratto” a cui conseguirebbe l’azione di “radere tutto al suolo”, riferendosi ai campi dove la popolazione Rom vive); la loro parola di battaglia contro il Rom, il nemico comune della nazione, sembra essere la loro unica arma in grado di garantire una percentuale cospicua di voti. E di fronte a questa immagine di un’Italia unita contro un nemico comune, sembra che il tempo non sia mai scorso, ma si sia fermato su un’Italia fascista proiettata e riproposta ai giorni nostri. Stupefacente come l’ideologia, l’azione politica e la propaganda di alcuni partiti (a maggioranza di quelli di estrema destra) rasenti l’esatto modo di agire di alcuni regimi autoritari e totalitari comparsi circa novant’anni fa in Europa. Da qui si deduce che forse la forma mentis Italiana non sia mai cambiata, e che spetta alle nuove generazioni il compito di rinnovare la società. Chi ha detto, infatti, che i Rom non sono in grado di uscire dalla loro condizione? Affermare che quella di rubare e vivere in roulotte con l’intera famiglia (spesso molto numerosa) sia “la loro cultura”, non è che un vano tentativo di giustificarsi ed evitare che l’enorme responsabilità – che noi come popolo italiano abbiamo nei confronti dei più poveri – ci tocchi e stravolga la nostra vita. Ciononostante, le scuole della Pace della Comunità di Sant’Egidio sono la prova vivente che il cambiamento della società è possibile, ed è possibile partendo proprio dai bambini e dalle loro famiglie. Ed è con le Scuole della Pace, infatti, che molti bambini Rom sono cresciuti...
Contro l’immigrazione = contro la complessità = idiozia ≠ etica della responsabilità
Alessandro IannamorelliNon si può cedere agli estremi, che sono l’indifferenza o la totale deresponsabilizzazione. Dire che non si è razzisti, ma anti-immigrazionisti è un’idiozia pari al dire che nel mondo non ci sono le guerre o la povertà.
Conosco poco il Talmud e ancor meno l’ebraismo; mi professo un ignorante cosciente di ciò che ignora e della bellezza contenuta nei libri sacri delle grandi religioni della storia. Negli anni ho sempre avuto davanti agli occhi, per i motivi più svariati, alcuni versi ma se c’è qualcosa che mi ha colpito più di tutti è sempre stato leggere “chi salva un uomo, salva l’umanità intera”. Alla vigilia del 70′ anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, credo che questa frase porti con sé tutto ciò che pagine e pagine non potrebbero spiegare mai. Il 27 Gennaio risveglia dal torpore un po’ tutti. Riporta alla mente immagini che sin da piccoli abbiamo imparato a non dimenticare, con la consapevolezza di un bambino che sa quanto sia sbagliato far del male a qualcun altro. Oggi, a 70 anni da quella data, io sono un po’ diverso dal bambino che ero e in cuor mio spero di essere un po’ migliore, ma mi sento profondamente bugiardo. E a dire il vero, bugiardi siamo un po’ tutti. Non fraintendetemi, non voglio essere polemico. O meglio, voglio esserlo ma come lo è un bambino, chiedendo il ‘perché?’ di tutte le cose fin quando non è sazio di risposte, fino al nuovo slancio di domande verso ciò che lo circonda. Perché siamo tutti un po’ bugiardi? Perché ogni anno ci troviamo a ripetere che “ricordiamo per far sì che tutto ciò non accada mai più”, non vi siano uomini, donne e bambini che debbano temere per la propria vita, nascondendosi per paura di ciò che sono, si tratti di un credo religioso, del colore della pelle o di un accento diverso. Siamo bugiardi perché sono cambiati i luoghi, le persone, i bersagli e gli aguzzini, ma trasuda ancora violenza dalle mani di questo mondo ‘nuovo e civilizzato’ che stiamo contribuendo a costruire. 27 Gennaio. Villaggi rasi al suolo, donne e bambini sgozzati, omicidi di massa. Trascorse circa tre settimane dalle elezioni in Nigeria, i fondamentalisti islamici Boko Haram hanno “intensificato l’offensiva contro città e villaggi nel nord-est, abitati a grandissima maggioranza da musulmani.” Attualmente nessun civile può entrare o uscire dalla metropoli e le organizzazioni umanitarie lanciano un grido, temendo per la vita di centinaia di migliaia di civili. Uomini, donne e bambini. 27 Gennaio. Riesplode la violenza in Ucraina. Gli scontri si sono riaperti lungo tutto il fronte, mentre Donetsk, le città e i villaggi circostanti vengono martellati dai mortai. Ogni giorno si apre con le notizie di nuove vittime, civili e non. Una nuova ondata di violenza che è culminata negli attacchi contro i mezzi pubblici, non ultimo quello di qualche giorno fa che ha fatto registrare nove morti ad una fermata di filobus. Uomini, donne e bambini. 27 Gennaio. Non si è ancora chiusa la ‘questione CharlieHebdo’ che ha svegliato tutto il mondo, puntando i riflettori su Parigi e fermando il calendario al 7 Gennaio. I giornali titolano “Il terrore insaguina Parigi e la Francia”, “Assalto alla redazione del giornale satirico, 12...
Dopo l’attentato di Parigi, la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Islamica di Sicilia hanno invitato la cittadinanza a riflettere sul dialogo tra Cristiani e Musulmani nella costruzione della società del convivere, a partire dalla vita comune nella città di Catania. Sono state organizzate infatti una serie di iniziative che hanno avuto luogo a partire da Venerdì 16 a Sabato 18 Gennaio 2015, che hanno compreso momenti di preghiera per la pace, una preghiera interreligiosa e, nella Domenica 18 Gennaio 2015, una giornata di giochi per i bambini, all’interno della suggestiva cornice del monastero dei Benedettini. La “tre giorni”, nata con l’intento di porre un argine ad un clima d’odio che sarebbe potuto nascere dalla lettura miope della tragica cronaca degli ultimi giorni, ha avuto il merito di riempire gli occhi dei cittadini di Catania dell’immagine emozionante della bellezza di una città dell’integrazione in cui cristiani e musulmani pregano, vivono e giocano insieme. Ci siamo riscoperti amanti appassionati della pace, costruttori pazienti di una città del convivere, necessaria per superare la difficoltà dei nostri tempi. -L’attentato di Parigi- come suggerisce Emiliano Abramo della Comunità di Sant’Egidio,- infatti è un campanello d’allarme che dimostra che le periferie sono vuote di proposte. Chi arriva con un’idea forte le conquista. Se a Parigi attecchisce il fondamentalismo, nelle periferie siciliane i ragazzi trovano la mafia. Ma non per questo pensiamo che tutti i cristiani sono mafiosi. Insieme, tutte le comunità religiose, devono contribuire a una città basata sulla convivenza pacifica-. E’ inaccettabile che ci si possa perdere in semplificazioni infauste sui musulmani, creando assiomi che fanno molto male a persone presenti in maniera assolutamente positiva nella vita della città di Catania e in particolare nel sostegno ai più poveri ed ai migranti durante la stagione degli sbarchi. I bambini musulmani sono nati in Italia, sono le seconde generazioni, si sentono italiani, frequentano le scuole italiane. Bisogna proteggerli da una demagogia indecente pronta ad additarli come “piccoli terroristi” o “figli di terroristi” creando una cultura d’insieme. La moschea è un luogo aperto a tutti dove si costruisce la pace e si aiutano i poveri, stranieri ed italiani, cristiani e musulmani. Il mondo in cui viviamo ci è solo dato in prestito ed abbiamo il dovere di consegnarlo ai più piccoli, migliore di come ce lo hanno lasciato, l’integrazione, anche attraverso il linguaggio universale del gioco, porta i più piccoli, di tutte le religioni, ad assimilare una cultura della solidarietà. In una società sempre più colorata stare insieme diventa cultura, e la cultura è un argine importante alla violenza. Allora perché non condividere insieme questa tensione per la pace ? Perchè non lanciare una proposta a tutta la dimensione cittadina per dare un’anima a quest’Europa delle semplificazioni e della fazioni. Perché non dimostrare che non solo è possibile ma che lo stiamo già facendo! La “tre giorni” ha visto il suo esordio Venerdì 16 Gennaio alle ore 14:00, nella Moschea della misericordia, dove centinaia di persone hanno pregato per la pace, orientati verso La Mecca,...
Gli immigrati di Tor Sapienza: “Voi siete senza lavoro, è terribile. Ma la colpa non è nostra”
RedazionePubblichiamo anche sul nostro blog il bell’articolo di Domenico Quirico uscito sul La Stampa di oggi a proposito di quello che sta avvenendo a Tor Sapienza. Vivevano al centro di viale Morandi da due mesi. Non dover più fuggire per due mesi è già un sogno inverosimile. Sono davanti a me, si stringono in gruppo, la prima volta che escono dal centro dopo… dopo l’assedio e l’assalto e le urla «vi vogliamo bruciare». Mancano i più giovani. Li hanno portati in altri luoghi; loro, gli anziani, ma il più vecchio ha forse venticinque anni, sono rimasti. Una trentina. La furia profonda di chi non li vuole più vedere non sembra scemare, anzi contagia altre periferie di questa Roma impiastricciata di cortei rabbiosi e appelli sconsiderati. La civiltà è uno strato sottile, basta la pioggia per cancellarla. La polizia li ha scortati, («la gente ci insultava e noi zitti nel bus, gli occhi bassi…»), la messa per quelli che sono cristiani, il pranzo in un centro di accoglienza. Mi spiegano i volontari di Sant’Egidio, missionari nelle periferie di una tolleranza che sembra anch’essa straniera in tempi di traboccamenti di fiele e vendette: nel pomeriggio torneranno, laggiù. Hanno tutti alle spalle la via lunga e pericolosa, la via dolorosa di chi ha dovuto fuggire, la strada del dolore che passa nel deserto e arriva in Libia dove si biforca verso Lampedusa, Catania, Pozzallo. Gente come questa che fugge deve continuare a vivere fidando in caso fortuiti che quanto più sono inverosimili tanto più sembrano normali. Queste sono le fiabe moderne: non molto allegre, che solo raramente terminano meglio di quanto ci si aspetti. Qui in viale Morandi c’erano ragazzini e fuggiaschi che hanno diritto alla compassione di tutto il mondo, quella grande. Non quella piccola, che li compiange ma li trova molesti e indesiderati. Qualcuno che inveisce contro di loro o peggio ha ascoltato le loro storie, sa chi sono? Due arrivano dal Gambia, la vita si muove alta sui loro volti, completa e dolce e penosa, e poi eritrei, maliani, afghani, siriani, la geografia del mondo del dolore, dei fanatismi, della sofferenza. Folate di vento sollevano vortici di polvere e pezzetti di carta. «Sono stanco, stanco… Non capisco: ci sono problemi politici in Italia, ma che problema politico sono io, e i miei compagni… Non avete lavoro? È terribile, ma che colpa ne ho io? Vorrei andare nella mia stanza e non svegliarmi». Parliamo con fatica, a strappi, il solito intervallo di imbarazzo fra fuggiaschi. Non si sa fino a che punto sia lecito far domande. Lui è oromo, etiope («ma in nel mio Paese comandano gli amhara…»). In Libia è stato un anno prigioniero in un campo, ha rischiato la morte, prima che la rete di assistenza del suo popolo gli procurasse i soldi per traversare il mare: «Dove abbiamo sbagliato per trovare tanto odio? Non abbiamo mai fatto casino, noi del centro, aiutavo le vecchiette nel negozio, lasciavo il posto ai signori anziani nel bus, andavamo a...
Pubblichiamo una poesia di Antuane E. Davila Mazzetti, giovane per la pace, che esprime in versi essenziali la memoria del 16 ottobre 1943, giorno in cui furono deportati gli ebrei romani nei campi di sterminio nazisti. La poesia nasce dall'incontro dei Giovani per la Pace con Enzo Camerino, sopravvissuto alla deportazione e custode di una fondamentale testimonianza.
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