E’ stata una giornata particolare quella di Lunedi 5 Gennaio. La RAI, è venuta a Catania per registrare un servizio sul lavoro dei Giovani per la Pace durante il loro servizio ai più poveri e per raccontare una generazione che, partendo dagli ultimi, ha deciso di cambiare il mondo. Giovani catanesi e nuovi europei insieme, questo ha colpito la truope RAI, che ci ha seguito durante tutta la giornata. Villa Chiara, la casa per per anziani che i Giovani per la Pace frequentano settimanalmente, è stata la prima tappa. La prima immagine raccontata dalle telecamere, è stata quella del dialogo tra Giuseppe, di 94 anni, e Jonathan e Karamo, due Giovani per la Pace del CARA di Mineo. Tema:la Libia!!! Quella di tanti anni fa, la Libia dove gli italiani stavano bene, la Libia della giovinezza di Giuseppe…ma anche la Libia di oggi, la Libia della sofferenza, della guerra, la Libia raccontata da Karamo e Jonathan, quella della violenza, delle torture, l’inferno raccontato dalle parole dei due Giovani per la Pace di Mineo. Tanta curiosità da parte degli anziani per questo appuntamento inaspettato: “La RAI viene da noi??? E chi ce lo doveva dire!!!!” Seconda tappa di questa giornata, è stata la preparazione della cena per chi vive per strada. Ogni settimana infatti tanti giovani, liceali e universitari, preparano un pasto per chi non ha casa. Anche qui tanta curiosità da parte di tutti che, tra un panino da preparare e l’altro, hanno risposto alle domande del regista della RAI Lucio. Tanti gli intervistati, tante domande e tanta curiosità. Perchè così tanti giovani, catanesi e nuovi europei, hanno scelto di vivere, all’interno della propria settimana, una tensione e un’attenzione così particolare per che è più povero ? Perchè chiamiamo i poveri, amici ? Perchè un giovane del Ghana, del Gambia, del Senegal, che vive a Mineo, ha deciso di dedicare parte della propria settimana per servire chi è più povero di lui ? Queste, alcune delle domande che ci sono state rivolte. Non riportiamo le risposte e vi rimandiamo al servizio che andrà in onda Domenica 11 Gennaio alle ore 10.30 su RAI 1. Il servizio televisivo è continuato con le riprese della preghiera dei Giovani per la Pace, dove ancora una volta è risuonato il Vangelo di Natale; Gesù nasce nel buio e nel freddo della notte, il buio nella vita e nel cuore di tanti, il buio della guerra, del terrorismo, della povertà, della solitudine. Ma il Natale è quella luce che illumina quel buio, una luce che dà gioia e che si capisce nel servizio a chi è più povero, nell’essere insieme, cambiando il proprio cuore. Al termine della preghiera, verso le 20.30 circa, le telecamere hanno ripreso le nostre macchine riempirsi di coperte, té caldo, panini, piumoni. Siamo così partiti per il nostro “giro” lungo le vie della città, dove chi non ha casa ci aspetta per un pasto caldo, una coperta, ma sopratutto per scambiare quattro chiacchiere tra buoni amici. Anche qui tanta curiosità: “E che ci fa qui la RAI con...
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No, non lo siete e non lo siamo. Non è così perché ancora, in questo come in altri Paesi, è difficile togliersi di dosso il velo d’ignoranza che tira giù tutti coloro che hanno voglia di respirare il fresco profumo di libertà, anziché quel tanfo fatto di uccisioni e censure. Non siamo tutti Charlie perché, in fin dei conti, quasi nessuno si è concentrato sul fatto che esista un altro Islam, fratelli e sorelle (e sono la maggior parte) che condannano a testa alta quanto accaduto a Parigi. Ma esiste, ed è ahimè pressante, un bel trancio di mondo che sta iniziando a giustificare azioni repressive e guerre di vendetta che porteranno altri figli di questa terra a morire per un ideale feticcio, mai giustificato e mai propugnato da alcuna religione. Religione. Quella parola che, almeno a me così hanno insegnato, viene da “religo” ovvero “lego insieme, più forte”. Non certo “divido” o “vendico” o peggio ancora “uccido liberamente”. La libertà, quella vera, è data dal coraggio di scrivere ogni giorno una storia di unione, nonostante quanto accade per dividerci; quando sarà passata l’onda della “notizia choc” che in tanti stanno cavalcando selvaggiamente, come avvoltoi che volteggiano sui corpi delle vittime di ogni strage analoga, spero solo che si possa iniziare a ricostruire un percorso di pace che sia capace di relegare in un angolo simili gesti inumani. La speranza di rinascere e di ricostruire, oggi, è la cosa più importante che dobbiamo conservare nei nostri cuori, poiché -parafrasando Gandhi- “non può stringersi una mano in segno di pace, se si tiene chiuso il pugno!”.
I giovani per la pace hanno ancora voglia di Natale, di quello fatto di cuore, speranza e cambiamento. É per questo che un gruppo di liceali allontanandosi dal centro l’ ha ritrovato alla periferia di una periferia, dove più nessuno cerca, dove più nessuno spera: al campo rom di Scampia. Su uno sfondo di fango e baracche abbiamo pregato insieme, una preghiera che ci ha visti partecipi della stessa emozione, un’ emozione che ci ha convinti di essere nel posto giusto, era Natale negli occhi dei bambini e delle donne rom perché eravamo li, in un luogo che i più disprezzano e attentano, era Natale nei nostri occhi perché eravamo con loro a fare di una periferia il centro del nostro mondo. Questa mattinata al campo ha risposto a molte delle nostre domande, perché ci ha fatto capire cosa c’ é realmente dietro i giudizi sbagliati, ma soprattutto che alle periferia non finisce la vita, ma rinasce e si fa spazio tra mille punte di spine. La strada che porta al campo ha tutte le sembianze di una discarica di rifiuti, ma entrando capisci che é anche una discarica di mani arrese e sguardi indifferenti e che la nostra preghiera e il nostro Natale non potranno di certo finire. Sul balcone di una vela c’ era scritto che “cresce solo chi é sognato”, noi sognamo un cambiamento per Scampia, per i rom, per le periferie tutte, e giornate come questa ci fanno ben sperare!” Articolo scritto da Francesca Sepe
Gli immigrati di Tor Sapienza: “Voi siete senza lavoro, è terribile. Ma la colpa non è nostra”
RedazionePubblichiamo anche sul nostro blog il bell’articolo di Domenico Quirico uscito sul La Stampa di oggi a proposito di quello che sta avvenendo a Tor Sapienza. Vivevano al centro di viale Morandi da due mesi. Non dover più fuggire per due mesi è già un sogno inverosimile. Sono davanti a me, si stringono in gruppo, la prima volta che escono dal centro dopo… dopo l’assedio e l’assalto e le urla «vi vogliamo bruciare». Mancano i più giovani. Li hanno portati in altri luoghi; loro, gli anziani, ma il più vecchio ha forse venticinque anni, sono rimasti. Una trentina. La furia profonda di chi non li vuole più vedere non sembra scemare, anzi contagia altre periferie di questa Roma impiastricciata di cortei rabbiosi e appelli sconsiderati. La civiltà è uno strato sottile, basta la pioggia per cancellarla. La polizia li ha scortati, («la gente ci insultava e noi zitti nel bus, gli occhi bassi…»), la messa per quelli che sono cristiani, il pranzo in un centro di accoglienza. Mi spiegano i volontari di Sant’Egidio, missionari nelle periferie di una tolleranza che sembra anch’essa straniera in tempi di traboccamenti di fiele e vendette: nel pomeriggio torneranno, laggiù. Hanno tutti alle spalle la via lunga e pericolosa, la via dolorosa di chi ha dovuto fuggire, la strada del dolore che passa nel deserto e arriva in Libia dove si biforca verso Lampedusa, Catania, Pozzallo. Gente come questa che fugge deve continuare a vivere fidando in caso fortuiti che quanto più sono inverosimili tanto più sembrano normali. Queste sono le fiabe moderne: non molto allegre, che solo raramente terminano meglio di quanto ci si aspetti. Qui in viale Morandi c’erano ragazzini e fuggiaschi che hanno diritto alla compassione di tutto il mondo, quella grande. Non quella piccola, che li compiange ma li trova molesti e indesiderati. Qualcuno che inveisce contro di loro o peggio ha ascoltato le loro storie, sa chi sono? Due arrivano dal Gambia, la vita si muove alta sui loro volti, completa e dolce e penosa, e poi eritrei, maliani, afghani, siriani, la geografia del mondo del dolore, dei fanatismi, della sofferenza. Folate di vento sollevano vortici di polvere e pezzetti di carta. «Sono stanco, stanco… Non capisco: ci sono problemi politici in Italia, ma che problema politico sono io, e i miei compagni… Non avete lavoro? È terribile, ma che colpa ne ho io? Vorrei andare nella mia stanza e non svegliarmi». Parliamo con fatica, a strappi, il solito intervallo di imbarazzo fra fuggiaschi. Non si sa fino a che punto sia lecito far domande. Lui è oromo, etiope («ma in nel mio Paese comandano gli amhara…»). In Libia è stato un anno prigioniero in un campo, ha rischiato la morte, prima che la rete di assistenza del suo popolo gli procurasse i soldi per traversare il mare: «Dove abbiamo sbagliato per trovare tanto odio? Non abbiamo mai fatto casino, noi del centro, aiutavo le vecchiette nel negozio, lasciavo il posto ai signori anziani nel bus, andavamo a...
Si è conclusa a Catania giorno 11 agosto la “Tre giorni senza frontiere”: la prima tre giorni di giochi, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio e dai Giovani per la Pace. Il nome della manifestazione racchiude in sé il significato profondo che i Giovani per la Pace hanno voluto dare: senza frontiere; frontiere che spesso sbarrano il passaggio ai sentimenti migliori, come l’amicizia, la simpatia tra persone e popoli diversi, la solidarietà, la voglia di stare insieme e fare del bene divertendosi. Le frontiere sono anche quelle che si pongono innanzi ai tanti poveri delle nostre città rendendole inumane, quelle che rendono difficile ai migranti arrivare nella terra promessa. Le frontiere per cui si muore di speranza. Così i Giovani della Comunità di Catania e tanti altri giovani provenienti da diverse città della Sicilia insieme agli oltre ad oltre 50 Giovani per la Pace che risiedono nel C.A.R.A. di Mineo come “special guests”, divisi in squadre hanno voluto dedicare a Catania uno spazio libero dove stare insieme, vivere la fraternità, creare una reale integrazione ed affrontare tutti insieme, come una sola grande squadra, i temi che stanno cambiando la Sicilia e i luoghi dove i Giovani per la Pace sono attivi, fra tutti l’accoglienza. Infatti dopo aver gareggiato per due intere giornate, passate, la prima al mare tra giochi con l’acqua ed il torneo di beach-volley, e la seconda, per tutta la città con una difficilissima “caccia al tesoro”, tutta la comunità di Sant’Egidio si è fermata il terzo giorno per commemorare le vittime del tragico sbarco di un anno fa, che ha visto morire sei migranti africani vicino al litorale catanese. Grazie ad una petizione dei Giovani per la Pace ed alla pronta sensibilità dell’amministrazione comunale, è stata infatti posta una targa commemorativa sopra una stele di pietra lavica che ricorda le vittime del mare e tutti coloro che hanno perso la vita nei viaggi della speranza. Una piccola pietra nella città che comunica qualcosa di grande: i giovani siciliani hanno scelto l’accoglienza. Nel dubbio tra respingere o abbracciare, hanno scelto l’abbraccio: infatti il 10 agosto 2013 i Giovani per la Pace e la Comunità tutta abbandonarono loro vacanze per andare a soccorrere chi era rimasto vivo e piangere le sei persone, i cui nomi, grazie questa targa, resteranno incisi per sempre nel cuore della città. Da quel dolore i giovani di Catania hanno reagito guardando l’orizzonte verso il mare e sapendo che ci sono fratelli da accogliere, da salvare e da integrare e non problematiche sociali da evitare. Uomini donne e bambini a cui volere gratuitamente bene. Tre giorni senza frontiere ha trovato il suo culmine durante la liturgia nella chiesa di Santa Chiara a Catania che ospita la vita della Comunità, dove erano presenti tantissimi poveri della città serviti durante l’anno. Poveri e ricchi, europei e nuovi europei, giovani e anziani hanno pregato insieme come una sola famiglia. La festa finale è stato un tripudio di gioia, di felicità piena, di sorrisi complici e di fraternità vera, tra persone che hanno voluto coniugare l’utile, interessante al divertente, per dimostrare come sia possibile costruire una società migliore. Sta nascendo in Sicilia una...
Puglia, San Vito dei Normanni. A dieci chilometri da questo piccolo paesino del Salento i Giovani Per la Pace della Comunità di Sant’Egidio incontrano i rifugiati politici ospitati nell’ex villaggio turistico Green Garden. Ragazzi come tutti, ma con un passato travagliato. Vengono dalla Nigeria, dal Pakistan, dal Mali; da tutti quei paesi che, anche se meravigliosi, a causa di guerre e povertà non hanno più la possibilità di regalare un futuro sicuro ai loro giovani. Ed è in questa piccola oasi lontana dal centro abitato che i Giovani Per la Pace hanno incominciato un’amicizia con quei ragazzi che portano le ferite della guerra e del disprezzo.Questi si presentano con allegria, talvolta con il loro abito più bello, talvolta indossando semplicemente l’unico che hanno. Una volta instaurato un rapporto di confidenza e complicità con loro, alcuni profughi si sentono anche di condividere la loro tragica esperienza del viaggio della speranza verso l’Italia. Troppo spesso, quando si pensa agli immigrati, l’immagine che viene automaticamente trasmessa è quella di uomini o donne che vendono oggetti per la strada o per la spiaggia. Si evitano, si allontanano e a volte li si schernisce. Ma non si riflette mai su quello che è stato il loro viaggio, il dramma che li ha spinti a lasciare il loro paese, la loro famiglia, i loro affetti. E ancora meno si riflette su ciò che hanno dovuto passare per raggiungere l’Italia. È il caso di un giovane del Mali, Mandila, che ha voluto condividere con alcuni Giovani Per la Pace la storia del suo viaggio. “Per imbarcarmi per l’Italia ho dovuto raggiungere la Libia” spiega Mandila, “ma dal Mali alla Libia ho viaggiato in un pullman. Eravamo in trenta”. Per pullman, Mandila intende un furgoncino da undici posti massimo; e questo viaggio, da quanto racconta, è stato un inaspettato colpo di fortuna. “Molti miei amici che non hanno trovato posto sul pullman hanno dovuto viaggiare sotto i camion” dice. Poi la barca con cui lascia la Libia, l’ultima tappa del viaggio; anche lì la fortuna ha voluto assistere Mandila che, ci confida, non ha visto nessuno dei suoi compagni di viaggio perdere la vita in mare. Ma spesso i pericoli non sono nemmeno in mare. Ce lo racconta Austin, un ragazzo nigeriano di ventiquattro anni: “Il mio viaggio è durato sette mesi, di cui tre passati da prigioniero in Libia”. Contrabbandieri, trafficanti di organi, il valore della merce umana sembra oltrepassare quello della vita. Ma il timore di venire uccisi non ferma questi giovani coraggiosi; coraggiosi di sognare, pronti a costruirsi un futuro. Ce lo dimostra Austin, la cui aspirazione è quella di fare il meccanico: “Nel mio paese facevo il meccanico. Voglio continuare a farlo anche qui. È il mio lavoro, quello che so e che mi piace fare”. Ed è in questo clima di amicizia e solidarietà che i Giovani Per la Pace pregano insieme ai loro fratelli stranieri; in questo frangente cristiani, musulmani ed ebrei si ritrovano a pregare per la prima volta insieme...
“Oggi sono contento che sei venuta!”. Mi accoglie così Modou. Le parole più belle del mondo, dette da un ragazzo alla festa di fine Ramadan che i Giovani per la Pace di Messina hanno organizzato per i minori, ospiti dell’istituto Spirito Santo. Abbiamo portato cibo, bibite, musica e tanta compagnia. Noi arriviamo, chi in macchina chi a piedi. Eccoli lì, sul muretto: loro ci aspettano, come sempre. Sono 14 ragazzi, con le loro storie, il loro passato. In Gambia, in Mali, hanno lasciato mamma e papà oltre che gli orrori della guerra, della miseria e della fame; qui in Italia sono arrivati denutriti, tristi, malati, e noi Giovani per la Pace di Messina eravamo lì ad accoglierli all’ospedale e alleviare quello che i medici non posso curare: la solitudine e i ricordi terribili del loro “viaggio della speranza”. Dopo due mesi, stanno bene e sorridono, sorridono tanto. “Lussia, Ramadan finito!!” mi dice Bakari. Sono contenti e sorridenti, mettiamo la musica ad alto volume, il cibo sul tavolo grande al centro, si inizia a chiacchierare. Ibrahima prende la macchina fotografica e si finge fotografo, chiedendoci di metterci in posa; qualcuno balla ma soprattutto si ride e si parla tanto, accentando anche le prese in giro sul nostro inglese inadeguato. E così mi viene in mente che quando si invitano gli amici a casa, è così che si fa, no? Posso dire che all’ inizio è stata Accoglienza, ma adesso è Amicizia, e per gli amici si fa qualunque cosa. Lucia Florio , Giovani Per La Pace
“Università, i rom assediano i wc per lavarsi e radersi: furti e caos”. Questo è ciò che si legge all’apertura della pagina di cronaca di una testata romana che ogni giorno circola gratuitamente in tutte le metro della città e altrove. “Grido di allarme degli studenti di Ingegneria: i bagno sono impraticabili e nelle sedi regna il degrado”. Certo è che alla vista di tale annuncio si direbbe una vera e propria invasione. E la cosa non finisce qui, perché facendo una rapida consultazione dei social network maggiormente frequentati si possono avvistare le parole di studenti vittoriosi e festanti che, all’uscita della notizia, reclamano la paternità dell’avvenuta diffusione dell’episodio. A questo punto però, scorrendo meglio le pagine del web, sollecitati dalla curiosità della vicenda un po’ anomala, si scopre che in realtà l’ipotetico fatto non sia altro che la testimonianza di alcuni ignoti ragazzi che hanno portato altri universitari alla conoscenza della vicenda attraverso una pagina social chiamata Insulted Roma Tre. Il che la dice già lunga sulla serietà della questione: su questa pagina gli studenti si divertono infatti a pubblicare insulti e inveire in modo più o meno scherzoso contro comportamenti fastidiosi di colleghi e situazioni spiacevoli di vita universitaria. Ed è proprio in mezzo a questo clima goliardico che sorge anche la notizia della fantomatica invasione di rom alla facoltà di ingegneria dell’università di Roma tre. Con tanto di foto scattata sul luogo dell’accaduto: l’immagine di un senza tetto che impropriamente utilizza il bagno dell’università per lavarsi e radersi. Comportamento sbagliato, non c’è che dire. Ma anche tanto sbagliato quanto la reazione di chi, arrogantemente, si è appropriato del diritto di farne una battaglia ideologica vera e propria, diffondendo la notizia persino tra le pagine di una testata cittadina. Quando avrebbe tranquillamente potuto spiegarlo alla persona stessa,chiedendogli con grazia di avvicinarsi alla porta di uscita perché quello non era il luogo adatto per lavarsi. E magari, preso da slancio caritatevole e comprensivo avrebbe potuto consigliargli di andare con lui, accompagnandolo quindi verso un qualsiasi luogo più adatto – come per esempio la segreteria dell’istituto – dove forse avrebbero potuto trovargli una soluzione alternativa. Magari il segretario trovatosi in mezzo alla vicenda gli avrebbe volontariamente offerto la possibilità di utilizzare la toilette del personale. O in caso contrario, avrebbe potuto metterlo in contatto con le associazioni presenti sul territorio romano, che tempestivamente avrebbero trovato per lui una reale soluzione, anche di tipo duraturo. Ma questo stranamente non accade mai, perché la cultura nazionalista di cui spesso ci facciamo vanto, altrettanto spesso si dimentica di atteggiamenti di questo tipo. La via più facile sembra sempre quella di rimuovere le situazioni di disagio piuttosto che spendersi per prendersene cura e cercare di cambiarle definitivamente. Ma è davvero questa la risposta più efficace al “degrado”? È vero, non molto distanti da quell’università vi sono terreni dove spesso vivono individui di origini Rom. Tanto vituperati perché a dire di tutti “la loro cultura li spinge alla delinquenza”. Anche se a ben...
Il primo maggio 2014, a San Giovanni Gemini, nell’Agrigentino si è tenuta la manifestazione “Giovaninfesta” dal tema “Don’t pass over” ovvero “Non passare oltre”. La manifestazione ha visto coinvolti più di quattromila giovani, che hanno impiegato un giorno di vacanza per ascoltare diverse testimonianze. La prima, da parte del signor Costantino Baratta, un uomo comune che con tanto coraggio è riuscito a salvare la vita di undici migranti sbarcati sulle coste dell’isola di Lampedusa. L’uomo ha raccontato di essersi accorto di alcune persone in mare, bisognose disoccorso e con grande prontezza, ha offerto loro un efficace aiuto e, dopo averli salvati, li ha accolti nella sua casa, aiutandoli a mettersi in contatto con le loro famiglie. E’ stata messa in risalto la determinazione dell’uomo a “non passare oltre” ma invece, a preoccuparsi di salvare le persone in pericolo. Un’altra significativa testimonianza sull’immigrazione è quella di Felix, Giovane per la pace di Mineo, che ha raccontato il suo passato di sofferenze e pericoli prima di giungere sulla nostra terra, condividendo con il numeroso pubblico, le emozioni di paura, di sconforto provate durante il suo pericoloso viaggio dove ha più volte rischiato la vita. E’ stato arrestato in Libia ingiustamente, perchè scambiato per un sostenitore del dittatore Gheddafi: lì ha subito molte ingiustizie e torture durante i mesi di reclusione e, ormai libero, è riuscito a raggiungere le coste della nostra isola. Alla fine della testimonianza ha esclamato con gioia di aver finalmente trovato la pace e l’ospitalità presso la Comunità di Sant’Egidio – Sono molto felice di essere qui- ha affermato sorridendo. Tra divertenti coreografie e coinvolgenti canzoni, quello della “mafia” diventa l’argomento trattato attraverso la testimonianza dell’ imprenditrice Valentina Ferraro che con ammirevole coraggio ha denunciato Mario Messina Denaro, fratello del boss mafioso Matteo Messina Denaro. Forte infatti e a più riprese, è stata la presa di posizione contro la Mafia del Vescovo di Agrigento, Francesco Montenegro. La manifestazione si è conclusa con il brano “ We want peace” eseguito da Felix e da altri due Giovani per la Pace di Mineo, realtà composta da giovani richiedenti asilo politico, che hanno voluto dedicare il loro pensiero alla pace nel mondo. Nelle ore del pomeriggio, vari stand sono stati aperti al pubblico, compreso quello dei “Giovani per la pace” di Catania. Abbiamo lanciato una raccolta firme, rivolta alla pubblica amministrazione catanese per ottenere una targa commemorativa per le vittime dello sbarco a Catania del 10 agosto 2013. Firma on line la petizione dei Giovani per la Pace Incontrando i giovani dell’agrigentino abbiamo illustrato i servizi dei “Giovani per la Pace”, rivolti ai più poveri e invitato i passanti incuriositi a conoscere in modo più approfondito la Comunità di Sant’Egidio e soprattutto a farne parte. Con alcuni di loro, provenienti da tutte le parti della Sicilia, si prospetta di aprire delle nuove sedi laddove ce ne sia bisogno. Qualche ora dopo, gli stand vengono chiusi e la giornata si conclude con la felicità di aver passato un
“Sono italiano! Sono africano! E, come vedete, sono nero! E sono fiero di essere quello che sono. Ma soprattutto sono un essere umano!” Cosi apre la sua testimonianza Maurice, ventiseienne della Costa d’Avorio, sopravvissuto alla traversata del deserto del Sahara, ad un naufragio e giunto a Lampedusa; sorte fortunata, o oseremmo dire, benedetta , rispetto ai tanti immigrati che purtroppo in questi giorni ci hanno lasciato. Con queste parole sincere e coraggiose si apre il secondo appuntamento di “Parole di uomini, Parola di Dio”, organizzato dalla comunità di Sant’Egidio, che ogni mese si incontra per discutere sul valore di alcuni temi secondo le scritture e la nostra esistenza da uomini. Oggi vedremo come alla parola ODIO/INIMICIZIA si possa rispondere “ Facendo il bene” e “Riconoscendoci tutti fratelli, perché figli di uno stesso padre”. “Noi stranieri dobbiamo ringraziare l’Italia perché ci ha accolti” – ribadisce Maurice, ricordando quei 3 lunghi giorni di interminabile cammino nel deserto, mentre era costretto a lasciare sulla sabbia, stremati, tanti compagni di viaggio – “Molti non ce la fanno. Durante il viaggio vedi ai tuoi lati corpi umani, ma non puoi fermarti, devi andare avanti se vuoi sopravvivere”. Racconta ancora di come, dopo 2000 km, si sia visto proporre per la grande traversata una piccola barchetta trasandata di circa 250 posti, mentre lui e i suoi compagni di viaggio, erano più del doppio: “Quando arrivi lì devi per forza salire! Sono armati!”. Conclude sobriamente e umilmente il suo “esodo” raccontando dell’arrivo a Lampedusa e della felice accoglienza che ha ricevuto dalla Caritas di Frosinone.“Dio mi ha fatto conoscere molte persone buone!” – cosi risponde ai tanti amici che gli domandano come faccia a vivere con delle persone che “lo insultano, lo picchiano, lo discriminano” (gli italiani). “Mi piace l’Italia perché non posso lamentarmi! Però è ancora dietro al razzismo!” – Inizia, allora, un accorato appello ai tanti universitari operanti nella comunità presenti in aula, perché è dai giovani che le cose devono cambiare – “Non sono sporco, sono nero! Sono una creatura di Dio! Se dici cosi allora anche Dio deve essere sporco!” – “Tu credi in Dio? E non ami suo figlio perché è nero?” – “Se io vi dessi per un solo giorno la mia pelle, non ve lo scordereste mai per quello che vivreste!”.La sua testimonianza è sincera, umile e si estende anche al tema dell’interculturalità e all’apertura alle altre culture, viste come ricchezza: “Dovete togliervi dalla testa che siete superiori ai neri e che gli altri non possono insegnarvi niente!” – afferma con rammarico, lui che ora è allenatore di calcio ai bambini di Strangolagalli, la cittadina in cui ora vive felicemente. “Dovete approfittare delle altre culture; solo cosi potete accrescere le vostre conoscenze” – “Rispetto e un po’ di affetto! Solo questo chiediamo noi stranieri! Devi dirci che tu sarai la nostra famiglia!”.La sua è una fede forte, e ce lo dimostra rispondendo al tema ODIO, con la parola PERDONO: “Ho imparato a perdonare, ho imparato a pregare, ma non imparerò mai a fare finta di essere ciò...
Quando Giorgio Napolitano è stato rieletto Presidente della Repubblica, vuoi per la sua abilità nel far dialogare le parti politiche, vuoi per la continuità ritenuta necessaria da taluni, in pochi hanno pensato a un tratto rilevante del pensiero politico del Presidente rieletto: nel messaggio di fine anno trasmesso a reti unificate, infatti, Napolitano ha ribadito l’importanza di riconoscere la cittadinanza italiana come diritto a chi nasce e cresce in Italia. Appello simile è giunto dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, nel suo discorso di insediamento. Il riconoscimento di questo diritto speriamo giunga a compimento dopo una lunga storia. Nella scorsa legislatura (2008-2013) sono stati presentati 48 disegni di legge per cambiare la normativa in tema di cittadinanza. Nemmeno uno convinse una maggioranza. In questo nuovo Parlamento si contano già una ventina di nuove proposte. Un tema che sembra poter essere caro solo al centrosinistra; quando, invece, è una lotta per i diritti che può trovare tutti d’accordo. Di fronte al paradosso del bambino nato da genitori stranieri, che ha compiuto i suoi studi in Italia, e forse nemmeno ricorda il Paese di provenienza, tantomeno sa parlare la lingua dei genitori con la stessa scioltezza con cui comunica in italiano, e per giunta tifa la Roma, cosa deve fare il legislatore? Sebbene per alcuni la caratteristica del tifo calcistico (sbagliato) sarebbe giusto motivo di sospensione di tutti i diritti civili e politici, ben s’intende che è l’uomo che fa la cultura e non la cultura a fare l’uomo. Cambiare la legge sulla cittadinanza non significa propiziare l’arrivo di barconi dall’Africa – peraltro problema spesso trascurato, quello dei morti nel Mediterraneo, per via delle serpeggianti pulsioni razziste. Non significa riconoscere uno ius soli puro. Mi spiego: chi nasce sul suolo italiano, sarebbe italiano, senza se e senza ma. Essere cittadini italiani però significa avere diritti e doveri costituzionali: collaborare al progresso materiale e spirituale della nazione, essendo posti nella condizione di farlo. La mobilità delle persone influisce sul welfare e, per motivi di ordine pubblico, è rassicurante evitare la ‘spesa dei diritti’. L’unico limite è l’ordine pubblico, non però quello dettato dall’ossessione per la sicurezza e dai pregiudizi per cui l’immigrato è una ‘persona illegale’. Bisogna cambiare i termini del dibattito. Non è più tempo di contrapporre il diritto del sangue (ius sanguinis), vale a dire la cittadinanza se si discende da cittadini italiani, al diritto del suolo (ius soli), ossia essere cittadini per il semplice dato fisico di esser nati su suolo italiano. Ma non si può nemmeno andare avanti con le sevizie burocratiche per cui, chi nasce e cresce in Italia a diciotto anni (e non oltre!) deve inviare la richiesta per il riconoscimento della cittadinanza e, se non s’appresta, è costretto a rivolgersi al Ministero dell’Interno, con una trafila ancora più lunga. Se è un diritto, va riconosciuto all’istante. Parliamo dunque di uno ius soli temperato – nasci sul suolo italiano, vi risiedi, studi o lavori – e di uno ius culturae (diritto della cultura) – se...
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