Abbiamo intervistato due giovani che stanno in una struttura di accoglienza in un piccolo paesino della Sicilia, a pochi chilometri da Gela. Con qualche difficoltà linguistica, le loro storie sono dei libri aperti, che rievocano paure e commozione, anche in chi le ascolta. L'Italia che li ha accolti li fa parlare di una vita che è cambiata.
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Ciro Priello prova a parlare di tutti i problemi degli italiani e del mondo
Il mondo cambia a partire dalle periferie, quelle urbane, umane, quelle esistenziali che toccano tanti giovani oggi che sognano il cambiamento e non sanno da dove iniziare! Vienici a trovare! Il mondo cambia a partire dalle nostre città che hanno diritto ad un pensiero nuovo che nasca dall’amicizia con i poveri, con la preghiera, con tanti anziani dimenticati negli istituiti, dai bambini che vivono i quartieri periferici e che hanno il diritto al cambiamento, ad avere un giovane per amico che lo accompagni nell’avventura della vita che insieme diventa meno complicata. I bambini hanno diritto alla Scuola della Pace. Il mondo cambia a partire dall’accoglienza dei rifugiati nelle nostre città, nei porti e nelle stazioni, luoghi di passione e di incontro, luoghi dove i Giovani per la Pace hanno trovato grandi alleati per costruire la globalizzazione della solidarietà e per sconfiggere la globalizzazione dell’indifferenza di cui parla Papa Francesco. Infatti molti rifugiati incontrati in tutta Italia oggi aiutano gli italiani in difficoltà! Il mondo cambia se costruiremo città più umane che devono tornare a guardare con compassione chi vive in strada. Possiamo scegliere se costruire la città del filo spinato o la civiltà del convivere. I giovani per la Pace da anni hanno legato la propria vita a quella dei poveri ed hanno scoperto che solo così il volto delle città può cambiare, concretamente: sono infatti migliaia i poveri che già ora andiamo a trovare con fedeltà e da anni in tutta Italia, perché l’amicizia con i poveri è un’amicizia fedele. Puoi farlo anche tu! #ChangeYourCity con i giovani per la pace! Partecipa anche tu alle attività di solidarietà con i più poveri, vienici a trovare alla sede dei giovani per la pace più vicina e scopri anche tu che insieme il mondo può cambiare. Non esitare #ChangeyourCity Partecipa su Twitter scrivendoci le tue idee taggando i @gxlapace con l’hashtag #ChangeYourCity
Dopo i momenti di xenofobia e violenza che abbiamo vissuto ieri, dopo i disordini a Roma e gli attacchi da ‘Mississippi Burning’ a Treviso, mi sono sentita abbattuta e sconfitta: umiliata per essere così idealista e ingenua da pensare che vivere insieme è possibile. Allora per combattere quella sensazione oggi avevo tutta l’intenzione di scrivere qualche riga infuocata,sciorinare dati e percentuali, dimostrare con ragionamenti rigorosi da che parte sta il torto e perché. Poi ho capito che non era questo il modo giusto, che anche io avrei così alzato la voce, provato a imporre con la violenza il mio pensiero. Il problema è che per quanto possa urlare non riuscirò mai a far cambiare idea a una persona così convinta della ragionevolezza della propria causa da brandire un’arma per difenderla. Il problema è che dati, percentuali e ragionamenti suonano giusti e perfetti alle mie orecchie perché io so: io vedo l’integrazione quasi ogni giorno e ho imparato ad associare agli sterili numeri dei nomi e dei volti. Delle persone. Ho imparato, per esempio, che l’integrazione inizia da noi, dal basso. Non possiamo aspettare che sia la società ad assestarsi, ma dobbiamo essere noi i motori del cambiamento. Per questo invece di chiedere documenti per prima cosa bisognerebbe tendere una mano e presentarsi, sperando che l’altro la stringa. Ho imparato nomi. Tanti. Tutti diversi dalla mia lingua madre. Perché imparare il nome di una persona è una forma di rispetto dovuta. È il primo passo per la conoscenza ed è quello fondamentale per iniziare un dialogo. Ho imparato a non fidarmi dei titoli sensazionalistici dei giornali, a non ripetere passivamente gli slogan dei politici, a non credere a tutti i numeri della televisione. E così ho letto. E leggendo ho imparato che il fanatismo non ha religione, che la ‘tendenza alla criminalità’ non è qualcosa che puoi rintracciare in un ceppo genetico, che la cattiva intenzione non è un fatto di cultura, che la malvivenza non è qualcosa che individui su una cartina geografica. Ho imparato che ‘straniero’ è una parola relativa e non determina uno stato, un modo di essere intrinseco della persona. Tutti sono stranieri per tutti in ogni luogo tranne che a casa propria. E se tutti si sforzassero di far sentire l’altro un po’ più a casa allora non esisterebbero più stranieri. Ho imparato che l’integrazione è un processo lungo e faticoso, che richiede impegno, ma che in cambio regala le più grosse soddisfazioni. L’ho imparato a Scuola della Pace, accanto a ogni bambino che ho visto sforzarsi su una pagina piena di parole di cui non conosceva il significato. Allora penso ai nostri bambini di Scuola della Pace, al loro modo di vivere insieme, e mi chiedo come questo sia possibile. Bambini di dieci nazionalità diverse che fanno i compiti spalla a spalla sullo stesso tavolo, giocano a palla nello stesso cortile, dividono la stessa merenda. Loro non sanno nulla di cifre e percentuali. Nessuno di loro si occupa di politica o si è mai fermato...
In questa settimana noi Giovani per la pace di Trieste abbiamo lanciato un appello: servono scarpe e luci al led per i nostri amici richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan e Pakistan che vivono per strada. In pochi giorni abbiamo trovato ( o comprato) le scarpe e le luci, che sono fondamentali perché i nostri amici stanno in angoli un po’ bui, e specie ora che è Ramadan di notte hanno bisogno di vederci per pregare e mangiare! Per ogni amico prepariamo un sacchetto col suo nome ed il suo numero di scarpe…così la distribuzione è più personale! Dopo aver raccolto il necessario, grazie all’aiuto generoso di tanti, siamo andati a distribuirli ai nostri amici. Con l’amicizia e le luci al led…abbiamo rischiarato un po’ il buio delle loro notti e abbiamo acceso una luce di accoglienza nella nostra città.
Davanti a ciascun delitto, offesa, o problema siamo soliti ormai sentire o leggere sui social media la frase: “E se fosse stato un immigrato?” come a voler dire che c’è ormai il sentire comune da strada che riserva un trattamento diverso tra chi compie qualcosa di turpe ed è italiano e chi, per esempio, non lo è. C’è quasi l’attesa di scoprire che l’autore del delitto è uno straniero come a volere assolvere dal male a propria comunità di appartenenza. Il delitto inoltre sembra persino più delittuoso se è stato compiuto dallo straniero. Da giovane curioso chiedo semplicemente “Perché?” Perché la nazionalità diventa una discriminante, quasi un aggettivo la differenza tra la gogna, il patibolo e l’assoluzione sociale. Ma sopratutto ricordiamoci sempre che c’è la vittima che soffre. Il problema è che ci siamo già abituati a gogne mediatiche, a atti di una tristezza immane (non trovo altro modo per definirli) e purtroppo la parte peggiore è proprio quel termine “abituati”, legato a tutto ciò. Dobbiamo stare attenti perché la nostra sensibilità non sembra essere suscitata più dalla violenza in sé, ma stiamo andando oltre, sindacando sulle modalità o sulla nazionalità di chi ha compiuto quel dato gesto. Ancora una volta rischiamo di perdere un’occasione per riflettere su come la violenza non sia mai giustificabile e perderci nella discussione sul nulla, analizzando i dettagli insignificanti e perdendo di vista i dati, le statistiche e perfino l’accaduto e con esso le possibili soluzioni.
Riceviamo e pubblichiamo il racconto di una studentessa del liceo Mamiani di Roma, Agnese Crivaro, sulla tragedia avvenuta nel Canale di Sicilia. 700 petali di rosa. Ne cade uno, cadono tutti gli altri. Pare quel gioco che fanno i bambini con le margherite: ‘M’ama o non m’ama’. E insomma? T’ama o non t’ama? Il mare è calmo, piatto. Le persone non hanno il coraggio di spogliarsi e andarsi ad immergere in quelle acque tanto fredde quanto salate. Ci sta quel bambino che passeggia con i sassolini in mano. Li osserva, se li rigira tra le mani come fossero sentimenti. Con delicatezza struscia le sue piccole dita lungo il dorso liscio dell’oggetto. Le sue unghie si infilano nei piccoli tagli sul dorso del sasso più grande. Gli viene una voglia mostruosa di spingere la sua unghia più a fondo, giusto per sentire se quel sasso ha un cuore, giusto per percepire il suo battito, giusto per fargli del male e vedere se sanguina. Ma niente, quel sasso non sanguina. Deluso, lo riposiziona sul palmo della sua mano e guarda l’infinita distesa di blu che si estende di fronte ai suoi occhi neri. Apparentemente, senza accorgersene, getta il sasso sulla riva, accanto al suo stesso corpo. Pare quasi che il sasso gli sia scivolato dalla mano, come se i suoi muscoli non avessero la forza di continuare a tenerlo. Quel mare blu va avanti e indietro, nota dopo nota, sale ogni attimo di un centimetro in più, e ridiscende di due centimetri a volta. Un movimento cauto, lento, ritmico, che si ostina ad oscillare tra vittoria e sconfitta. I suoi occhi profondi vagano tra quelle onde in costante movimento. Un tempo quel mare era sinonimo di libertà. Di viaggio. Di scoperta. Era il traguardo per tutti coloro che rifiutavano il conformismo e sceglievano di far invadere il loro cuore dalla natura selvaggia. Ora quel mare era solo una sinfonia. Un costante movimento calcolato dal tempo che ormai era dimora solo che di ingiustizia. E lui, il ragazzino dagli occhi neri e i sassi in mano, lo sapeva. Lo aveva visto. Un tempo in quel mare vi navigavano migliaia di cuori. Erano innamorati, quei cuori. Le loro anime si avvinghiavano l’una all’altra durante le lunghe traversate e ogni respiro che compivano rendeva più leggero quel loro viaggio. Loro amavano, ma non si limitavano ad innamorarsi l’uno dell’altro, quello sono buoni tutti a farlo. Loro amavano ogni anima presente su quelle barche che attraversavano quel mare. Ogni persona nutriva amore nei confronti dell’altra perchè loro si assaporavano con dolcezza. Loro, con gli sguardi si capivano; nei loro occhi viveva la loro storia. Un tempo in quel mare vivevano milioni di vite. Perchè quel mare era ancora fiducioso nella razza umana. Quel mare ancora credeva nell’uomo. Perció faceva il bravo quando ospitava sul suo dorso tutte quelle persone. Anche quando pioveva, quel mare manteneva la calma e tentava di mantenere stabile il suo equilibrio, giusto per loro. Il mare li...
Roma, immigrato ustionato denuncia: “Mi hanno dato fuoco in un cassonetto”. Non è la prima volta che gli immigrati, i senza dimora e i “diversi” sono vittime di episodi di razzismo e di violenza gratuita. L’altro ieri a Verona quattro ragazzi “perbene”, all’uscita da una discoteca, hanno sparato proiettili di gomma su alcune prostitute. A Roma è già successo tante volte che, per noia o per fastidio, ci si accanisca su chi è indifeso dal disprezzo e dalla stupidità altrui. Per questo esprimiamo la nostra solidarietà a Rachid, e speriamo si riprenda presto dalle ferite e dallo spavento. E vogliamo invitarvi tutti, giovedì prossimo, 12 dicembre, a un incontro del corso “Parole degli uomini, Parola di Dio” in cui rifletteremo insieme sul senso della festa ed ascolteremo la testimonianza di un a persona senza dimora.
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