Pubblichiamo anche sul nostro blog il bell’articolo di Domenico Quirico uscito sul La Stampa di oggi a proposito di quello che sta avvenendo a Tor Sapienza. Vivevano al centro di viale Morandi da due mesi. Non dover più fuggire per due mesi è già un sogno inverosimile. Sono davanti a me, si stringono in gruppo, la prima volta che escono dal centro dopo… dopo l’assedio e l’assalto e le urla «vi vogliamo bruciare». Mancano i più giovani. Li hanno portati in altri luoghi; loro, gli anziani, ma il più vecchio ha forse venticinque anni, sono rimasti. Una trentina. La furia profonda di chi non li vuole più vedere non sembra scemare, anzi contagia altre periferie di questa Roma impiastricciata di cortei rabbiosi e appelli sconsiderati. La civiltà è uno strato sottile, basta la pioggia per cancellarla. La polizia li ha scortati, («la gente ci insultava e noi zitti nel bus, gli occhi bassi…»), la messa per quelli che sono cristiani, il pranzo in un centro di accoglienza. Mi spiegano i volontari di Sant’Egidio, missionari nelle periferie di una tolleranza che sembra anch’essa straniera in tempi di traboccamenti di fiele e vendette: nel pomeriggio torneranno, laggiù. Hanno tutti alle spalle la via lunga e pericolosa, la via dolorosa di chi ha dovuto fuggire, la strada del dolore che passa nel deserto e arriva in Libia dove si biforca verso Lampedusa, Catania, Pozzallo. Gente come questa che fugge deve continuare a vivere fidando in caso fortuiti che quanto più sono inverosimili tanto più sembrano normali. Queste sono le fiabe moderne: non molto allegre, che solo raramente terminano meglio di quanto ci si aspetti. Qui in viale Morandi c’erano ragazzini e fuggiaschi che hanno diritto alla compassione di tutto il mondo, quella grande. Non quella piccola, che li compiange ma li trova molesti e indesiderati. Qualcuno che inveisce contro di loro o peggio ha ascoltato le loro storie, sa chi sono? Due arrivano dal Gambia, la vita si muove alta sui loro volti, completa e dolce e penosa, e poi eritrei, maliani, afghani, siriani, la geografia del mondo del dolore, dei fanatismi, della sofferenza. Folate di vento sollevano vortici di polvere e pezzetti di carta. «Sono stanco, stanco… Non capisco: ci sono problemi politici in Italia, ma che problema politico sono io, e i miei compagni… Non avete lavoro? È terribile, ma che colpa ne ho io? Vorrei andare nella mia stanza e non svegliarmi». Parliamo con fatica, a strappi, il solito intervallo di imbarazzo fra fuggiaschi. Non si sa fino a che punto sia lecito far domande. Lui è oromo, etiope («ma in nel mio Paese comandano gli amhara…»). In Libia è stato un anno prigioniero in un campo, ha rischiato la morte, prima che la rete di assistenza del suo popolo gli procurasse i soldi per traversare il mare: «Dove abbiamo sbagliato per trovare tanto odio? Non abbiamo mai fatto casino, noi del centro, aiutavo le vecchiette nel negozio, lasciavo il posto ai signori anziani nel bus, andavamo a...
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Oggi, domenica 9 novembre, ore 20:30 alla basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, si terrà una veglia di preghiera per commemorare la caduta del muro di Berlino.
Quest'anno gli studenti delle superiori parteciperanno alla più grande mobilitazione locale e globale contro la pena di morte. Per partecipare ...
Pubblichiamo una poesia di Antuane E. Davila Mazzetti, giovane per la pace, che esprime in versi essenziali la memoria del 16 ottobre 1943, giorno in cui furono deportati gli ebrei romani nei campi di sterminio nazisti. La poesia nasce dall'incontro dei Giovani per la Pace con Enzo Camerino, sopravvissuto alla deportazione e custode di una fondamentale testimonianza.
Riceviamo e pubblichiamo l’articolo di Agnese Crivaro, 14 anni, di Roma, sul toccante incontro con Enzo Camerino, sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani avvenuta il 16 Ottobre 1943 Il 16 ottobre del 1943 è avvenuto un fatto che può apparire estraneo alla nostra vita di tutti i giorni. In quel giorno, che pareva essere come tutti gli altri, vennero presi con la forza circa 1200 ebrei che successivamente dovettero combattere la mostruosa agonia dei campi di concentramento. La maggior parte di loro non ce l’ha fatta; altri sopravvissuti oggi non ci sono più, altri ancora sono vivi e hanno avuto il coraggio di testimoniare, come Enzo Camerino. Sabato 18 ottobre noi Giovani per la Pace abbiamo avuto la grande fortuna di poter conoscere questo grande uomo che ha avuto la forza di aprire la bocca e sfruttare le parole per fare del bene, per far sì che il passato non si ripeta. Enzo ci ha raccontato la sua storia, ci ha mostrato il numero sul braccio che sostituì il suo nome durante quel tormento, ma soprattutto, ci ha fatto aprire gli occhi. Ci ha mostrato quanto la semplice quotidianità possa fare la differenza e anche quanto questa siamo fortunati. Enzo viveva a Monza insieme alla sua famiglia formata da sua madre, suo padre e sua sorella. Successivamente si è trasferito a Roma poiché il padre non aveva più lavoro così cominciò a vendere dolciumi, tant’è che quando giocavano a carte si giocavano la cioccolata! Prima della deportazione, i nazisti pretesero 50kg d’oro dalla comunità ebraica che fu costretta a raccoglierlo entro 36 ore. “Oggi si prendono i soldi, domani le persone”, furono queste le parole sincere e franche del cognato di Enzo. Quel 16 ottobre i tedeschi fecero irruzione nella loro casa verso le cinque di mattina ed Enzo e la famiglia furono costretti a seguirli. Dissero loro di prendere denaro, gioielli e vestiti perché avrebbero dovuto fare un viaggio di otto giorni. Tutti dovevano andare: dai neonati ai malati. “Tanto c’è l’infermeria” dicevano le SS agli anziani. Un camion arrivò e li portò al collegio militare dove rimasero per due giorni, dormirono per terra all’aperto, sotto il porticato. Consegnarono i documenti, i gioielli e il denaro e vennero portati nei vagoni “bestiame” del treno che li avrebbe condotti ad un tragico destino. Molte di quelle 1200 persone morirono durante il viaggio poiché non era previsto nessun pasto, erano ammassati, faceva caldo e le condizioni igieniche erano terribili. Una volta arrivati al campo di concentramento di Auschwitz li divisero in uomini, donne, anziani e bambini. Li spogliarono nudi e assegnarono loro i tipici vestiti “da lavoro”, tatuarono loro il numero sul braccio, numero che noi Giovani per la Pace abbiamo visto impresso sul braccio di Enzo, numero che sostituiva il loro stesso nome. Lì non dovevano più avere un’identità. Chiesero a tutti cosa sapessero fare. “Il barbiere”, rispose Enzo, che aveva solo 14 anni. I giorni passavano e loro lavoravano molto, portavano sulle spalle chili e chili di cemento...
La Musica, si sa, a noi Giovani per la Pace piace molto. Ma quando questa serve a fare del bene ci piace due volte e anche di più. Per questo abbiamo il piacere di parlarvi di un’iniziativa che avrà luogo nei prossimi giorni a Roma. “The future is knocking!” (il futuro sta bussando), è vero, ma non solo, perché questo è il titolo del concerto sinfonico che si terrà domenica 19 ottobre alle 18:30 presso l’Auditorium della Conciliazione. Ad esibirsi sarà la Young Talents Orchestra EY, un’orchestra nota molti non solo per il suo talento ma anche per il suo sostegno a diversi progetti di inclusione sociale. Grazie al concerto sarà possibile sostenere le attività di “Sounds for Peace – Musica per la pace” l’iniziativa dei Giovani per la Pace che attraverso laboratori musicali crea spazi aggregativi per tanti nostri coetanei in difficoltà con uno strumento che ci accomuna e ci appassiona tutti: la musica. La musica coinvolge ed insegna a crescere e lavorare insieme. In tanti quartieri disagiati della Capitale, Sounds for Peace, è l’alternativa perché favorisce spazi di incontro che spesso mancano. Ma non solo questo perché per noi Musica vuol dire anche cultura che passa attraverso i diversi dibattiti e confronti legati alla nostra iniziativa. La Fondazione EY Italia Onlus con questo concerto ha dunque deciso di sostenere la “Musica per la Pace”, per favorire un’alternativa a tanti quando queste sembrano mancare. Quello di domenica 19 ottobre si preannuncia come un concerto dal programma vivace, sorprendente , energico e appassionato. Sotto la direzione di Carlo Rizzari e insieme al grande violinista Salvatore Accardo, la giovane e talentuosa orchestra e il celebre violinista affronteranno il concerto per violino e orchestra di Mozart detto Alla Turca, con il suo ultimo e sorprendente movimento di Rondò. Prima però del concerto l’evento sarà aperto dall’altrettanto talentuoso e noto Alessandro Taverna che con il suo pianoforte si esibirà davanti ai presenti con l’esecuzione della Tarantella di bravura S.386 di Litz. Al pianista però non sarà riservata solo l’apertura perché la seconda parte del concerto sarà introdotta dallo stesso con il celebre incipit di quattro note della Quinta Sinfonia di Bethooven. “The future is knocking”, se aprirete la porta sentirete la Musica per la Pace! Dunque, qualora siate interessati, per l’acquisto dei biglietti collegatevi sul sito www.Ticketone.it e vi ricordiamo nuvamente che l’appuntamento è per domenica 19 ottobre alle ore 18:30 presso l’Auditorium Conciliazione (Via della Conciliazione, 4). Una serata all’insegna della buona musica e della beneficienza, i motivi giusti per esserci! Buon Ascolto!
L’ISIS “deve essere distrutto”, non ci sono alternative. “Non è una guerra all’Islam” ma “non si può negoziare con il male”: Barack Obama lo ha scandito ieri dalla tribuna del Palazzo di Vetro dell’ONU. Ma negli stessi momenti in cui il Presidente U.S.A. parlava, i jihadisti rilanciavano la sfida postando in rete un nuovo, atroce video per mostrare al mondo un’altra decapitazione, quella dell’ostaggio francese Hervè Gourdel, rapito domenica scorsa in Algeria. Durante le stesse ore però, grazie alla popolare trasmissione ‘Le Iene’, gli italiani hanno osservato nelle loro case uno spettacolo raccapricciante, che i nostri parlamentari (da destra a sinistra, senza distinzioni di sorta) hanno interpretato mostrando una plateale ignoranza sull’argomento, appena dopo il voto camerale che ha approvato l’invio di armi ai Peshmerga. Ma di cosa stiamo parlando? L’ISIS -Islamic State Iraq Siria (o anche semplicemente IS- Islamic State)- il gruppo estremista che segue l‘ideologia di Al-Qaida, è nato anni fa, emerso come diversi altri dall’ideologia dei Fratelli Musulmani nel 1928, e dopo aver cambiato diverse sigle soprattutto negli ultimi anni, dal 29 Giugno 2014 ha annunciato la fondazione di un nuovo ‘califfato’ retto a tutt’oggi da Abu Bakr al-Baghdadi, noto ai più informati per aver giurato fedeltà ad Osama bin Laden nell’Ottobre 2004. A dispetto di quanto sanno i nostri parlamentari, è stata subito emessa dalle autorità religiose islamiche una Fatwa, ovverosia un editto che condanna le decapitazioni e gli atti terroristici messi in atto dall’ISIS e dai suoi affiliati, sostenendo che “tutto ciò non è neanche lontanamente riconoscibile nei princìpi dell’Islam”. I Peshmerga, ossia i combattenti curdi che stanno contrastando l’avanzata dell’ISIS, sembrano essere al momento l’unica valida alternativa armata e i governi europei (non ultimo quello italiano) hanno approvato l’invio di armi a quest’ultimi per sostenerne la resistenza contro i gruppi terroristici. Ma l’ISIS costituisce una minaccia più forte rispetto a tante altre anche a causa del cyber-fronte su cui si sta combattendo questa “nuova” guerra e attraverso cui sta avvenendo il reclutamento di enormi quantità di giovani in tutto il mondo. Sorge spontanea una domanda: Anonymous, Syrian Electronic Army, The Jester, ma anche hacker iraniani e turchi RedHack come si sono schierati e cosa stanno facendo? L‘ultimo a scendere in campo contro l’ISIS sarebbe proprio Anonymous, con il lancio di due campagne, la più attiva delle quali va sotto il nome di #opIceIsis e che ruota attorno all’account @TheAnonMessage. In questi giorni, inoltre, è stata rilasciata un’intervista a France24 dove si spiegano le motivazioni di tale campagna, ossia “riportare l’attenzione su quanto sta accadendo in Iraq, sottolineare comunque la responsabilità degli USA nella nascita dell’ISIS; ribadire che lo Stato Islamico non rappresenta la religione islamica; esprimere vicinanza alle vittime”. Non ci è dato sapere quanto si protrarrà questo nuovo conflitto che vede da un lato dichiarazioni altisonanti e dall’altro decapitazioni in mondo-visione. Se ci saranno novità vi terremo aggiornati. Per certo sappiamo solo che, finché non si elimineranno le radici da cui nasce il terrorismo, non potrà risolversi in maniera efficace tale minaccia;...
Jama’tu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad, it’s the official name of Boko Haram, meaning “people who are committed to the teachings of prophet and Jihads”in Arabic. They propagate a motto through the Islamic words “Boko”, which means Westhern, and “Haram”, which means forbidden. Simply “boko haram” together mean “Western Development is forbidden” by Islamic teachings. Therefor as the name implies, they believe that western development has corrupted the moral values of muslims, especially girls, which led to several attacks in girls’ boarding-schools. Like for example the attack at Chibok in April where over two hundred girls were abducted by the same Islamic sect which at the same time is threatening to enslave all of them permanently by marrying them. At this juncture the Nigeria government terrified and with no choice, has sought the international assistance to fight the war against terrorism in the country. After which about 80 U.S. soldiers were deployed in Nigeria to help into whereabouts of the missing girls and as well reinforce the country’s security system. Despite of the effort been made by the Government to restore normality in the country diverse attacks still persist, proving that Boko Haram does not only have a fighting force of thousand of men, but also, of bombing, paradoxically. Moreover,majority of the fighters are made up of Kanuri’s ethnic group and to follow Chadians,Somalians and Sudanese rebels whose bases are in the Sambisa forest along the border between Nigeria and Cameroon. Will be there ever peace in Nigeria? Will never change Nigeria without violence? Yes there will, if the Government will understand that protection of lives and property are the first priority of any existing Government; if the government will learn to put the interest of its citizens far above every other thing; reducing poverty rate by facilitating an educational program that enhances the participation of both richs and poors, urbans and rurals citizens of the country. Without those, life will always be threaten in the country. By Jonathan Chijioke Many thanks to Gulia Giunta for the cooperation Jama’tu Ahlis Sunna wal-Jihad Lidda’awati, è il nome ufficiale di Boko Haram, che significa “le persone che si impegnano per gli insegnamenti del Profeta e della Jihad” in arabo. Propagano un motto attraverso le parole islamiche “Boko”, che significa Occidentale, e “Haram”, che significa proibito. Semplicemente “Boko Haram”, insieme, significa “lo sviluppo occidentale è proibito” dagli insegnamenti islamici. Quindi, come suggerisce il nome, gli esponenti di questo gruppo credono che lo sviluppo occidentale abbia corrotto i valori morali dei musulmani, in particolare delle ragazze e ciò ha portato a diversi attacchi nei collegi femminili. Come per esempio l’attacco a Chibok nel mese di aprile, dove oltre duecento ragazze sono state rapite dalla stessa setta islamica che allo stesso tempo minaccia di ridurle tutte in schiavitù permanentemente sposandole. Per questo il governo della Nigeria, terrorizzato e senza scelta, ha cercato gli aiuti internazionali sono stati dispiegati in Nigeria per aiutare nella località delle ragazze scomparse e rafforzare il sistema di sicurezza del Paese....
Si è conclusa a Catania giorno 11 agosto la “Tre giorni senza frontiere”: la prima tre giorni di giochi, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio e dai Giovani per la Pace. Il nome della manifestazione racchiude in sé il significato profondo che i Giovani per la Pace hanno voluto dare: senza frontiere; frontiere che spesso sbarrano il passaggio ai sentimenti migliori, come l’amicizia, la simpatia tra persone e popoli diversi, la solidarietà, la voglia di stare insieme e fare del bene divertendosi. Le frontiere sono anche quelle che si pongono innanzi ai tanti poveri delle nostre città rendendole inumane, quelle che rendono difficile ai migranti arrivare nella terra promessa. Le frontiere per cui si muore di speranza. Così i Giovani della Comunità di Catania e tanti altri giovani provenienti da diverse città della Sicilia insieme agli oltre ad oltre 50 Giovani per la Pace che risiedono nel C.A.R.A. di Mineo come “special guests”, divisi in squadre hanno voluto dedicare a Catania uno spazio libero dove stare insieme, vivere la fraternità, creare una reale integrazione ed affrontare tutti insieme, come una sola grande squadra, i temi che stanno cambiando la Sicilia e i luoghi dove i Giovani per la Pace sono attivi, fra tutti l’accoglienza. Infatti dopo aver gareggiato per due intere giornate, passate, la prima al mare tra giochi con l’acqua ed il torneo di beach-volley, e la seconda, per tutta la città con una difficilissima “caccia al tesoro”, tutta la comunità di Sant’Egidio si è fermata il terzo giorno per commemorare le vittime del tragico sbarco di un anno fa, che ha visto morire sei migranti africani vicino al litorale catanese. Grazie ad una petizione dei Giovani per la Pace ed alla pronta sensibilità dell’amministrazione comunale, è stata infatti posta una targa commemorativa sopra una stele di pietra lavica che ricorda le vittime del mare e tutti coloro che hanno perso la vita nei viaggi della speranza. Una piccola pietra nella città che comunica qualcosa di grande: i giovani siciliani hanno scelto l’accoglienza. Nel dubbio tra respingere o abbracciare, hanno scelto l’abbraccio: infatti il 10 agosto 2013 i Giovani per la Pace e la Comunità tutta abbandonarono loro vacanze per andare a soccorrere chi era rimasto vivo e piangere le sei persone, i cui nomi, grazie questa targa, resteranno incisi per sempre nel cuore della città. Da quel dolore i giovani di Catania hanno reagito guardando l’orizzonte verso il mare e sapendo che ci sono fratelli da accogliere, da salvare e da integrare e non problematiche sociali da evitare. Uomini donne e bambini a cui volere gratuitamente bene. Tre giorni senza frontiere ha trovato il suo culmine durante la liturgia nella chiesa di Santa Chiara a Catania che ospita la vita della Comunità, dove erano presenti tantissimi poveri della città serviti durante l’anno. Poveri e ricchi, europei e nuovi europei, giovani e anziani hanno pregato insieme come una sola famiglia. La festa finale è stato un tripudio di gioia, di felicità piena, di sorrisi complici e di fraternità vera, tra persone che hanno voluto coniugare l’utile, interessante al divertente, per dimostrare come sia possibile costruire una società migliore. Sta nascendo in Sicilia una...
Anche quest’anno i “Jovens pela Paz” di Matola hanno organizzato un pranzo con gli anziani ospiti di un Istituto, gestito dall’Acçao Social, collocato accanto all’Ospedale Josè Macamo di Maputo. E’ stato possibile realizzare una giornata di grande festa tra giovani e anziani grazie al ricavato di una raccolta della Comunità degli anziani di Livorno. I Giovani per la Pace di Matola vanno regolarmente a visitare gli anziani dell’Istituto in un’amicizia che dura oramai da alcuni anni. Con il tempo gli anziani hanno iniziato a raccontare la storia della loro vita. In questo periodo di tensione in Mozambico i racconti si sono concentrati sul periodo della guerra che tutti ricordano come il più duro per loro. Alcuni l’hanno combattuta direttamente come Jao Rafael, sergente della Renamo, che racconta il momento di gioia all’annuncio della pace firmata a Roma. Ricorda che la guerra è stata lunga e che “c’è voluto molto tempo per arrivare alla firma degli accordi” e ringrazia la Comunità per il lavoro a favore della pace. Carlotta da giovane viveva a Tevela, nella provincia di Inhambane, dove lavorava nei campi e ricorda ancora i momenti in cui i soldati di entrambi le parti arrivavano in paese per prendere tutto quello che c’era da mangiare e i contadini erano costretti a consegnare il ricavato del loro lavoro. Lei aveva due figli piccoli e, dopo il passaggio dei soldati, non sapeva cosa dare loro da mangiare. Gli anziani sono stati felici per il pranzo e per la festa. Laura, un’anziana confusa che non ricorda quanti anni ha, ha ringraziato Edmilson dicendo “sono contenta che ci sono giovani che vengono a trovare noi anziani e sono felice per la vostra visita perché è il segno dell’amicizia tra di noi”. Durante la giornata si è svolta anche la visita della direttrice dell’Ação Social della Provincia di Maputo che ha ringraziato la Comunità per la vicinanza agli anziani dell’Istituto e ha invitato i giovani a tornare tutte le volte che lo desiderano.
E anche questa è andata. Ieri sera come tanti, forse come tutti i ragazzi italiani, ho trascorso il Ferragosto in spiaggia tra falò, tende, stuoie e risate; il mare placido è stato il palcoscenico scuro del bagno di mezzanotte e l’Etna sullo sfondo eruttava gioia, lapilli e lava incandescente, che tracciava una linea all’orizzonte scendendo dai fianchi neri “dda muntagna” come si dice qui. L’alba ha ridipinto il cielo da blu a rosa, e una sole sempre troppo acceso ha riportato tutti alla realtà del giorno dopo, accaldati e assonnati, colorando tutto in azzurro. Ma ieri, guardando il mare muoversi al buio, le onde bagnare gli audaci avventori che hanno provato a dormire sulla riva… ecco, ieri ho pensato, per un attimo, a quanto successo l’anno scorso. Una telefonata pochi giorni prima di Ferragosto, ci ha portato al fianco di ragazzi come noi che hanno affrontato quel mare, tanto placido quanto assassino, per cercare una vita migliore. Per la speranza. Ho ripensato ai guanti gonfiati dai volontari a mo’ di palloncini per far ridere i bambini, ancora coperti di sale e affamati, accaldati e assonnati dopo tante nottate alla deriva. Ho ripensato alle madri, ai giovani miei coetanei e in cuor mio non ho trovato differenze tra noi. Ho ripensato alle magliette incollate addosso dal caldo, proprio come ieri in spiaggia, e mi sono reso conto di quanto vicine erano queste immagini nei miei ricordi. Il 10 Agosto di quest’anno a Catania è stata posta una targa commemorativa per l’occasione. Un anno dopo si è deciso che non solo era giusto ricordare quei ragazzi, giovani come noi e alcuni anche più piccoli, morti per un sogno di pace e con la speranza nel cuore, ma era anche giusto farlo nel segno di una città che non sceglie la via più facile, la via di chi si gira dall’altra parte e ignora un grido di aiuto. Durante quest’anno, con i giovani e grazie ad essi, si è saputa creare un’alternativa d’integrazione che non reggesse su parole e discorsi sterili, ma su azioni semplici e piene di significato. Non sono apparse banali le parole del portavoce di Sant’Egidio in Sicilia, Emiliano Abramo, che ha commentato così la posa della targa: “Catania è una città che non dimentica -e non vuole dimenticare!- la storia di chi, cercando una speranza di vita migliore, ha trovato la morte. Non sono storie annegate nel mare, bensì storie che sono state consegnate a noi e alla nostra umanità. Viviamo in un tempo in cui sembra difficile accogliere, ma le difficoltà che incontriamo, ciò non hanno portato la gente da un’altra parte, e anzi, hanno messo ancor più in evidenza quel tratto umano di accoglienza.“. E non abbiamo intenzione di dimenticare quelli che per noi sono come fratelli. Un anno dopo, siamo ancora qui, con l’idea che l’accoglienza e l’incontro tra culture sia l’unica strada per mantenere viva un’umanità che va spegnendo sé stessa in inutili diatribe. “Essere giovani vuol dire tenere aperto l’oblò della speranza, anche...
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