Da più trent’anni, il 31 Gennaio, la Comunità di Sant’Egidio ricorda le vittime della vita in strada a partire dalla morte di Modesta Valenti, una donna senza fissa dimora, di 71 anni, che viveva nei pressi della Stazione Termini, dove si rifugiava la notte per dormire. Proprio oggi pubblichiamo l’intervista a Lucia LUCCHINI, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per il servizio ai senza fissa dimora di Roma.
Categoria: Attualità
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Una nostra lettrice, dopo aver letto il post di Simone dei Pieri, ha voluto inviarci questi suoi pensieri. Li pubblichiamo volentieri. Il Razzismo continua ad essere un grande problema anche ai nostri giorni; un problema purtroppo diffuso anche tra i giovani. Ma perché esiste il razzismo? Forse in molti ci siamo posti questa domanda a cui non è semplice rispondere. Sono certa che riflettendo in maniera lucida e serena, anche quelli con più pregiudizi, non troverebbero nessun motivo razionale che lo giustifichi. Il vero problema è la mancanza di accettazione verso le diversità, che siano il sesso, il colore o ”la razza”. La mia ipotesi è che spesso le diversità ci spaventano e la paura ci paralizza il cuore. Perché fondamentalmente siamo deboli e non sappiamo confrontarci con gli altri. Io da poco tempo ho iniziato a frequentare i Giovani per la Pace; sono molto contenta di questo perché ho trovato un luogo dove ci sono ragazzi che, come me, non vogliono far vincere la paura. Allora v’invito a non aver timore e non ascoltare più le leggende metropolitane che girano su chi sembra essere diverso da noi. Piuttosto riflettiamo e informiamoci sulle diverse realtà, confrontiamoci con il prossimo e cogliamo tutte le occasioni per accrescere la nostra cultura e per iniziare a ragionare con la nostra testa senza essere conformisti. Vedremo la realtà con altri occhi e impareremo a metterci nei panni degli altri. Ad esempio scopriremo che quelle bancarelle di uomini provenienti da altri paesi, che vendono bracciali, anelli, cinte, cappelli, borse, ecc… (E tutto a prezzi bassissimi!), non sono il vero problema della nostra città! Ho conosciuto un uomo che proviene dal Bangladesh e vende cover per cellulari che in base alle decorazioni costano dai 3 ai 7 euro. Lui sta tutti i giorni dalla mattina alla sera – tranne la domenica – con la sua bancarella su un marciapiede di periferia a cercar di vendere i suoi prodotti, per tornar a casa dalla sua famiglia potendo portare qualcosa da mangiare. Se poi nella vostra nazione scoppiasse una guerra e doveste migrare in un paese dove vi discriminano e non vi accettano cosa fareste? Come vi sentireste? Io in questa situazione mi sentirei perduta e triste perché non saprei su cosa o su chi fare affidamento. Sento l’urgenza di iniziare a fare alcuni passi. Ad, esempio cambiare il modo di parlare. Perché le parole sono importanti. Spesso si sente parlare del fenomeno migratorio come la “TRAGICA ESPERIENZA DELL’EMIGRAZIONE”. Credo sia necessario fare un piccolo sforzo mentale per capire quando associare più l’aggettivo ”TRAGICA” all’esperienza di essere immigrati; dove è scritto che andare in un altro paese per salvarsi la vita, trovare un futuro migliore e da mangiare per sé e per i propri figli debba essere “TRAGICO”? La tragedia sta nella non-accoglienza, nella non-accettazione, nel pregiudizio e nella discriminazione. Sono tragiche le guerre e la povertà da cui si fugge. Non è tragica l’immigrazione di per sé. Nel senso che forse la tragedia è per chi...
“Ma che cosa posso fare io?”, “Faccia il ladro, è molto più onesto!” Visita a Fossoli per la Giornata della Memoria
RedazioneI Giovani per la Pace di Parma hanno deciso di visitare il Campo di Prigionia di Fossoli, in provincia di Modena, luogo di transito, nel 1944, di circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei, verso i campi di sterminio nazisti. Hanno preparato un reportage che volentieri pubblichiamo. E’ il campo in cui sono transitati Primo Levi e Nedo Fiano due scrittori le cui pagine ci hanno riportato indietro in quegli anni, in cui tante storie di uomini e di donne venivano segnate tragicamente dalla deportazione e dalla morte. Il freddo intenso di oggi ci ha fatto capire come deve essere stato duro dormire in quelle baracche, dotate sì di una stufa, ma senza legna, perché cominciava a scarseggiare. Poco cibo, freddo, umidità; soprattutto lo spettro della partenza nei convogli ferroviari verso la Germania con pochissime speranze di tornare indietro: era questa la vita degli uomini e delle donne passati da Fossoli. E’ stato particolarmente toccante leggere, durante la visita, la descrizione dell’ultima notte di Primo Levi a Fossoli: «Il 21 febbraio 1944 gli ebrei di Fossoli sanno: domani saranno tutti deportati. Dove non è chiaro, però il consiglio che ricevono è di prepararsi a quindici giorni di viaggio. Non c’è niente da fare, né da discutere: per ognuno che fosse mancato all’appello ne sarebbero stati fucilati dieci, gli ordini sono ordini. Nelle baracche, quella notte trascorre in un collettivo, allucinante, addio alla vita. Chi invoca il Kadòsh Baruch hu, il Signore Benedetto Egli sia, chi si ubriaca e si abbrutisce, chi si lascia andare preda della disperazione, chi cerca nell’oblio della passione l’ultimo conforto. Le madri vegliano fino all’alba, frenetiche e premurose, mettendo insieme il necessario per la partenza: preparano le valigie, lavano accuratamente i bambini, fanno il bucato, cucinano focacce, raccolgono fasce, giocattoli, cuscini. Stanno perdendo se stessi, stanno abbandonando l’esistenza terrena; qualcuno si dedica al lutto secondo la tradizione ebraica. Scalzi, le donne con i capelli sciolti, le candele dei morti accese e sparse per terra un poco ovunque, pregano e piangono. Il campo si riempie di fantasmi folli. La mattina del 22, dopo un interminabile elenco, nome per nome, quando la lista della morte è stata controllata nei dettagli e i circa seicento «pezzi» sono tutti presenti e regolarmente registrati, Primo Levi e gli altri vengono spinti dai fascisti su alcuni camion delle SS che li devono trasportare da Fossoli alla stazione ferroviaria di Carpi. I tedeschi fanno da scorta, bastonanno col calcio del fucile quelli che si attardano, che camminano lenti, che si fermano ad aspettare un parente o un amico. Lo shock delle percosse è immenso. Allora è proprio vero, è come ai tempi dei pogrom zaristi, delle persecuzioni papaline, dei roghi dell’Inquisizione. La memoria corre alle umiliazioni millenarie subìte dal Popolo di Dio. Il prigioniero Levi guarda uno dei gendarmi, un emiliano dai lineamenti regolari, e gli dice: “Si ricordi di quello che sta vedendo, si ricordi che lei ne è complice, e si comporti di conseguenza”. L’uomo, con l’espressione del viso impietrita dal terrore, lo accompagna a prendere un po’ d’acqua, preziosa, alla fontanella che sta all’inizio dei binari. “Ma che cosa posso fare io?” chiede con voce...
In occasione della giornata della memoria riceviamo questa poesia di Paolo della Latta che volentieri pubblichiamo:
Piazza Maidan. Questa piazza forse sconosciuta a molti, oggi è il “campo” (questo termine ci servirà successivamente) in cui l’Ucraina gioca la sua sfida per un futuro stabile, un futuro di pace. Sì, pace. Una questione che a noi europei dell’Unione suona forse un po’ strana se non addirittura carica di un certo sentimentalismo forviante e approssimativo ma che, parlando con chi vive in Ucraina, assume tutta la sua pregnante attualità. I fatti che avvengono in Ucraina possono apparire lontani, una questione meramente interna, tuttavia – ed è opinione di chi scrive – gli scontri della “Piazza dell’Indipendenza” sono qualcosa che ci riguarda da vicino. Sono le otto di sera, dalla nostra sede una video-chiamata mette in contatto un giovane studente e una giovane laureata in giornalismo di una città a cinquecento chilometri da Kiev. “Con il blog vogliamo diffondere una cultura nuova, la violenza in Ucraina ci stupisce…”: così ha inizio una conversazione che porterà a comprendere che la “voglia di violenza si sente nell’aria” in Ucraina. Procediamo con ordine. Tutto ha inizio con “L’accordo di associazione Ucraina e Unione Europea“. Un accordo, nato da un negoziato intrapreso nel 2008, che avrebbe dovuto portare a tre obbiettivi riassumibili in: vantaggi di natura economica con l’integrazione dell’economia ucraina nel mercato unico libero europeo; un “allineamento” agli standard europei in materia di libertà e diritti (alla luce soprattutto del caso Tymosenko e delle leggi liberticide emanate dal Governo di Kiev); ed infine, nell’ottica delle politiche europee di vicinato (PEV) con gli stati europei orientali, la creazione di un esempio importante di “integrazione” tra Ue e paesi terzi. Un accordo che avrebbe aperto una prospettiva europea per Kiev. Una prospettiva. Non la certezza di entrare in tempi brevi in Europa ma quantomeno l’avvicinarsi a questa possibilità: una “long walk to Europe” che per gli ucraini è diventata una battaglia, “una scelta tra bianco e nero”. Sì, una “previsione” di lungo percorso che è diventata uno slogan che non tiene conto di metafore, perifrasi e altre figure retoriche necessarie al fine di costruire un discorso. Uno slogan in fondo si presenta così, con la sua forza mistificante che, unita al malcontento, sfocia nell’impazienza e nella violenza come antidoto all’impossibilità di raggiungere un risultato immediatamente tangibile. A Kiev e nell’Ucraina occidentale – libera dall’influenza russa, a differenza di quella orientale – la mancata sigla dell’accordo, tanto promessa dalla classe politica quanto attesa dalle persone, ha tradito le aspettative su un cammino che avrebbe portato in Europa nei dieci anni successivi. La data in cui la speranza degli ucraini viene tradita definitivamente è quella del 29 novembre 2013, a Vilnius, in Lituania. La sede è quella del Summit del Partenariato Orientale Europeo, dove il presidente Viktor Yanukovych non firma il documento di associazione, senza destare sorpresa tra osservatori e cittadini ucraini. Gli interessi di Mosca su uno snodo geopolitico di grande importanza, quale è l’Ucraina, avevano già da tempo segnato l’esito negativo della vicenda. Continuano così le manifestazioni che se prima del 29 novembre,...
Con la sua testimonianza, il Prof. Zuccari ci insegna come l'ignoranza -che spesso può sfociare in razzismo- possa essere evitata. AMICIZIA e CULTURA sono gli ingredienti di un mondo migliore! "Noi possiamo cambiare il mondo, perché tutto può cambiare!"
L’intervista è stata rilasciata a seguito dell’intervento del professore all’incontro “Per un mondo senza ingiustizia“, tenutosi a Roma lo scorso 11 gennaio. Prof. Alessandro Zuccari, professore ordinario di storia dell’arte presso l’università la Sapienza, uno dei primi membri della Comunità di Sant’Egidio. Domanda: L’incontro di oggi è intitolato “Per un mondo senza ingiustizie”. In che modo possiamo ribellarci a questo “mondo disumano”? Risposta: Il mondo è ingiusto? Allora ribelliamoci davvero! Ma la ribellione non è solo far esplodere le contraddizioni. La ribellione è andare contro corrente rispetto a un mondo conformista che accetta la realtà passivamente o fa solo denunce formali, esteriori. La vera denuncia consiste nel rispondere ai problemi concreti, ad esempio nel da mangiare a chi non ha da mangiare e poi nell’insegnargli ad aiutare gli altri che non hanno da mangiare. Molti di noi hanno aiutato ai pranzi di Natale per i poveri: non è stato solo l’episodio positivo di un anno in un momento di festa, ma il frutto di una ribellione quotidiana contro l’ingiustizia della città. È una ribellione pacifica perché davvero il frutto dell’antica ribellione di Dio contro l’ingiustizia. Dio non è ingiusto, ma accetta di nascere e farsi bambino a Betlemme. “Dio nessuno l’ha mai visto” si legge nel Vangelo di Giovanni, bisogna scoprirlo. Dio va scoperto in una stalla, dove condivide la paglia delle bestie per ribellarsi all’ingiustizia di un mondo conformista che invece chiude le porte e dice “io non posso farci niente”. D: cosa possiamo fare concretamente? R: Dobbiamo imparare a sentirci cittadini, facciamo noi qualcosa perché le cose cambino. Ad esempio dobbiamo cambiare la cultura delle nostre città, dobbiamo impegnarci a “fare” e nello stesso tempo a “fare cultura”. Possiamo iniziare dagli amici per strada, dagli anziani, dalle scuole per la pace, dagli immigrati, dalle persone malate, dobbiamo far questo al meglio, anche se solo questo non basta. I bambini devono crescere in una città non inquinata. Noi dobbiamo lavorare per un’ecologia della cultura, per un’ecologia della sensibilità umana, per un’ecologia dell’umanesimo. D: Cosa intende per ecologia dell’umanesimo? R: il mondo va cambiato e ciascuno può contribuire a cambiarlo. L’inquinamento causato dall’indifferenza, dalla violenza, dalla contrapposizione e dal culto del denaro, merita l’impegno di tutti noi. Ognuno di noi può essere protagonista una nuova cultura dell’umanesimo per ridare quel respiro necessario non solo alla nostra città e al nostro Paese, ma a tutti i Paesi con cui siamo collegati! Uno dei motivi per cui la nostra città è inquinata e che è fatta di uomini e donne rassegnate che dicono “io non ci posso fare niente”. Certo, da soli non si può fare molto! Mi ha sempre colpito il fatto che i pastori non andarono ad uno ad uno dal Bambino di Betlemme –lo leggiamo nel Vangelo di Luca- ma andarono insieme. Erano una comunità, o comunque lo diventarono nel momento in cui cominciarono ad occuparsi dei poveri andando fino a Betlemme, a vedere quel “segno che il Signore ci ha fatto conoscere”. I pastori...
La nostra risposta all'editoriale: "Troppe ipocrisie sugli immigrati" di Angelo Panebianco. Corriere della Sera. 13 Gennaio 2014
La morte di un senzatetto non fa notizia. Non urge nemmeno trovare una soluzione, o già porsi il problema dei tanti senza dimora costretti dalle condizioni economiche a vivere ai margini della società. È inumano passare oltre rispetto a queste notizie: solo nell’ondata di freddo del febbraio 2012, in Italia, hanno perso la vita 57 persone. Nel resto d’Europa se ne sono contate almeno altre 600. Da diverse settimane l’Italia è entrata nel clima invernale. E il calendario delle stragi sembra continuare il suo corso: i naufragi nel Mediterraneo in estate, i clochard privi di vita nelle strade d’inverno. Ci uniamo al dolore, espresso anche dal Papa, per la morte dei senza dimora. Per la morte dell’uomo trovato ieri nel parcheggio del Gianicolo. Riportiamo l’articolo apparso su Repubblica: Clochard morto vicino al Vaticano Il Papa: “Profondo dolore” la Repubblica, 11 dicembre 2013 L’uomo è stato trovato nel parcheggio del Gianicolo, vicino a Piazza San Pietro. Il Pontefice nel documento Evangelii gaudium aveva denunciato la scarsa attenzione per la morte di un senzatetto. “Profondamento addolorato“. Così si è detto Papa Francesco nell’apprendere che un clochard è stato trovato morto ieri nel parcheggio del Gianicolo, a ridosso di piazza San Pietro. Il Pontefice si è rammaricato per il silenzio sul fatto di cronaca. Proprio Bergoglio, infatti, nel suo recente documento “Evangelii gaudium” aveva denunciato come la morte di un senzatetto non faccia notizia. Uno scritto fortemente dalla parte dei poveri e degli ultimi, dove con parole semplici ma vibranti il Papa si indigna per fatti come questi. “Non è possibile – scrive – che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada mentre lo sia il ribasso di due punti di Borsa”. Da settimane ormai decine di senzatetto passano la notte intorno alla piazza come ha raccontato “Repubblica”. Lungo via della Conciliazione, quando scende la notte e calano le saracinesche su vespri e novene, ogni gradino diventa casa di uomini e donne diseredati, rifugiati, ammalati, anziani dimenticati. E proprio in quell’area vicino al Vaticano, il Pontefice di recente ha mandato il fidato elemosiniere, il polacco don Konrad Krajewski, perché sia il suo braccio della carità. Quella zona, popolata di notte dagli “ultimi” della città, dove anche lui, se potesse affidarsi solo all’istinto, andrebbe in prima persona per aiutare, confortare, soccorrere. La Comunità organizza ogni anno, in prossima del Natale, una raccolta speciale di generi di prima necessità, coperte e vestiti per i pranzi di Natale e per il sostegno delle persone senza fissa dimora.
“Cari ragazzi e care ragazze”. Ecco come Tamara Chikunova., fondatrice dell’associazione “Madri contro la pena di Morte e la Tortura”, apre l’incontro del 28 novembre nell’aula magna dell’Università Lateranense. Si rivolge a un pubblico di 1600 studenti, come una mamma, e in effetti è così che la chiamano i suoi amici condannati a morte. Una storia di rabbia, di violenza ma soprattutto di grande perdono, il perdono che ha dato a Tamara la grinta necessaria per cominciare la sua lotta contro la Pena di Morte. Perché perdere il sonno per un condannato a morte? La sua storia comincia il 17 aprile 1999, in Uzbekistan, con l’arresto del figlio Dimitrij, condannato a morte per un delitto che non aveva commesso. Troppi sono stati gli insulti e le violenze – fisiche e psicologiche – che Tamara ha dovuto subire per tentare di salvare Dimitrij. Quella del figlio è stata infatti una condanna avvenuta con uno sporco ricatto, con una confessione falsa da firmare davanti a se e la cornetta del telefono vicino l’orecchio, con cui poteva sentire le grida della mamma picchiata dai poliziotti. Così ha inizio il processo. Sin dall’inizio dell’udienza il giudice mette in chiaro che Dimitrij sarebbe stato condannato a morte. La sua sorte, ormai, era già stata decisa. Persino l’avvocato della difesa di Dimitrij firma dichiarazioni contro di lui. Tre giorni dopo, la notizia è resa pubblica: Dimitrij Chikunova Condannato a morte per omicidio. I momenti per parlare col figlio sono pochi, circa un incontro al mese. Il 10 luglio 2000 Tamara va a trovare Dimitrij in carcere, ma l’incontro non avviene: quella mattina, infatti, suo figlio è uscito di cella per la sua esecuzione. Da quel giorno ha inizio la guerra di Tamara contro la società disumana dell’Uzbekistan e del mondo intero. E’ così che è nata la sua associazione, insieme ad altre donne coraggiose e “piccole” come lei che hanno voglia di umanizzare il nostro mondo. Perché, si chiede Tamara, questa crudeltà contro suo figlio? Perché dio l’ha voluta punire? E poi l’incontro con la Comunità di Sant’Egidio e con don Marco. “ Devi perdonare tutti”, le dice. “Avevo un problema” confida Tamara. “Non dormivo. Per mesi era come se avessi una sete dentro di me. Era la sete di vendetta. La vendetta è una cosa tremenda, ti distrugge dall’interno: non ti fa dormire, non ti fa vivere”. E come darle torto? Dopotutto la pena di morte ricorda molto una vendetta. Forse è per questo che uno stato che utilizza la pena capitale non è in grado di mantenere un ordine tra i cittadini e presenta un enorme tasso di criminalità. E’ la vendetta che si respira nell’aria, che viene promossa dalla legge. Se lo stato per primo commette un omicidio, come fa a dare l’esempio al cittadino? “ Mi dissero di perdonare” rivela Tamara. “ E ho perdonato tutti. Ho perdonato coloro che hanno picchiato e ucciso mio figlio. Ho perdonato anche quegli amici che dopo la morte di Dimitrij mi avevano abbandonata. E...
In occasione dell’importante iniziativa “Città per la vita” della Comunità di Sant’Egidio molti giovani italiani hanno avuto la possibilità di incontrare persone eccezionali. Nei prossimi giorni racconteremo alcuni di questi incontri.Iniziamo con un post scritto dagli studenti del Liceo Labriola di Ostia sull’incontro con Shujaa Graham avvenuto il 3 dicembre nella sede della Comunità di Sant’Egidio di Ostia a cui hanno partecipato più di 300 studenti da diverse scuole del quartiere. Gli ultimi cinque anni benchè fuori dal carcere erano stati tormentati a parte qualche breve sprazzo di felicità. Dopo il braccio della morte aveva confessato diverse volte di desiderare di non essere mai nato e di aspettare con ansia il trapasso. Poco dopo il proscioglimento, la sorella Annette lo aveva visto davanti alla finestra della cucina come in trance. Ron le aveva preso la mano e le aveva detto :<< Prega con me, Annette. Prega il Signore che mi prenda adesso>>. (John Grisham, l’Innocente. Tratto dalla storia vera di Ron Williamson per anni detenuto nel “Death Raw”, rilasciato 5 giorni prima della condanna). Questo non è il caso di Shujaa Graham. Shujaa nasce a Lake Providence in Louisiana nel 1951. Da ragazzo si trasferisce a Los Angeles dove entra a far parte di una gang di criminali, per sentirsi forte, protetto, migliore, sicuro. Passa la sua adolescenza in riformatori e a 18 anni viene trasferito nel carcere di Soledad prison. Mr. Mohammed, un amico quarantacinquenne che conobbe dentro la prigione, gli insegnò la storia lo educò e proprio nel carcere cominciò a combattere per i diritti umani appoggiando le tesi di Malcom X e Martin Luter King. Venne accusato di aver ucciso una guardia carceraria. D’altronde accusare un afroamericano che lottava per i suoi diritti, era comodo a molti.Iniziarono i processi, la condanna; iniziarono gli anni nel Death raw (braccio della morte). Commosso, Shujaa ci racconta dei pestaggi ricevuti dalle guardie carcerarie, prima in un ascensore per 5 minuti poi in una stanza dove 12 guardie lo hanno picchiato per 30 minuti. Non pensava sarebbe sopravvissuto. Ma Shujaa voleva vivere con tutto se stesso, non ha mai pensato al suicidio; come si fa a non pensare di riottenere la libertà e di smettere di soffrire quando vieni torturato, picchiato, annullato, quando vivi per tre anni in una cella di più o meno due metri quadrati dove il massimo movimento consente l’apertura delle gambe? Dopo undici anni nel braccio della morte venne rilasciato. Shujaa è stato annullato di un’identità,privato di ogni diritto. Dopo la condanna a morte, Shujaa venne privato della vita. Poi arrivò quel Marzo 1981. Venne liberato, di colpo un uomo annullato viene costretto a portare il peso della libertà sulle spalle che grava come un macigno. Shujaa voleva vivere con tutto se stesso,ma non è facile per niente riabituarsi alla vita. Non ho mai conosciuto uomo più libero, ho pensato uscendo dalla conferenza tenutasi il 3/12/2013. La libertà è un diritto. Credete tutti di avere diritto alla vita? Non è così. L’uomo si crede creatore, toglie la vita...
La vita dello studente sotto un’ ottica umoristica. Ammettiamolo senza troppa ipocrisia. Almeno una volta nella nostra carriera universitaria (dico una per essere ottimista, sia chiaro) ci siamo divertiti a sminuire l’ importanza di altri dipartimenti. Ebbene si, anche a te è capitato di puntare il dito contro la vita universitaria di amici dimostrandogli l’ inutilità e soprattutto la facilità del loro corso di studi rispetto al tuo. Visto che la tendenza è sempre quella di difendere la propria amata sede, in questo post si mostreranno i luoghi comuni, le leggende metropolitane di ogni facoltà con i propri pro e contro. Il post non vuole colpire qualcuno in particolare e salvare invece qualcun’ altro. Noterete che nessuno verrà risparmiato. Buona lettura. MEDICINA Iniziamo ovviamente dall’ elité universitaria per antonomasia. La categoria dei medici è la più spocchiosa che possa esistere e la più odiata da tutto il mondo universitario. Gli aspiranti medici iniziano la loro carriera sentendosi come Vittorio Sgarbi nei programmi Tv. Dire 17 volte “capra” conferisce al critico d’ arte una certa onnipotenza e superiorità verso l’ interlocutore. Così gli studenti si sentono verso le future anime disoccupate degli altri dipartimenti. Peccato che il fomento durerà poco. Incominceranno a maledirsi dopo l’ ennesima serata rinchiusa a casa mentre gli amici faranno baldoria a destra e a manca. Inutile dire che dei 9274 iscritti del 1° anno, solo 50 o poco più riescono a superare il cosiddetto Rubicone. Appellativo: Quaquaraquà PSICOLOGIA Dipartimento stracolmo di gente psicolabile in cerca dell’ illuminazione, dell’ essenza della vita. In alcuni casi tra gli iscritti si trovano madri di 20 anni con 4 figli e il compagno al carcere di Rebibbia alla disperata ricerca di un aiuto oppure persone in crisi esistenziali pronte ad arrivare persino in Burkina Faso pur capire se le zebre sono nere a strisce bianche o bianche a strisce nere. Purtroppo il docente medio è rappresentato da Gigi Marzullo, capace di tenere un lezione intera sul nuovo giorno che è appena finito e il nuovo giorno che è appena iniziato. Gli studenti usciti da questa sede universitaria (con le dovute eccezioni fortunatamente) arriveranno alla tomba di Freud e ci seppelliranno vivo lo stesso Marzullo. Appellativo: Poeti maledetti GIURISPRUDENZA Terminato l’ esame di maturità si giunge alla dolente scelta di vita. Coloro che sono indecisi sul da farsi, scelgono senza rigore di logica questo pazzo dipartimento. Eh si, perché giunti alla prima lezione le uniche parole che si riescono a comprendere sono il nome e cognome del professore. Diritto è ovunque e ti perseguiterà persino al bagno dell’ università dove troverai scritti sul muro articoli della costituzione, leggi ordinarie e cosi via. Gli iscritti al primo anno non capiscono che in Italia ci sono più avvocati che venditori ambulanti di fazzoletti Scottex. Nonostante questo imperterriti continuano la loro carriera sperando di diventare un giorno i nuovi paladini della giustizia. Impossibile non descrivere il conformismo femminile in questo dipartimento. Infatti le ragazze sono fatte con lo stampino. Portano tutte quante quelle maledette borse (Gucci o Vuitton ovviamente) con quel maledetto braccino alzato. Mi consolo pensando che l’ artrosi sarà la loro compagna negli anni futuri. Appellativo: Diavolo veste Prada SCIENZE POLITICHE Questa...
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