La storia siamo noi” cantava De Gregori. E aggiungeva “nessuno si senta escluso!”. Ogni piccolo passo, ogni piccolo segno, ogni piccola azione contribuisce a creare effetti molto più grandi di quelli che crediamo possibili realizzare. La storia siamo noi non perché tutti siano chiamati a compiere grandi imprese, ma perché ogni piccola azione è essa stessa una grande impresa. Al netto della filosofia, noi non siamo ciò che ci capita, siamo esclusivamente ciò che scegliamo di diventare. Con fatica e coraggio. E ciò che abbiamo scelto di diventare è, tristemente, una massa di persone scarsamente informate, saccenti e supponenti, che ignorano ciò che accade al di là delle proprie mura di casa. Voglio portare un esempio concreto. Giorni fa è stato decapitato Khaled al-Asaad, direttore e custode delle rovine di Palmira. Ciò che è rimasto sono un paio di lenti quadrate, cerchiate di nero. Gli occhiali di Khaled. Gli occhiali sono tutto, hanno un significato immenso. Sono lo studio di un uomo, la fatica sulle carte, sui documenti, sui reperti. Una metafora, se vogliamo. La lente della cultura che ci consente di vedere meglio dentro l’anima del mondo, dentro la sua storia, dentro le sue tracce. Il resto è solo dolore. Il corpo decapitato, appeso a un palo della luce in una piazza della città siriana conquistata lo scorso Maggio dalle bande nere dell’ISIS. La testa riposta nella polvere, ai piedi del corpo, con gli occhiali ancora indosso. Per sfregio? Per caso? Come se quella cultura, quella forza e quella fatica sia voluta rimanere attaccata all’uomo che era e non è più. O forse solo perché Asaad dopo 50 anni trascorsi ad accudire, custodire, proteggere, elevare la bellezza della storia, dell’arte, della cultura di Palmira, è un martire di una guerra molto più grande di lui, come uomo. La distruzione dell’arte, della storia, della cultura è solo la negazione di tutto ciò che l’uomo ha potuto costruire quando ha tentato di elevarsi. Non ha nulla di nobile. Non ha nulla di religioso. Di ispirato. Di giusto. Così come i terroristi che hanno compiuto ciò. Che riposi in pace un altro uomo e la sua storia sia d’esempio per tutti noi. Di Simone dei Pieri
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Furono oltre 140mila vittime e fu seguita tre giorni dopo da un’altra esplosione simile nella città giapponese di Nagasaki. Esattamente settant’anni fa il bombardamento atomico di Hiroshima. Esattamente settant’anni fa il Giappone subiva il bombardamento atomico da parte degli americani. “Il Giappone” -commenta il Primo Ministro Giapponese Shinzo Abe– “è stato l’unico Paese al mondo che ha subito un bombardamento atomico in guerra. La nostra missione è quella di trasmettere al mondo e alle generazioni future la natura inumana delle armi nucleari”. Ricordando in tal modo il dramma della bomba atomica sganciata 70 anni fa dagli Stati Uniti su Hiroshima, è necessario rinnovare un appello alla pace all’abolizione dell armi nucleari nel mondo. Una bomba che, come ricordato dallo stesso Abe, non solo ha ucciso migliaia di persone, ma ha anche causato sofferenze indicibili ai sopravvissuti ed alle generazioni dopo. Per questo abbiamo il “dovere speciale di lavorare per un mondo libero dalle armi nucleari. In autunno presenteremo una nuova risoluzione all’assemblea dell’Onu per l’abolizione delle armi atomiche”. Sono state oltre 55mila le persone che hanno partecipato al Memoriale della Pace, vicino il punto d’epicentro dell’attacco del 6 Agosto 1945, iniziata come ogni anno con i rintocchi delle campane alle 8:15. All’evento ha partecipato per la prima volta anche un rappresentante dell’amministrazione USA: l’ambasciatrice in Giappone Caroline Kennedy. Presenti anche i sopravvissuti all’attacco, i loro discendenti, familiari delle vittime, attivisti per la pace e rappresentanti di circa 100 Paesi. In una forte dichiarazione il sindaco di Hiroshima, Kazumi Matsui, ha fatto riferimento alla perdita di vite umane e alle sofferenze causate dal bombardamento atomico, invitando i responsabili politici di tutto il mondo ad abolire le armi nucleari. Senza menzionare le controverse norme sulla sicurezza in discussione in Parlamento, ha poi esaltato il pacifismo come parte integrante della cultura nipponica e ha invitato il presidente americano Barack Obama e gli altri leader mondiali a venire nella sua città e ascoltare i racconti dei sopravvissuti perché “in futuro non si permetta che accadano cose di questo genere”.
Davanti a ciascun delitto, offesa, o problema siamo soliti ormai sentire o leggere sui social media la frase: “E se fosse stato un immigrato?” come a voler dire che c’è ormai il sentire comune da strada che riserva un trattamento diverso tra chi compie qualcosa di turpe ed è italiano e chi, per esempio, non lo è. C’è quasi l’attesa di scoprire che l’autore del delitto è uno straniero come a volere assolvere dal male a propria comunità di appartenenza. Il delitto inoltre sembra persino più delittuoso se è stato compiuto dallo straniero. Da giovane curioso chiedo semplicemente “Perché?” Perché la nazionalità diventa una discriminante, quasi un aggettivo la differenza tra la gogna, il patibolo e l’assoluzione sociale. Ma sopratutto ricordiamoci sempre che c’è la vittima che soffre. Il problema è che ci siamo già abituati a gogne mediatiche, a atti di una tristezza immane (non trovo altro modo per definirli) e purtroppo la parte peggiore è proprio quel termine “abituati”, legato a tutto ciò. Dobbiamo stare attenti perché la nostra sensibilità non sembra essere suscitata più dalla violenza in sé, ma stiamo andando oltre, sindacando sulle modalità o sulla nazionalità di chi ha compiuto quel dato gesto. Ancora una volta rischiamo di perdere un’occasione per riflettere su come la violenza non sia mai giustificabile e perderci nella discussione sul nulla, analizzando i dettagli insignificanti e perdendo di vista i dati, le statistiche e perfino l’accaduto e con esso le possibili soluzioni.
Conosco poco il Talmud e ancor meno l’ebraismo; mi professo un ignorante cosciente di ciò che ignora e della bellezza contenuta nei libri sacri delle grandi religioni della storia. Negli anni ho sempre avuto davanti agli occhi, per i motivi più svariati, alcuni versi ma se c’è qualcosa che mi ha colpito più di tutti è sempre stato leggere “chi salva un uomo, salva l’umanità intera”. Alla vigilia del 70′ anniversario dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, credo che questa frase porti con sé tutto ciò che pagine e pagine non potrebbero spiegare mai. Il 27 Gennaio risveglia dal torpore un po’ tutti. Riporta alla mente immagini che sin da piccoli abbiamo imparato a non dimenticare, con la consapevolezza di un bambino che sa quanto sia sbagliato far del male a qualcun altro. Oggi, a 70 anni da quella data, io sono un po’ diverso dal bambino che ero e in cuor mio spero di essere un po’ migliore, ma mi sento profondamente bugiardo. E a dire il vero, bugiardi siamo un po’ tutti. Non fraintendetemi, non voglio essere polemico. O meglio, voglio esserlo ma come lo è un bambino, chiedendo il ‘perché?’ di tutte le cose fin quando non è sazio di risposte, fino al nuovo slancio di domande verso ciò che lo circonda. Perché siamo tutti un po’ bugiardi? Perché ogni anno ci troviamo a ripetere che “ricordiamo per far sì che tutto ciò non accada mai più”, non vi siano uomini, donne e bambini che debbano temere per la propria vita, nascondendosi per paura di ciò che sono, si tratti di un credo religioso, del colore della pelle o di un accento diverso. Siamo bugiardi perché sono cambiati i luoghi, le persone, i bersagli e gli aguzzini, ma trasuda ancora violenza dalle mani di questo mondo ‘nuovo e civilizzato’ che stiamo contribuendo a costruire. 27 Gennaio. Villaggi rasi al suolo, donne e bambini sgozzati, omicidi di massa. Trascorse circa tre settimane dalle elezioni in Nigeria, i fondamentalisti islamici Boko Haram hanno “intensificato l’offensiva contro città e villaggi nel nord-est, abitati a grandissima maggioranza da musulmani.” Attualmente nessun civile può entrare o uscire dalla metropoli e le organizzazioni umanitarie lanciano un grido, temendo per la vita di centinaia di migliaia di civili. Uomini, donne e bambini. 27 Gennaio. Riesplode la violenza in Ucraina. Gli scontri si sono riaperti lungo tutto il fronte, mentre Donetsk, le città e i villaggi circostanti vengono martellati dai mortai. Ogni giorno si apre con le notizie di nuove vittime, civili e non. Una nuova ondata di violenza che è culminata negli attacchi contro i mezzi pubblici, non ultimo quello di qualche giorno fa che ha fatto registrare nove morti ad una fermata di filobus. Uomini, donne e bambini. 27 Gennaio. Non si è ancora chiusa la ‘questione CharlieHebdo’ che ha svegliato tutto il mondo, puntando i riflettori su Parigi e fermando il calendario al 7 Gennaio. I giornali titolano “Il terrore insaguina Parigi e la Francia”, “Assalto alla redazione del giornale satirico, 12...
No, non lo siete e non lo siamo. Non è così perché ancora, in questo come in altri Paesi, è difficile togliersi di dosso il velo d’ignoranza che tira giù tutti coloro che hanno voglia di respirare il fresco profumo di libertà, anziché quel tanfo fatto di uccisioni e censure. Non siamo tutti Charlie perché, in fin dei conti, quasi nessuno si è concentrato sul fatto che esista un altro Islam, fratelli e sorelle (e sono la maggior parte) che condannano a testa alta quanto accaduto a Parigi. Ma esiste, ed è ahimè pressante, un bel trancio di mondo che sta iniziando a giustificare azioni repressive e guerre di vendetta che porteranno altri figli di questa terra a morire per un ideale feticcio, mai giustificato e mai propugnato da alcuna religione. Religione. Quella parola che, almeno a me così hanno insegnato, viene da “religo” ovvero “lego insieme, più forte”. Non certo “divido” o “vendico” o peggio ancora “uccido liberamente”. La libertà, quella vera, è data dal coraggio di scrivere ogni giorno una storia di unione, nonostante quanto accade per dividerci; quando sarà passata l’onda della “notizia choc” che in tanti stanno cavalcando selvaggiamente, come avvoltoi che volteggiano sui corpi delle vittime di ogni strage analoga, spero solo che si possa iniziare a ricostruire un percorso di pace che sia capace di relegare in un angolo simili gesti inumani. La speranza di rinascere e di ricostruire, oggi, è la cosa più importante che dobbiamo conservare nei nostri cuori, poiché -parafrasando Gandhi- “non può stringersi una mano in segno di pace, se si tiene chiuso il pugno!”.
L’ISIS “deve essere distrutto”, non ci sono alternative. “Non è una guerra all’Islam” ma “non si può negoziare con il male”: Barack Obama lo ha scandito ieri dalla tribuna del Palazzo di Vetro dell’ONU. Ma negli stessi momenti in cui il Presidente U.S.A. parlava, i jihadisti rilanciavano la sfida postando in rete un nuovo, atroce video per mostrare al mondo un’altra decapitazione, quella dell’ostaggio francese Hervè Gourdel, rapito domenica scorsa in Algeria. Durante le stesse ore però, grazie alla popolare trasmissione ‘Le Iene’, gli italiani hanno osservato nelle loro case uno spettacolo raccapricciante, che i nostri parlamentari (da destra a sinistra, senza distinzioni di sorta) hanno interpretato mostrando una plateale ignoranza sull’argomento, appena dopo il voto camerale che ha approvato l’invio di armi ai Peshmerga. Ma di cosa stiamo parlando? L’ISIS -Islamic State Iraq Siria (o anche semplicemente IS- Islamic State)- il gruppo estremista che segue l‘ideologia di Al-Qaida, è nato anni fa, emerso come diversi altri dall’ideologia dei Fratelli Musulmani nel 1928, e dopo aver cambiato diverse sigle soprattutto negli ultimi anni, dal 29 Giugno 2014 ha annunciato la fondazione di un nuovo ‘califfato’ retto a tutt’oggi da Abu Bakr al-Baghdadi, noto ai più informati per aver giurato fedeltà ad Osama bin Laden nell’Ottobre 2004. A dispetto di quanto sanno i nostri parlamentari, è stata subito emessa dalle autorità religiose islamiche una Fatwa, ovverosia un editto che condanna le decapitazioni e gli atti terroristici messi in atto dall’ISIS e dai suoi affiliati, sostenendo che “tutto ciò non è neanche lontanamente riconoscibile nei princìpi dell’Islam”. I Peshmerga, ossia i combattenti curdi che stanno contrastando l’avanzata dell’ISIS, sembrano essere al momento l’unica valida alternativa armata e i governi europei (non ultimo quello italiano) hanno approvato l’invio di armi a quest’ultimi per sostenerne la resistenza contro i gruppi terroristici. Ma l’ISIS costituisce una minaccia più forte rispetto a tante altre anche a causa del cyber-fronte su cui si sta combattendo questa “nuova” guerra e attraverso cui sta avvenendo il reclutamento di enormi quantità di giovani in tutto il mondo. Sorge spontanea una domanda: Anonymous, Syrian Electronic Army, The Jester, ma anche hacker iraniani e turchi RedHack come si sono schierati e cosa stanno facendo? L‘ultimo a scendere in campo contro l’ISIS sarebbe proprio Anonymous, con il lancio di due campagne, la più attiva delle quali va sotto il nome di #opIceIsis e che ruota attorno all’account @TheAnonMessage. In questi giorni, inoltre, è stata rilasciata un’intervista a France24 dove si spiegano le motivazioni di tale campagna, ossia “riportare l’attenzione su quanto sta accadendo in Iraq, sottolineare comunque la responsabilità degli USA nella nascita dell’ISIS; ribadire che lo Stato Islamico non rappresenta la religione islamica; esprimere vicinanza alle vittime”. Non ci è dato sapere quanto si protrarrà questo nuovo conflitto che vede da un lato dichiarazioni altisonanti e dall’altro decapitazioni in mondo-visione. Se ci saranno novità vi terremo aggiornati. Per certo sappiamo solo che, finché non si elimineranno le radici da cui nasce il terrorismo, non potrà risolversi in maniera efficace tale minaccia;...
E anche questa è andata. Ieri sera come tanti, forse come tutti i ragazzi italiani, ho trascorso il Ferragosto in spiaggia tra falò, tende, stuoie e risate; il mare placido è stato il palcoscenico scuro del bagno di mezzanotte e l’Etna sullo sfondo eruttava gioia, lapilli e lava incandescente, che tracciava una linea all’orizzonte scendendo dai fianchi neri “dda muntagna” come si dice qui. L’alba ha ridipinto il cielo da blu a rosa, e una sole sempre troppo acceso ha riportato tutti alla realtà del giorno dopo, accaldati e assonnati, colorando tutto in azzurro. Ma ieri, guardando il mare muoversi al buio, le onde bagnare gli audaci avventori che hanno provato a dormire sulla riva… ecco, ieri ho pensato, per un attimo, a quanto successo l’anno scorso. Una telefonata pochi giorni prima di Ferragosto, ci ha portato al fianco di ragazzi come noi che hanno affrontato quel mare, tanto placido quanto assassino, per cercare una vita migliore. Per la speranza. Ho ripensato ai guanti gonfiati dai volontari a mo’ di palloncini per far ridere i bambini, ancora coperti di sale e affamati, accaldati e assonnati dopo tante nottate alla deriva. Ho ripensato alle madri, ai giovani miei coetanei e in cuor mio non ho trovato differenze tra noi. Ho ripensato alle magliette incollate addosso dal caldo, proprio come ieri in spiaggia, e mi sono reso conto di quanto vicine erano queste immagini nei miei ricordi. Il 10 Agosto di quest’anno a Catania è stata posta una targa commemorativa per l’occasione. Un anno dopo si è deciso che non solo era giusto ricordare quei ragazzi, giovani come noi e alcuni anche più piccoli, morti per un sogno di pace e con la speranza nel cuore, ma era anche giusto farlo nel segno di una città che non sceglie la via più facile, la via di chi si gira dall’altra parte e ignora un grido di aiuto. Durante quest’anno, con i giovani e grazie ad essi, si è saputa creare un’alternativa d’integrazione che non reggesse su parole e discorsi sterili, ma su azioni semplici e piene di significato. Non sono apparse banali le parole del portavoce di Sant’Egidio in Sicilia, Emiliano Abramo, che ha commentato così la posa della targa: “Catania è una città che non dimentica -e non vuole dimenticare!- la storia di chi, cercando una speranza di vita migliore, ha trovato la morte. Non sono storie annegate nel mare, bensì storie che sono state consegnate a noi e alla nostra umanità. Viviamo in un tempo in cui sembra difficile accogliere, ma le difficoltà che incontriamo, ciò non hanno portato la gente da un’altra parte, e anzi, hanno messo ancor più in evidenza quel tratto umano di accoglienza.“. E non abbiamo intenzione di dimenticare quelli che per noi sono come fratelli. Un anno dopo, siamo ancora qui, con l’idea che l’accoglienza e l’incontro tra culture sia l’unica strada per mantenere viva un’umanità che va spegnendo sé stessa in inutili diatribe. “Essere giovani vuol dire tenere aperto l’oblò della speranza, anche...
CATANIA, 13 Maggio 2014 E’ arrivato in mattinata il comunicato secondo cui la Fregata ‘Grecale’ dovrebbe raggiungere nel pomeriggio il porto di Catania con a bordo circa 200 sopravvissuti e 14 salme. Diversi altri migranti sono ancora dispersi in mare, al largo di Lampedusa. E’ un nuovo ‘viaggio della speranza’ finito male, che sembra voler aprire la stagione degli sbarchi a Catania; le premesse sono molto simili a quelle dello scorso anno (10 Agosto 2013) ma stavolta si spera in una risposta più forte e in segnali concreti. In poche ore le voci si rincorrono, la Comunità di S. Egidio inizia ad organizzare una rete di aiuti necessaria in queste occasioni di emergenza e i ragazzi -chi appena uscito da scuola, chi fuggito dalle lezioni universitarie- si rimboccano le maniche. Si raccolgono beni di prima necessità (pasta, cibi in scatola, latte a lunga scadenza, riso) e materiale per l’igiene intima e personale. Sono molti i bambini presenti a bordo, e la richiesta di aiuto si estende a pappe, pannolini eccetera. I Giovani per la Pace di Catania iniziano a raccogliere il tutto in via Garibaldi 89, dal LUNEDI’ al VENERDI’ dalle 16:30 alle 19:00 ed il SABATO mattina dalle 10:00 alle 12:30. Nel frattempo, l’atteggiamento delle istituzioni è a dir poco disarmante. Ci si discolpa a vicenda: da Roma non giungono informazioni valide alla Comunità Europea, che a sua volta s’indegna ma senza intervenire fattivamente. Ancora una volta, la soluzione è nelle mani dell’associazionismo. La maggior parte dei migranti fugge da zone di guerra e i numeri presenti sulla ‘Grecale’ iniziano a farsi più nitidi: 206 i sopravvissuti e 17 le salme. Tra questi, i corpi di due bambine, una di pochi mesi e l’altra di non più di due anni. Vorrei concludere con alcune parole che ho avuto l’occasione di sentire ieri da un amico, al riguardo: “l’immigrazione non è giusta o sbagliata. L’immigrazione è un avvenimento.”. Sta a noi decidere come affrontare questi avvenimenti, se ignorarli e far finta di niente oppure rimboccarci le maniche e aiutare chi ha bisogno di essere soccorso e aiutato. Il mondo si salva un uomo alla volta. Il resto è grandioso romanticismo o magniloquenza politica.
A dir la verità noi giovani ci siamo sempre considerati come i ‘figli di mezzo’ della storia, senza troppe pretese ma con grandi responsabilità, in cerca di un lavoro, eterni precari, cercatori d’oro in un mondo che sembra sempre più ancorato a mentalità vecchie. Ma gli ultimi avvenimenti ci hanno scosso, ci hanno fatto risvegliare, quasi a voler dire “Guardate qui! Voi avete qualcosa in più, la storia non vi ha lasciati soli!”…in queste settimane i giovani si vedono travolti da grandi eventi che nessun altro aveva mai avuto la possibilità di vivere e di raccontare: mai si erano visti ben quattro Papi in Piazza San Pietro (in ordine cronologico Roncalli, Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio) -due presenti spiritualmente, due fisicamente- un’occasione unica che ha portato pellegrini da ogni parte del mondo per un’evento unico, dipinto dalle immagini del CTV e raccontato da tutti i giornali e i media in mondovisione! Anche politicamente non siamo secondi a nessuno: un doppio mandato consecutivo ad un Presidente della Repubblica (Giorgio Napolitano) e numerosi Governi in poco più di un anno, con dibattiti politici spesso di una vuotezza disarmante e terrificante, con le stesse facce protagoniste di questi ‘dibattiti’ da più di vent’anni. Ma noi italiani, recentemente, abbiamo dovuto affrontare forse il più importante appuntamento con la storia: la ‘paura immigrazione’. Sì, perché fino a qualche tempo fa l’immigrazione era un argomento come un altro, qualcosa da consumare al bar tra un caffè e l’altro… gli immigrati che tolgono lavoro agli italiani, gli immigrati che stuprano, picchiano, portano malattie. Molto simili -troppo simili- agli ebrei, agli zingari, ai ‘diversi’ dipinti da Goebbels nella propaganda nazista, spaventosamente ridotti ad oggetti e spesso disumanizzati, tanto da renderne semplicistica l’eliminazione. Agosto 2013. Siamo in Sicilia e Catania -fino ad oggi mai toccata dagli sbarchi- conosce la prima ondata di migranti: sono giovani, uomini, donne, bambini, adulti, anziani… molti preparati, con una cultura non indifferente, laureandi e laureati. Non sono ignoranti come ci vogliono far credere e non vogliono restare qui per lavorare nei campi per pochi centesimi l’ora. A Catania e in altre città, abbiamo visto, insieme ad altri, le Forze dell’Ordine giocare con i bambini e intrattenerli con palloncini realizzati gonfiando i guanti da infermiere; studenti e studentesse catanesi spiegare le modalità di integrazione e di registrazione, sempre con il sorriso in volto. Nel frattempo, abbiamo visto la politica rispondere con le solite frasi vuote e con poche azioni. Aprile 2014. Quasi un anno dopo gli sbarchi dei migranti sono aumentati e sono stati accolti da città e paesi in Sicilia e non solo; nel frattempo al dibattito politico, già svuotato di ogni contenuto, si è aggiunta l’ansia per le Elezioni Europee che tra un mese avranno luogo. Si è diffusa la falsa voce di malattie portate dai migranti nei loro viaggi. In molti si sono affrettati per cavalcare l’onda del ‘fenomeno immigrazione’ e per accaparrarsi qualche voto in più: PRIMA GLI ITALIANI!- PRIMA GLI ANZIANI!- PRIMA I DISABILI!- PRIMA I GIOVANI!… hanno diviso...
Il progetto SOUNDS FOR PEACE nasce nel 2009 ad opera dei Giovani per la Pace, per promuovere attraverso la musica la cultura dell’uguaglianza, la sconfitta del razzismo e della violenza e l’apertura alla pace e all’incontro. La musica è un canale privilegiato per trasmettere valori quali la pace, la solidarietà, la non violenza, l’inclusione sociale, il rispetto per l’altro ma spesso avviene il contrario. Vogliamo mettere in rete e far crescere band giovanili che promuovano questi valori creando canali alternativi a quelli commerciali per la produzione, distribuzione e promozione della musica. Lo faremo tramite un portale web, l’organizzazione di eventi culturali sul territorio, e dei workshop. Ami la musica? Questo messaggio è rivolto proprio a te! Sostieni il nostro progetto su Edison Start! L’obbiettivo è di creare un movimento musicale che ha come fulcro un portale web: www.soundsforpeace.org dove gli artisti registrati potranno condividere testi, audio e video dei propri brani musicali creati sui temi del progetto, interagire in un’area blog dedicata, mettere in rete esperienze e conoscenze che possano essere di aiuto ad altri, auto-organizzare eventi culturali/musicali. Si prevede di coinvolgere 500 band sul territorio nazionale con almeno 100.000 accessi online al mese! Vota la nostra proposta qui: Edison Start – Sounds for Peace “Per promuovere temi importanti ed attuali, come la pace, la guerra, la povertà, la violenza e il razzismo, il rispetto per la vita, la lotta alla pena di morte e convivere tra culture diverse! Cambiare il mondo consapevoli che la bellezza della musica può diffondere messaggi positivi che uniscono e non dividono!” SOUNDS FOR PEACE: il mondo cambia musica!
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