C’è un mondo di giovani in Europa che non vuole sottomettersi alla cultura dello scarto, che non vuole accettare di vedere nell’altro (nel povero) un nemico. Un mondo di giovani che ha ascoltato le parole di Papa Francesco sulla globalizzazione dell’indifferenza e vuole costruire una globalizzazione della solidarietà. In Europa quest’estate, hanno detto in tanti modi “Non ci sto!” a chi lascia i poveri ai margini. Hanno riscoperto in tanti modi la solidarietà, la bellezza di incontrare i poveri… Un esempio? Solo a Roma quest’estate sono venuti a trovarci 2500 giovani provenienti da diverse parti d’Italia e d’Europa, per conoscere ciò che facciamo, per scoprire la bellezza della gratuità in risposta a un mondo sempre con la calcolatrice alla mano. Durante l’anno, inoltre, incontriamo sempre più ragazzi che vogliono fare qualcosa per gli altri, per gli ultimi: sono una parte di quell’Europa che vuole reagire alla globalizzazione dell’indifferenza e che scopre nell’altro un amico invece di un nemico. I giovani vogliono costruire un’Europa che cambia. L’Europa cambia dall’incontro con i poveri.
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La guerra non è mai santa” dice l’appello di #peaceispossible e ripensando all’11 settembre di quattordici anni fa queste parole risuonano nelle mie orecchie. Non esiste una guerra santa, non è mai santo togliere la vita a un altro uomo e non esiste modo di giustificare un assassinio o una strage. Il Signore chiede di porre la nostra vita al suo servizio, non di macchiare il suo altare con il sangue dei suoi figli. Il sacrificio di Isacco ce lo ricorda: il Signore non permise ad Abramo, padre di tutti i credenti, di uccidere suo figlio, bloccò la sua mano. Neanche Dio permise ad Abramo di offrirgli sacrificio con il sangue del proprio figlio, quindi come possiamo pensare che uccidere altri esseri umani sia santo? La violenza in nome di Dio è un sacrilegio, uccidere in nome di Dio è un sacrilegio. Non c’era nulla di santo negli attentati dell’11 settembre 2001, non c’era nulla di Santo nelle guerre che dopo ne sono scaturite. Dopo quattordici anni ci si apre la domanda di come onorare l’11 settembre, di come chiudere questo periodo di violenze e attentati contro i deboli, contro gli innocenti in nome di un Dio che è amore e misericordia, non certo violento e crudele. La guerra, è sotto gli occhi di tutti, ha miseramente fallito dimostrando che la violenza non può essere risposta perché genera solo altro dolore e altro odio. Deve finire il tempo della guerra, il tempo in cui si può prendere la vita degli innocenti e trovare giustificazione (che sia religiosa o laica). Questo mondo ha bisogno di pace. La pace è l’unica strada possibile per uscire dalla spirale del dolore. Non esiste guerra santa, solo la pace è santa.
Appena arrivi al Centro Nutrizionale, che ogni giorno dà da mangiare a circa 200 bambini, li riconosci subito: sono più grandi degli altri, i primi ad arrivare e gli ultimi ad andarsene e sono stati la sorpresa di questo viaggio. Il dramma dei ragazzi di strada è molto diffuso in Africa: è il dramma di bambini e ragazzi che si trovano senza un tetto sopra la testa, senza scuola, senza protezioni, senza che qualcuno si prenda cura di loro. A Beira, in particolare, è recentemente esplosa la situazione a causa della chiusura di due orfanotrofi, che ha portato il numero dei bambini di strada a più di duecento. Spesso sono raggruppati in bande, protetti/sfruttati da qualcuno più grande e chiedono l’elemosina in punti strategici come la piazza del municipio. Da più di un mese, una trentina di loro sono stati accolti al Centro Nutrizionale, dove possono andare a farsi la doccia, lavare i vestiti, pranzare e una volta a settimana con alcuni Giovani per la Pace riprendono la scuola che la vita in strada ha interrotto. Ci hanno conquistato con la loro amicizia, la loro fedeltà, il loro essere dei bambini in dei corpi troppo grandi, così lontani dai loro coetanei italiani con il debito di un’infanzia non vissuta catapultati troppo presto in una vita difficile. Ci hanno conquistato quando a domanda “Chi è il tuo amico più grande?” Non hanno esitato a rispondere “Dio” proprio loro che magari ragioni per lamentarsi ne avrebbero più di tanti altri. L’ultimo pomeriggio lo abbiamo passato con loro a mare. Li abbiamo salutati in modo speciale perché hanno conquistato un posto grande nel nostro cuore. Io ho un grande debito con loro: il Mozambico poteva rimanere una bella esperienza di quelle che ti aprono gli occhi, ti fanno capire molte cose, ti fanno crescere, ma sono limitate nel tempo, preziose memorie da custodire con cura e gelosia. Antonio, Quinho, Gonçalves, Carlito e gli altri però non sono un’esperienza: sono miei amici e le loro storie, le loro domande sono tornate con me nella mia bella casa, dalla mia famiglia, nella mia vita bella, ora arricchita dai loro volti che so di non poter chiudere in una vetrina accanto a quelli incontrati in altri viaggi.
#Prima giornata di lavoro per i Giovani per la pace che anzitutto sono andati a conoscere “sul campo” il progetto Dream. Sono andati a visitare i centri Dream di Manga Chingussura e Praia Nova, due quartieri di Beira. Il centro di Praia Nova, più recente, è affiancato dal laboratorio che permette di processare i campioni delle analisi di routine e misurare la carica virale, senza dover mandare il materiale a Maputo (la capitale), dal Centro Nutrizionale, dove ogni giorno a turno vanno a mangiare 200/250 bambini (di cui 30 bambini di strada), dall’asilo e dalla scuola per i bambini di strada. I Giovani per la Pace hanno prima aiutato al centro nutrizionale, poi con alcuni bambini sono andati a giocare, prima del rientro alle rispettive scuole o case. Oggi invece dopo la visita al centro si sono divisi in due gruppi per visitare le due nuove scuole della pace
Ieri bambini di alcune Scuole della Pace di Roma hanno scoperto un nuovo modo per combattere l’afa che sta tenendo romani (e non) rintanati all’interno di luoghi climatizzati. Gli anziani della Comunità di S. Egidio, in vacanza a S. Marinella, ci hanno invitato a trascorrere una giornata di mare e vacanza insieme a loro, che tra tuffi e cocomeri, si è conclusa in una bellissima festa e nella consegna dei lavoretti che i bambini hanno preparato i giorni scorsi per loro. Al termine della giornata, bambini e anziani si sono salutati con il sorriso e la gioia di una giornata passata insieme in amicizia.
Rico è un senza fissa dimora che dopo la morte del suo amico Titì decide di affrontare un lungo viaggio attraverso la Francia, per raggiungere un ricordo che ha lasciato a Marsiglia tanti anni prima. Rico è un uomo che, come tanti, è buttato per la strada dalla solitudine. Il suo racconto non è però un racconto solitario, ma popolato degli incontri e delle vite di tanti altri morenti, di tanti altri traditi dalla vita. È un racconto drammatico che però apre uno squarcio sul mondo dei “falliti”, costringendo il lettore a guardare proprio loro, coloro i quali la società del successo individualistico ci farebbe volentieri dimenticare, perché ne rappresentano la sconfitta.
Il 31 gennaio 1983 alla stazione Termini moriva Modesta Valenti di fronte agli occhi di chi non volle caricarla sull’ambulanza a causa dei pidocchi. Durante tutto il mese di febbraio, la memoria di Modesta e di quanti sono morti per le strade della nostra città, capitale d’Italia, ha attraversato le chiese di Roma, che si sono illuminate della luce di quelle candele accese in memoria di ciascuno dei nostri amici senza fissa dimora. Oggi – 1 marzo – la memoria è arrivata all’istituto San Michele ed è stata celebrata, con nostra grande gioia, da Monsignor Konrad Krajewski. La chiesa si è riempita di una molteplicità di volti differenti e, al contrario di come qualcuno vorrebbe farci credere, la molteplicità di storie, culture e lingue insieme non ha generato chiasso, discordia o confusione. La memoria di quanti hanno perso la vita per strada, i primi scartati da una società con il culto dell’autosufficienza, ha unito persone diversissime concordi nel voler rimettere al centro i più fragili, i più deboli. Dopo la liturgia, la moltitudine diversità unite nella gioia e nel sogno di una società che metta al centro i più deboli non si è dispersa, bensì raccolta a pranzo, durante il quale abbiamo conosciuto i giovani rifugiati ospiti della SPRAR San Michele, che hanno arricchito la nostra festa di lingue, racconti e gioia.
Oggi vi consigliamo un film imperdibile del regista russo Nikita Mikhalkov. Un ragazzo ceceno, accusato di aver ucciso il padre adottivo, ex ufficiale dell’esercito russo. Dodici giurati chiusi in una scuola a deciderne il destino. Dovrebbe essere una scelta facile, ma non tutti se la sentono di decidere in cinque minuti il destino di un giovane, così veniamo trascinati in un grande ritratto della Russia contemporanea, raccontata attraverso i volti e le storie dei giurati. Sullo sfondo, i flashback del giovane imputato in una terra, la Cecenia, martoriata dalla violenza. Lo stile è quasi teatrale, con delle interpretazioni forti, coinvolgenti e capaci di tenere accesa la vostra attenzione anche alla seconda o alla terza visione dell’opera (presente!). Candidato nel 2008 all’Oscar come miglior film straniero, il film non è solo emozionante, non è solo un ritratto della Russia, dei Moscoviti, né un racconto della questione cecena, ma – a chiunque sia disposto ad ascoltarlo – il regista pone una domanda sui limiti della giustizia umana (o dell’uomo onesto). Vi lascio il trailer, ma se volete un consiglio, saltatelo e andate a vedere il film!
A Capodanno ho scoperto un crocevia: in una delle poche notti in cui il freddo ha toccato Roma, quest’inverno, io ho scoperto un incrocio di esistenze sospese, un rifugio caldo per chi fino a pochi mesi, settimane o giorni prima aveva una casa. La notte di Capodanno abbiamo fatto “il giro”: abbiamo portato la cena agli amici che vivono per la strada, facendo festa e brindisi anche assieme a loro. Dal momento che alcuni pasti erano avanzati, siamo andati in esplorazione e abbiamo scoperto che nel Policlinico la sala d’attesa di notte diventa il punto d’incontro di tante storie diverse. Da luogo di attesa e di angoscia, diventa il porto sicuro per chi nelle strade dovrebbe aspettare l’arrivo dell’alba, il passaggio del freddo, sperando che la sua morsa non lo stringa per sempre, come purtroppo ancora accade anche nella nostra città. È nella sala d’attesa del Policlinico che abbiamo conosciuto Erika, che a casa non riesce a dormire da sola perché pensa al suo Mirko morto più di un mese prima proprio lì, al Policlinico. È nella sala d’attesa del Policlinico che scopriamo quanto può essere facile e banale finire per strada, come è successo a Cristiana che è venuta in Italia con la falsa promessa di un lavoro e senza i soldi per tornare in Romania dalle due figlie. È Massimo a ricordarci che tante volte è un tessuto umano disgregato, l’isolamento, a costituire la prima arma della strada: lui ci è finito perché ha litigato con la moglie e perché essendo in cattivi rapporti con il fratello non voleva farsi ospitare a casa sua. A Capodanno abbiamo scoperto un crocevia di umano che ci interroga ogni giorno. Le storie che ci hanno raccontato sono anzitutto storie di solitudine, di una società meno solidale, di famiglie e individui isolati, e tutti possiamo tutti ogni giorno combattere la solitudine, in ogni momento possiamo lavorare per ricollegare i nodi di una rete sociale (e solidale) che la diffidenza e il mito dell’autosufficienza corrodono quotidianamente. Anche questo è costruire la pace. Elena
La settimana scorsa avevamo deciso di assistere alla canonizzazione di Papa Giovanni XXIII e Papa Giovanni Paolo II dal vivo, così sabato sera noi Giovani per la Pace ci siamo armati di viveri, teli, termos di caffè caldo e amicizia e siamo andati ad accamparci a via della Conciliazione in attesa dell’apertura della piazza prevista per le 5:30. C’è da dire che non abbiamo sofferto il freddo, ma si sentiva che eravamo 500mila in attesa di questo grande evento… E, per smentire le malelingue, pure il meteo ha partecipato: solo una lievissima pioggerellina ci ha disturbati alle 10 del mattino dopo. Abbiamo voluto partecipare a questo evento perché come Giovani per la Pace e Comunità di Sant’Egidio siamo molto legati a questi due papi: siamo nati dal Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII e senza la sua ispirazione probabilmente non saremmo mai esistiti, e siamo cresciuti con Giovanni Paolo II, sia come Comunità che come giovani, tant’è che da piccoli per noi il Papa era lui e ci sembrava assurdo che ce ne potesse essere un altro. Come Giovani per la Pace, giovani di questo mondo, siamo grati all’insegnamento che viene dalla la loro vita, vogliamo continuare a imparare da loro a guardare e non fuggire le piaghe e le miserie del nostro tempo, come hanno fatto loro di fronte alle ferite terribili del XX secolo, e a testimoniare la gioia e la speranza che viene dalla resurrezione, che è anzitutto cambiamento e che loro hanno pienamente vissuto, diventando forze di cambiamento del loro tempo. Nonostante la fatica, è stato bellissimo partecipare a quest’evento a piazza San Pietro, che è stato reso unico non solo dalla presenza di Papa Francesco, che per noi Giovani per la Pace è sempre di più un punto di riferimento, ma anche dalla presenza del Papa emerito Benedetto XVI, che ha concelebrato. La cosa più bella, però, è stata parteciparvi con tanti amici dei Giovani per la pace. Elena e Antonella
Il film, ambientato nel 1841, racconta la storia vera di Solomon Northup, uomo libero di Saratoga (New York), rapito, privato della sua identità e trasformato in uno schiavo per dodici anni, passati per la maggior parte nella piantagione del “padrone Epps” (Michael Fassbender – Bastardi senza gloria, X-Men – l’inizio, Prometheus, The counselor) Vincitore di tre premi Oscar, meritatissimi, come miglior film, miglior sceneggiatura non originale (John Ridley) e miglior attrice non protagonista (Lupita Nyong’o alias Patsey), il film è uscito nelle sale a fine febbraio e si è inserito in un filone di film americani che hanno trattato in modo molto diverso lo stesso tema: la schiavitù. Gli indimenticabili predecessori – davvero se non li avete visti rimediate immediatamente! – sono Lincoln (2012 – Steven Spielberg), che racconta le ultime fasi della guerra di secessione americana e particolarmente della lotta per l’approvazione del XIII emendamento della Costituzione (che abolì definitivamente la schiavitù), e Django Unchained (2012 – Quentin Tarantino), omaggio all’omonimo del 1966 di Sergio Corbucci, che racconta invece la storia di Django, schiavo liberato da un cacciatore di taglie (il Dr. Schulz) per riconoscere i fratelli Brittle (ricercati), che diventa cacciatore di taglie al fianco del suo liberatore, con l’obiettivo ultimo di ritrovare la moglie, Broomhilda. I tre film sono profondamente diversi, ma il confronto viene naturale. 12 anni schiavo condivide con Lincoln la storicità e veridicità della storia narrata, tratta dalle stesse memorie di Solomon Northup, ma il collegamento con Django Unchained è più diretto e il paragone è più immediato. Entrambi narrano la storia di due uomini – due nigger – eccezionali: nel film di Tarantino, Django viene definito “un negro come ce ne sono uno su un milione” e Solomon Northup si fa notare dai propri padroni – sempre con conseguenze infauste – proprio grazie alle sue capacità, frutto di una vita come lavoratore libero, prima, e artista, poi. Entrambe le pellicole raccontano di due uomini che non accettano la loro condizione di schiavi, ma nei due casi le reazioni sono diverse: Solomon prova subito su di sé le conseguenze del cercare di dire la verità, quindi si rassegna a imbracciare le armi della pazienza; al contrario, Django imbraccia armi affatto metaforiche per salvare la sua Broomhilda. La differenza fondamentale tra i due film sta nel tipo di pellicola che i due registi hanno voluto produrre: le violenze del film di Tarantino, per quanto maggiori da un punto di vista quantitativo, sono così splatter da non riuscire mai a impressionarmi, la finzione in Django viene sbattuta e agitata davanti allo spettatore, tanto che è impossibile dimenticarsi che si sta guardando un film; quando si guarda 12 anni schiavo, invece, è impossibile dimenticarsi che quella rappresentata è una storia vera e la violenza quantitativamente minore, meno spettacolarizzata e più spoglia, giunge allo spettatore come uno schiaffo, di quelli dati bene. Steve McQueen non si preoccupa che il suo spettatore si ricordi che sta guardando un film, una fiction: ti sbatte in faccia la Storia a...
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