Voci da Lampedusa: “In quel viaggio terribile, sono stato trattato come una bestia. Ma sono africano, immigrato. Un essere umano!” Ciao a tutti! Nell’ultimo mese l’isola di Lampedusa è tornata tristemente alla ribalta per le stragi al largo delle sue coste: stragi di uomini e donne che, come tutti, cercano un futuro migliore per le proprie famiglie, sfuggono dalla guerra e dalla miseria, cercano un’alternativa – in alcuni casi – all’uccidere o all’essere uccisi. Partono prevalentemente dall’Africa subsahariana, e ultimamente da Siria ed Egitto (per ovvi motivi); attraversano il Sahara, stipati su pick-up o a piedi; trascorrono un periodo più o meno lungo in Libia, perché rinchiusi in una prigione o perché devono guadagnarsi i soldi per pagarsi la traversata del Mediterraneo, che avviene sulle “carrette del mare”: pescherecci piccoli e stipati di gente fino a scoppiare (o affondare). Infine arrivano in Italia e cosa trovano? Due centri di accoglienza e pratiche lunghissime, con dei funzionari italiani che devono decidere se era abbastanza grande la sofferenza da cui scappavano, se era abbastanza reale il rischio di essere uccisi o dover uccidere, per dargli lo status di rifugiato. Se non hai sofferto abbastanza, puoi tornare a casa. Quelli che arrivano, però, sono già dei sopravvissuti. Non solo, per i paesi da cui fuggono, ma perché sopravvivono a un viaggio tra i cimiteri: il cimitero del Sahara e il cimitero del Mediterraneo; solo nel secondo, dal 1988 sono morte almeno 19.372 persone. Perché parlo di tutto questo? Perché martedì 12 novembrealle ore 19:15 nella Basilica di San Bartolomeo all’isola Tiberina avremo la possibilità di ascolta Maurice, uno di questi uomini coraggiosi e fortunati, un ragazzo della Costa D’Avorio che ha guardato in faccia la sete, la sofferenza, i maltrattamenti insieme a tanti suoi coetanei, dei quali molti non ce l’hanno fatta. A seguire ricorderemo le tante vittime dell’inaccoglienza e dell’indifferenza. E rifletteremo insieme sull’odio e sull’inimicizia, come radici della sofferenza di tanti. Perché non è giusto guardare dall’altra parte, quando tanti muoiono e soffrono. Elena
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Dopo i casi tortuosi nord-coreani e siriani, questo post spetta di diritto a 2 stati entrati in collisione negli ultimi giorni. Il primo può essere riassunto dalla dicotomia amore-odio provata dagli stessi cittadini, il secondo lo ricordiamo purtroppo “solo” per il nome non propriamente raffinato e per le grosse risate fra gli studenti delle elementari. Chi sono? Italia e Kazakistan. Il lettore medio potrebbe pensare non conoscendo la materia:” Non mi dire. Non è guarito. Berlusconi è coinvolto con una Ruby kazaka”. Sarebbe stato comunque molto improbabile dato che il signor B. in questi tempi giudiziari ha la pressione al minimo e appare disinteressato persino al suo diletto più grande. No, l’ origine del problema risiede nella diplomazia e l’ Italia non è esente da colpe e incapacità. La storia inizia la notte tra il 28 e il 29 maggio in seguito ad un blitz in una villa di Casal Palocco di proprietà della kazaka Shalabayeva, moglie del dissidente politico Ablyazov. Il blitz, richiesto dall’ ambasciata kazaka(espressione della volonta del governo dittatoriale kazako) alla questura romana e al capo della mobile, non produce gli effetti di cattura sperati poichè Ablyazov ha ottenuto asilo politico come dissidente dall’Inghilterra . La moglie e la figlia subito dopo vengono messe su un jet privato,espulse dal nostro territorio e affidate ad un paese, il Kazakistan, che disapprova ogni forma di dissenso. Cosa stona in questa storia a parte la sfliza di nomi incomprensibili e difficili da ricordare? L’ Italia promuovendo l’ espulsione, ha agito contro il Testo Unico sull’ Immigrazione che dice espressamente:“in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere soggetto di persecuzione per motivi di razza, di lingua, di cittadinanza, di opinioni politiche”. Bene. Il dado è tratto. Ora spetterebbe agli alti vertici riconoscere le proprie responsabilità. E invece no. Al Parlamento nessuno era cosciente(così dicono): da Angelino Alfano, ministro dell’interno, alla Bonino, ministro degli affari esteri. Il capro espiatorio risponde al nome di Alessandro Marangoni, capo della polizia, e probabile burattino di personalità di alto rango istituzionale. Le ripercussioni sono notevoli poichè coinvolgono la sfera politica ed economica. Con il Kazakistan i rapporti economici muovevano cifre da capogiro. Ammonta ad un miliardo di euro nel 2012 il valore degli scambi commerciali tra i 2 paesi. Per non parlare della mancanza di credibilità e fiducia che sta ottenendo il governo Letta all’ interno dei confini territoriali e a livello comunitario. In questo momento di ricrescita economica e sopratutto culturale l’ Italia richiede impegno,serietà da parte di ciascuno di noi, nessuno escluso. E se persino i diversi ministri lanciano il sasso e nascondono la mano, allora ragazzi temo che la strada sia lunga. Fabio Lazzari
Gli antichi Romani credevano che nel nome assegnato ad una persona fosse indicato il suo destino. La famosa locuzione latina “nomen omen” tradotta letteralmente, può significare: “il nome è un presagio”, “un nome un destino”, “il destino nel nome”, “di nome e di fatto”. Le ragioni per cui un papa sceglie un determinato nome sono tantissime e diverse tra loro. I papi moderni nella scelta del nome vogliono un po’ come “sintetizzare” il programma del proprio pontificato. Ecco come il Card. Bergoglio, una volta diventato papa, ricostruisce la scelta del suo nome pontificale. Quando nel Conclave si stava ultimando lo spoglio dei voti ed egli si stava rendendo conto di essere diventato Papa, alcuni pensieri presero corpo nella sua mente: “Non dimenticarti dei poveri!. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. L’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il Creato, in questo momento in cui noi abbiamo con il Creato una relazione non tanto buona, no? E’ l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero… Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Papa Francesco, il primo pontefice della storia a essersi chiamato così. In questo nome la sintesi del suo programma: i poveri, la pace, l’amore per il Creato; e poi… Una Chiesa povera per i poveri. E’ questa la sintesi della vicenda umana di Francesco d’Assisi, un ragazzo come tutti, figlio del suo tempo, che però ha saputo dare una svolta radicale alla sua vita, ha raccolto la sfida di provare a vivere il Vangelo “alla lettera” (così some era scritto), operando nei fatti quel cambiamento personale capace di “trasformare la storia”. C’è una famosa frase di Gandhi: “Sii tu stesso il cambiamento che vorresti vedere nel mondo”. Questa frase esprime bene il senso della vita di Francesco d’Assisi. Una vita eccezionale ma, allo stesso tempo “accessibile a tutti”, nel senso che ognuno può trarre ispirazione, replicandola nella propria epoca e nella propria condizione. La vita di Francesco d’Assisi è ricca di segni. Di seguito ne riportiamo tre. Francesco vince il suo terrore per i poveri baciando un lebbroso. Dei lebbrosi (che erano i più poveri tra i poveri) si provava un senso di schifo e ribrezzo; al tempo di Francesco d’Assisi ce ne erano molti e quando passavano tutti fuggivano. Francesco combatte il disprezzo per i poveri innanzitutto iniziando da sé, vincendo il senso di schifo che come tutti lo prendeva. Non solo non fugge, non solo si avvicina, ma lo abbraccia e lo bacia. Cade un muro, inizia una rivoluzione. Il mondo cambia. Francesco va fino in Egitto per dialogare con il Sultano, il capo dei mussulmani. Era il tempo delle Crociate. L’islam era il nemico, il male, il pericolo da...
Riceviamo e pubblichiamo la lettera e le foto di Lucia Florio, una Giovane per la Pace di Messina, sulla beatificazione di Padre Pino Puglisi dopo la cerimonia del 25 Maggio scorso. “Ciao a tutti! Sono Lucia, Giovane per la Pace di Messina. Vi voglio raccontare un sogno: è il sogno di tutti noi ragazzi che facciamo scuola della pace nei ‘quartieri’. Ogni settimana aiutiamo i nostri bambini a fare i compiti, regaliamo qualche sorriso e un pò di serenità… Ecco, questo è anche il sogno di Padre Pino Puglisi, “uno di noi”. Lui nel quartiere di Brancaccio a Palermo toglieva i ragazzi non solo dalla strada, ma li rubava alla mafia, e come sappiamo è stato ammazzato per questo. Il 25 Maggio è stato il suo e il nostro giorno, il giorno della rivincita. La Beatificazione di 3P (dalle iniziali del suo nome) è stat una festa non solo per Brancaccio e Palermo, ma per tutti noi che lottiamo giorno dopo giorno, per le nostre scuole della pace in tutto il mondo. Una delle frasi che Puglisi diceva era: “E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto…”. Essere lì quel giorno con gli altri giovani per la pace, andare nel suo quartiere e sotto casa sua (dove gli hanno sparato), mi ha fatto capire davvero il significato di questa frase: ‘insieme si è più forti e l’amore è l’arma giusta per vincere!'” La Redazione
Don Pino Puglisi, ha sostenuto i primi passi dei Giovani per la Pace nel suo quartiere di Brancaccio (anche se allora portavamo un altro nome). Alcuni di noi lo hanno conosciuto, è stato nostro amico. Un uomo mite, ma forte. Oggi lo vogliamo ricordare con le parole di Papa Francesco all’angelus di ieri, dopo che il nostro amico è stato proclamato beato. Alziamo gli occhi da noi stessi, guardiamoci intorno, rischiamo di non accorgercene, ma può capitare di camminare accanto ai santi. “Cari fratelli e sorelle,ieri a Palermo, è stato proclamato Beato Don Giuseppe Puglisi, sacerdote e martire, ucciso dalla mafia nel 1993. Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto. Io penso a tanti dolori di uomini e donne, anche di bambini, che sono sfruttati da tante mafie, che li sfruttano facendo fare loro un lavoro che li rende schiavi, con la prostituzione, con tante pressioni sociali. Dietro a questi sfruttamenti, dietro a queste schiavitù, ci sono mafie. Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone. Non possono fare questo! Non possono fare di noi, fratelli, schiavi! Dobbiamo pregare il Signore! Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio e lodiamo Dio per la luminosa testimonianza di don Giuseppe Puglisi, e facciamo tesoro del suo esempio!” Papa Francesco, 26 Maggio 2013 La Redazione
Inequivocabile la sua immagine. Il basco e sopratutto il sigaro in bocca erano la sintesi di uno stile di vita indipendente, anticonformista legato ai piaceri terreni. Questo era Don Gallo, uomo semplice che era riuscito a far collimare la sfera spirituale con quella terrena così perfettamente, a comprendere che la forza della vita risiede nella collettività, nell’ ascolto, nell’ amore verso il prossimo. Don Gallo nasce a Genova nel 1928. L’ascesa nel mondo ecclesiastico, inziata all’età di 20 anni, non produsse gli effetti sperati in termini di carriera a causa della sua indole estremamente rivoluzionaria verso una Chiesa che non condivideva i suoi ideali. Fu accusato di non essere un prete ma un politico, che i suoi contenuti non erano cristiani ma comunisti. Eppure coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo, affermarono che si era mostrato non solo un prete straordinario ma una fratello, un amico, un confidente, come colui che ti apre le braccia e che mai ti giudica. Ovunque passava ti lasciava un segno indelebile, riusciva a mostrare le tue debolezze e a porti domande che toccavano le aree più nascoste dell’ anima. Prete di prima linea, si era distinto nelle lotte per il lavoro, nel diritto di cittadinanza agli stranieri, nella difesa degli ultimi. La sua era un Chiesa che includeva, che accoglieva persone dalle vite più disparate: barboni, tossici, gay, trans, lesbiche. Per Don Gallo queste erano creature di Dio e in quanto tali dovevano essere accolte dalla comunità cristiana e non emarginate e ripudiate. Si cadrebbe in errore se la figura di Don Gallo venisse ricordata unicamente per il colore del partito a cui aderiva. Ex-partigiano, non hai mai nascosto la propria fede nel socialismo, espressione dell’ amore collettivo verso un mondo libero dalle diseguaglianze sociali. Don Gallo lo vogliamo ricordare per quello che veramente era: un esempio di amore, etica e libertà per le nuove generazioni. La sua corsa non è volta al termine perchè il testimone è ora nelle nostre mani e a noi spetta l’ arduo di compito di ripercorrere la sua strada. Grazie Don Gallo Fabio Lazzari
Peace Collective, Ballo Della PaceBRANO VINCITORE DEL PRIMO PREMIO “CATEGORIA AUTORI” Leggi il testo su Play Music Stop Violence
Si afferma più volte che l’ Europa vive da tempo un periodo di prospera serenità e pace in un contesto territoriale che non conosce conflitti bellici mondiali da oltre 50 anni( in questo lasso di tempo la guerra fredda non ha rappresentato una vera e propria guerra armata). Sicuramente questo è vero ma come si può cantare vittoria quando a “pochi”chilometri di distanza da noi è in atto una guerra civile che sta decimando un’ intera popolazione? Stiamo parlando ovviamente della Siria. Questo stato si inserisce di diritto nel contesto della primavera araba, corrente di agitazioni e proteste dell’area medio-orientale iniziata nell’inverno 2010 contro i regimi di stampo autoritario/totalitario. I protagonisti del conflitto siriano sono caratterizzati da discrepanze ideologiche e soprattutto economiche: da una parte abbiamo una popolazione civile alla stregua delle forze e dall’ altra forze militari governative guidate dal presidente Bashar Al-Assad,dittatore autoritario. Come potrete ben capire l’ origine del conflitto è di natura politica. Infatti in seguito alle pressanti richieste di maggiori libertà individuali, sociali, politiche (libertà di manifestazione e libere elezioni) le risposte democratiche del regime non sono arrivate al mittente. Il governo non ha voluto compiere un processo di cambiamento istituzionale proiettato verso forme democratiche occidentali Il conflitto risale addirittura a 2 anni fa,( il 15 marzo 2011) esploso per mano di pochi rivoltosi. In poco tempo è divenuto dapprima caso nazionale e in seguito internazionale. L’ instabilità interna ha coinvolto l’ equilibrio degli stati confinanti, quali Turchia, Israele e quelli oltreoceano come gli Stati Uniti. Secondo l’ ultimo bilancio 90.000 persone sono state uccise dall’ inizio del conflitto, tra i quali anche migliaia di donne e bambini innocenti. Numero che potrebbe aumentare vertiginosamente fino a quando non si giungerà ad una proposta istituzionale pacifica. In questo drammatico panorama sono coinvolti Mar Gregorios Ibrahim e Paul Yazigi, due vescovi siriani amici della Comunità di Sant’Egidio. Sequestrati negli ultimi giorni di aprile nei pressi di Aleppo, stavano lavorando per la convivenza pacifica in Siria. L’ appello dei giovani della pace è chiaro: chiediamo che la comunità internazionale intervenga affinché i due vescovi vengano liberati e non solo. Auspichiamo che il conflitto siriano giunga al termine dopo anni di inutili e sanguinose lotte. Il nostro appoggio incondizionato va sicuramente alla popolazione siriana, da troppo tempo schiacciata dal terrore del corpo statale. La democrazia è un diritto e va tutelato. Come potremmo rimanere indifferenti quando anche una sola persona non sarà libera dalla guerra e dalle ingiustizie sociali? Fabio Lazzari
Ci siamo!!! Finalmente il 25 maggio, il gran finale del music contest “Play Music Stop Violence” promosso dai Giovani per la Pace L’appuntamento è per sabato 25 maggio alle 17 alla Sala Sinopoli, Auditorium Parco della Musica, ingresso gratuito. Un concerto a più voci, con dieci band selezionate fra trentadue gruppi musicali di Roma e non solo, per un totale di 200 giovani artisti, che hanno partecipato alle selezioni nei mesi scorsi. I “magnifici dieci” si esibiranno live nella finalissima della terza edizione di “Play Music Stop Violence – Cambia il mondo con la tua musica”, il contest musicale per giovani talenti promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Fondazione Musica per Roma con il sostegno della Camera di Commercio di Roma. Le band partecipano al concorso con brani originali sul tema dell’impegno contro ogni forma di violenza: guerra, razzismo, povertà, all’insegna del motto “Il mondo cambia musica”.
BUKAVU, REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO Da anni la Comunità di Sant’Egidio li accoglie nella casa “l’Arca dell’amicizia” e provvede alla loro formazione professionale E’ dalla crisi del 1994, dovuta al genocidio in Ruanda, che le strade della regione del Kivu si sono riempite di bambini e ragazzi che sono stati chiamati «Maibobo», cioè «ragazzi di strada». In un primo tempo si trattava di minori non accompagnati in fuga dalla guerra, che avevano perso i genitori e si erano letteralmente smarriti, spesso portando con sé traumi dovuti al conflitto. Oggi, a distanza di quasi 20 anni da quei fatti drammatici, il fenomeno dei ragazzi di strada non è finito anzi si è drammaticamente accresciuto, e ogni giorno incontriamo ragazzi di 10, 12 e persino più grandi, che hanno rotto i legami familiari, dormono all’aperto e vagano lungo strade della città in cerca di sopravvivenza, in una società che non si cura di loro e in un mondo sempre più individualista. http://www.santegidio.org/C__un_futuro_per_i_Maibobo_i_ragazzi_di_strada_di_Bukavu.html
“Bisogna conoscere culture diverse, parlare con tutti, anche con i terroristi, e cercare di mettersi sempre nelle scarpe degli altri.” Così esordisce il grande musicista e cantante Peter Gabriel, che, in occasione dell’apertura del summit a Roma tra i premi Nobel per la pace del 2006, ci invita a riflettere su realtà e culture che al giorno d’oggi possono risultare remote ed inaccessibili. L’ex frontman dei Genesis ha cercato nei suoi svariati album solisti (in particolare in “III” e “IV”) di riportare in auge tradizioni e culture differenti affiancandosi artisti appartenenti al mondo africano e non, del calibro di Youssou N’Dour, Yungchen Lhamo e Nusrat Fateh Ali Khan, attingendone le sperimentazioni musicali che in seguito contribuiranno all’evoluzione della cosiddetta “world music”. Come importante esempio che risente degli influssi musicali della “world music” possiamo citare il terzo album solista “III” del 1980. Nel brano “Games Without Frontiers” il testo, ispirato ai giochi senza frontiere televisivi, da una parte dipinge una realtà sociale dove i giochi tra bambini costituiscono la soluzione alla violenza, dall’altra si fa ironico e prelude alla possibile guerra. In “Biko”, inno solenne scritto in memoria dell’attivista politico Stephen Biko, morto nel 1977 nella lotta contro l’apartheid, si può notare come le parole e la musica convergano in un vero e proprio canto africano. L’album “IV”, invece, è uno dei più grandi apporti di Gabriel alle lotte per la libertà e l’uguaglianza, che entra in sintonia con gli analoghi sforzi attivistici di Paul Simon (Simon & Garfunkel) . “Wallflower” introduce il tema dei Desaparecidos, “San Jacinto” confronta la società olistica dei pellerossa con la vuotezza dell’America dei fast food. Inoltre in questo album è esemplare il tentativo da parte di Gabriel di far coesistere le tradizioni musicali della cultura africana (“The Rhythm Of The Heat”) con le nuove tecnologie emergenti (ad esempio il nuovo sintetizzatore “Fairlight”, di lì utilizzato frequentemente dall’artista). Il cantante, che considera la musica una forma di comunicazione universale, vede nella conoscenza reciproca un fattore fondamentale per promuovere la pace nel mondo. Nella canzone “I Have The Touch” Gabriel sottolinea quanto il contatto, non solo mentale, ma anche fisico tra le persone possa risultare essenziale anche nella sua semplicità, e ciò assume il ruolo di un indispensabile gesto sociale (“The pushing of the people / I like it all so much”). L’interesse di Gabriel verso le culture lontane e meno conosciute ha gettato le basi per il movimento WOMAD (“World Of Music, Arts and Dance”), volto a diffondere tramite la musica la conoscenza e i valori di culture lontane e differenti dalla nostra. L’artista ha anche promosso il progetto “Witness”con l’obiettivo di di informare le persone degli abusi subiti tramite la distribuzione di mezzi video-informatici ai grandi attivisti che lavorano in loco. “E’ più difficile negare certe cose se sono state registrate con foto, video o testimonianze” conclude Gabriel al termine della conferenza. Pertanto la musica non solo è in grado di creare una rete umana fatta di popoli e culture variegati,...
La potenza delle immagini degli spari davanti Palazzo Chigi ha penetrato gli schermi delle TV, squarciato gli amplificatori delle radio, bucato le pagine dei quotidiani, insomma: ha travolto ogni mezzo di comunicazione. Sono immagini tristi, preoccupanti e cariche di simboli, indefiniti e pericolosamente interpretabili, che tuonano nel furore di queste rocambolesche giornate e in un gande periodo di crisi umana e economica. In tutto questo torna attuale un tema molto caro ai Giovani per la Pace, il tema della violenza. Sì, perché dopo i fatti di Palazzo Chigi, dopo una domenica che vedeva all’inizio cammino costituzionale il nuovo gioverno, la violenza è tornata a far paura, è tornata a dar traccia di se ma soprattutto e tornata a porci una domanda: cambiare senza violenza è ancora possibile ? Ha ancora senso parlare della necessità di una cultura della non-violenza ? Tutte domande che i Giovani per la Pace da tempo si pongono e pongono all’interno delle scuole, delle università e attorno alle quali spesso hanno invitato a ragionare. Il tema della violenza non è mai uscito fuori di scena, anzi si è rivelato assai presente e ha preso le somiglianze di un uomo disperato, con una crisi familiare alle spalle – legata al gioco di azzardo – e al dramma di arrivare alla fine del mese: elementi che ognuno di noi riscontra quotidianamente nell’amicizia con tanti uomini e tante donne in difficoltà. Potremmo dire, addirittura, che l’uomo di ieri poteva essere uno dei nostri tanti amici che spesso bussa alle nostre porte chiedendoci un aiuto. Il rumore degli spari ci fa riflettere e ci aiuta comprendere come quel “NO ad ogni violenza”, un concetto ribadito sempre con forza dai Giovani per la Pace, non è affatto fuori dalla storia e dal tempo che stiamo attraversando. La cultura della non-violenza, l’obbiettivo di cambiare tutto ma senza violenza, dunque, non è solo un’idea bella o qualcosa di condivisibile ma qualcosa di necessario. Diffondere la cultura della non-violenza vuol dire essere un argine a quel disagio sociale, a quella rabbia per giorni sempre più duri e faticosi che si avvertono camminando nelle strade dei quartieri, nelle piazze e nelle vie. La disperazione della gente – della gente per bene che ha speso una vita lavorando onestamente e che ha attraversato un mare di sacrifici – diventa qualcosa con cui fare i conti, diventa qualcosa da capire e a cui dare risposte credibili ma soprattutto umane. Urge il tempo di ripensarsi e di ritrovare all’interno delle città, attraverso un confronto serio e costruttivo, nuove risposte capaci di essere inclusive e di costruire alleanze per tutti. Colmare presto il divario tra chi ha e chi non ha, costruire alleanze a sostegno di chi è in difficoltà e costruire spazi di dialogo, di ascolto è il modo concreto con cui iniziare a contribuire ad un percorso di rinnovamento, in tempi di contrapposizione e rabbia. Mbaye Gueye
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