La nostra galleria fotografica si arricchisce di nuove foto. Direttamente da Novara ecco le foto della festa che i Giovani per la Pace hanno organizzato con gli anziani. Buona visione. Clicca per accedere alla galleria
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Verona, Piazza Brà, l’Arena. Migliaia e migliaia di persone ogni anno accorrono nella città di Romeo e Giulietta per assistere all’Opera. Il Rigoletto, l’Aida, la Traviata… le voci di meravigliosi cantanti lirici risuonano nell’antico anfiteatro romano e affascinano gli spettatori che da decenni affollano le gradinate dell’Arena. A pochi passi dalla piazza, un vecchio istituto di riposo dall’aspetto un po’ fatiscente si confonde in mezzo alle case. Lì vivono da qualche anno alcune di quelle meravigliose voci che entusiasmavano gli appassionati dell’Opera e, insieme a loro, professoresse in pensione, umili ferrovieri, operai… È un mondo variegato di uomini e donne anziani, che in modo malinconico, senza più essere chiamati per nome da nessuno, trascorrono gli ultimi anni della loro vita. Assunta, ad esempio, rimaneva per ore affacciata sulla strada, nella speranza che qualcuno venisse a trovarla; trascorreva così le sue giornate senza però ricevere visite da nessuno. In questo luogo di solitudine, da circa un anno, vengono in visita i Giovani per la Pace. Forse Assunta, quando ci ha visti arrivare per la prima volta, avrà pensato che la sua attesa, finalmente, era stata esaudita… Non aveva pensato, forse, che non si sarebbe più liberata di noi! Pubblichiamo qui i pensieri e le emozioni di Silvia, dei Giovani per la Pace, che racconta la straordinaria amicizia che, insieme ai suoi compagni, vive da quasi un anno con gli anziani. “Ciao, ti va di andare a fare un giro insieme questo pomeriggio?” “No scusa mi dispiace…i miei amici anziani mi aspettano!” È quasi un anno che frequento i Giovani per la Pace e dialoghi come questi, con i miei amici, si verificano settimanalmente e in molti si chiedono dove io trovi la forza e la voglia di andare in istituto… sinceramente non lo so nemmeno io! C’è qualcosa di magico nel viso di questi miei nonni adottivi, qualcosa di cosi grande da non poter essere spiegato con le parole. Solo chi lo prova può capire l’amore che si nasconde dietro questi anziani che spesso non si ricordano quello che hanno fatto la mattina ma non si dimenticano mai dell’amicizia nata fra noi! Ho provato a mettermi nei panni di un estraneo che vede questi giovani che passano i loro pomeriggi in un istituto fra un bastone e una carrozzella e mi rendo conto quanto sia difficile comprendere… ma a me non interessa, a me interessa amare questi anziani e cercare di farli uscire, anche solo per poche ore alla settimana, dalla loro prigione di solitudine! Poi lo so… ciò che io faccio per loro non sarà mai gran de quanto quello che loro donano a me, e per questo non finirò mai di ringraziarli!! GRAZIE ANZIANI! Silvia, dei Giovani per la Pace di Verona
“Ma che cosa posso fare io?”, “Faccia il ladro, è molto più onesto!” Visita a Fossoli per la Giornata della Memoria
RedazioneI Giovani per la Pace di Parma hanno deciso di visitare il Campo di Prigionia di Fossoli, in provincia di Modena, luogo di transito, nel 1944, di circa cinquemila deportati, di cui la metà ebrei, verso i campi di sterminio nazisti. Hanno preparato un reportage che volentieri pubblichiamo. E’ il campo in cui sono transitati Primo Levi e Nedo Fiano due scrittori le cui pagine ci hanno riportato indietro in quegli anni, in cui tante storie di uomini e di donne venivano segnate tragicamente dalla deportazione e dalla morte. Il freddo intenso di oggi ci ha fatto capire come deve essere stato duro dormire in quelle baracche, dotate sì di una stufa, ma senza legna, perché cominciava a scarseggiare. Poco cibo, freddo, umidità; soprattutto lo spettro della partenza nei convogli ferroviari verso la Germania con pochissime speranze di tornare indietro: era questa la vita degli uomini e delle donne passati da Fossoli. E’ stato particolarmente toccante leggere, durante la visita, la descrizione dell’ultima notte di Primo Levi a Fossoli: «Il 21 febbraio 1944 gli ebrei di Fossoli sanno: domani saranno tutti deportati. Dove non è chiaro, però il consiglio che ricevono è di prepararsi a quindici giorni di viaggio. Non c’è niente da fare, né da discutere: per ognuno che fosse mancato all’appello ne sarebbero stati fucilati dieci, gli ordini sono ordini. Nelle baracche, quella notte trascorre in un collettivo, allucinante, addio alla vita. Chi invoca il Kadòsh Baruch hu, il Signore Benedetto Egli sia, chi si ubriaca e si abbrutisce, chi si lascia andare preda della disperazione, chi cerca nell’oblio della passione l’ultimo conforto. Le madri vegliano fino all’alba, frenetiche e premurose, mettendo insieme il necessario per la partenza: preparano le valigie, lavano accuratamente i bambini, fanno il bucato, cucinano focacce, raccolgono fasce, giocattoli, cuscini. Stanno perdendo se stessi, stanno abbandonando l’esistenza terrena; qualcuno si dedica al lutto secondo la tradizione ebraica. Scalzi, le donne con i capelli sciolti, le candele dei morti accese e sparse per terra un poco ovunque, pregano e piangono. Il campo si riempie di fantasmi folli. La mattina del 22, dopo un interminabile elenco, nome per nome, quando la lista della morte è stata controllata nei dettagli e i circa seicento «pezzi» sono tutti presenti e regolarmente registrati, Primo Levi e gli altri vengono spinti dai fascisti su alcuni camion delle SS che li devono trasportare da Fossoli alla stazione ferroviaria di Carpi. I tedeschi fanno da scorta, bastonanno col calcio del fucile quelli che si attardano, che camminano lenti, che si fermano ad aspettare un parente o un amico. Lo shock delle percosse è immenso. Allora è proprio vero, è come ai tempi dei pogrom zaristi, delle persecuzioni papaline, dei roghi dell’Inquisizione. La memoria corre alle umiliazioni millenarie subìte dal Popolo di Dio. Il prigioniero Levi guarda uno dei gendarmi, un emiliano dai lineamenti regolari, e gli dice: “Si ricordi di quello che sta vedendo, si ricordi che lei ne è complice, e si comporti di conseguenza”. L’uomo, con l’espressione del viso impietrita dal terrore, lo accompagna a prendere un po’ d’acqua, preziosa, alla fontanella che sta all’inizio dei binari. “Ma che cosa posso fare io?” chiede con voce...
Piazza Maidan. Questa piazza forse sconosciuta a molti, oggi è il “campo” (questo termine ci servirà successivamente) in cui l’Ucraina gioca la sua sfida per un futuro stabile, un futuro di pace. Sì, pace. Una questione che a noi europei dell’Unione suona forse un po’ strana se non addirittura carica di un certo sentimentalismo forviante e approssimativo ma che, parlando con chi vive in Ucraina, assume tutta la sua pregnante attualità. I fatti che avvengono in Ucraina possono apparire lontani, una questione meramente interna, tuttavia – ed è opinione di chi scrive – gli scontri della “Piazza dell’Indipendenza” sono qualcosa che ci riguarda da vicino. Sono le otto di sera, dalla nostra sede una video-chiamata mette in contatto un giovane studente e una giovane laureata in giornalismo di una città a cinquecento chilometri da Kiev. “Con il blog vogliamo diffondere una cultura nuova, la violenza in Ucraina ci stupisce…”: così ha inizio una conversazione che porterà a comprendere che la “voglia di violenza si sente nell’aria” in Ucraina. Procediamo con ordine. Tutto ha inizio con “L’accordo di associazione Ucraina e Unione Europea“. Un accordo, nato da un negoziato intrapreso nel 2008, che avrebbe dovuto portare a tre obbiettivi riassumibili in: vantaggi di natura economica con l’integrazione dell’economia ucraina nel mercato unico libero europeo; un “allineamento” agli standard europei in materia di libertà e diritti (alla luce soprattutto del caso Tymosenko e delle leggi liberticide emanate dal Governo di Kiev); ed infine, nell’ottica delle politiche europee di vicinato (PEV) con gli stati europei orientali, la creazione di un esempio importante di “integrazione” tra Ue e paesi terzi. Un accordo che avrebbe aperto una prospettiva europea per Kiev. Una prospettiva. Non la certezza di entrare in tempi brevi in Europa ma quantomeno l’avvicinarsi a questa possibilità: una “long walk to Europe” che per gli ucraini è diventata una battaglia, “una scelta tra bianco e nero”. Sì, una “previsione” di lungo percorso che è diventata uno slogan che non tiene conto di metafore, perifrasi e altre figure retoriche necessarie al fine di costruire un discorso. Uno slogan in fondo si presenta così, con la sua forza mistificante che, unita al malcontento, sfocia nell’impazienza e nella violenza come antidoto all’impossibilità di raggiungere un risultato immediatamente tangibile. A Kiev e nell’Ucraina occidentale – libera dall’influenza russa, a differenza di quella orientale – la mancata sigla dell’accordo, tanto promessa dalla classe politica quanto attesa dalle persone, ha tradito le aspettative su un cammino che avrebbe portato in Europa nei dieci anni successivi. La data in cui la speranza degli ucraini viene tradita definitivamente è quella del 29 novembre 2013, a Vilnius, in Lituania. La sede è quella del Summit del Partenariato Orientale Europeo, dove il presidente Viktor Yanukovych non firma il documento di associazione, senza destare sorpresa tra osservatori e cittadini ucraini. Gli interessi di Mosca su uno snodo geopolitico di grande importanza, quale è l’Ucraina, avevano già da tempo segnato l’esito negativo della vicenda. Continuano così le manifestazioni che se prima del 29 novembre,...
Noi Giovani per la Pace siamo un movimento di giovani legato alla Comunità di Sant’Egidio. Siamo ragazze e ragazzi concretamente impegnati a migliorare le nostre città e scuole diffondendo una cultura della pace e della solidarietà a partire dai poveri, dai bambini, dagli anziani, da chi è solo senza una casa. Avvertivamo da tempo un forte desiderio di costruire un blog dove tutti potessimo idealmente incontrarci e condividere le nostre emozioni. Un luogo dove poter parlare di temi attuali, “impegnati” o “leggeri”, divulgare una notizia, per fornire uno spunto di riflessione o per porre l’accento su argomenti talvolta trascurati, come la povertà, le guerre, la carità, la straordinaria possibilità che ognuno di noi ha di aiutare gli altri. Nell’antica Grecia, le questioni importanti venivano discusse nell’agorà, la piazza. Anche noi dobbiamo fare di questo blog un’agorà, una “Città di tutti”, in cui confrontarci. Un luogo fatto per distribuire ideali, speranze, sogni, raccoglierli tutti in un paniere come offerta alla società, come il pane del futuro e del futuro in mano ai giovani, a noi giovani di pace. Questo blog, ora rinnovato nella sua veste grafica, vuole servire questa causa, vuole parlare al cuore della gente, lasciarsi contagiare, condividere le vite di tutti, tuffarsi nell’umanità. Le idee nuove necessitano di spazio. Il mondo, anche questo sofferente e complicato mondo, ha bisogno di nuove sfide. Ha bisogno di ritrovare la speranza, di capire che si è veramente felici solo quando si ha il coraggio di credere nei propri sogni, solo quando ci si dà da fare ogni giorno nel progetto di un mondo migliore. E questo perché ognuno di noi ha una stella da seguire, e questo perché, citando Gandhi, “Dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere avvenire nel mondo. Dobbiamo scoprire il progetto che siamo chiamati ad essere e poi realizzarlo con fatica nella vita.”
“Cari ragazzi e care ragazze”. Ecco come Tamara Chikunova., fondatrice dell’associazione “Madri contro la pena di Morte e la Tortura”, apre l’incontro del 28 novembre nell’aula magna dell’Università Lateranense. Si rivolge a un pubblico di 1600 studenti, come una mamma, e in effetti è così che la chiamano i suoi amici condannati a morte. Una storia di rabbia, di violenza ma soprattutto di grande perdono, il perdono che ha dato a Tamara la grinta necessaria per cominciare la sua lotta contro la Pena di Morte. Perché perdere il sonno per un condannato a morte? La sua storia comincia il 17 aprile 1999, in Uzbekistan, con l’arresto del figlio Dimitrij, condannato a morte per un delitto che non aveva commesso. Troppi sono stati gli insulti e le violenze – fisiche e psicologiche – che Tamara ha dovuto subire per tentare di salvare Dimitrij. Quella del figlio è stata infatti una condanna avvenuta con uno sporco ricatto, con una confessione falsa da firmare davanti a se e la cornetta del telefono vicino l’orecchio, con cui poteva sentire le grida della mamma picchiata dai poliziotti. Così ha inizio il processo. Sin dall’inizio dell’udienza il giudice mette in chiaro che Dimitrij sarebbe stato condannato a morte. La sua sorte, ormai, era già stata decisa. Persino l’avvocato della difesa di Dimitrij firma dichiarazioni contro di lui. Tre giorni dopo, la notizia è resa pubblica: Dimitrij Chikunova Condannato a morte per omicidio. I momenti per parlare col figlio sono pochi, circa un incontro al mese. Il 10 luglio 2000 Tamara va a trovare Dimitrij in carcere, ma l’incontro non avviene: quella mattina, infatti, suo figlio è uscito di cella per la sua esecuzione. Da quel giorno ha inizio la guerra di Tamara contro la società disumana dell’Uzbekistan e del mondo intero. E’ così che è nata la sua associazione, insieme ad altre donne coraggiose e “piccole” come lei che hanno voglia di umanizzare il nostro mondo. Perché, si chiede Tamara, questa crudeltà contro suo figlio? Perché dio l’ha voluta punire? E poi l’incontro con la Comunità di Sant’Egidio e con don Marco. “ Devi perdonare tutti”, le dice. “Avevo un problema” confida Tamara. “Non dormivo. Per mesi era come se avessi una sete dentro di me. Era la sete di vendetta. La vendetta è una cosa tremenda, ti distrugge dall’interno: non ti fa dormire, non ti fa vivere”. E come darle torto? Dopotutto la pena di morte ricorda molto una vendetta. Forse è per questo che uno stato che utilizza la pena capitale non è in grado di mantenere un ordine tra i cittadini e presenta un enorme tasso di criminalità. E’ la vendetta che si respira nell’aria, che viene promossa dalla legge. Se lo stato per primo commette un omicidio, come fa a dare l’esempio al cittadino? “ Mi dissero di perdonare” rivela Tamara. “ E ho perdonato tutti. Ho perdonato coloro che hanno picchiato e ucciso mio figlio. Ho perdonato anche quegli amici che dopo la morte di Dimitrij mi avevano abbandonata. E...
In occasione dell’importante iniziativa “Città per la vita” della Comunità di Sant’Egidio molti giovani italiani hanno avuto la possibilità di incontrare persone eccezionali. Nei prossimi giorni racconteremo alcuni di questi incontri.Iniziamo con un post scritto dagli studenti del Liceo Labriola di Ostia sull’incontro con Shujaa Graham avvenuto il 3 dicembre nella sede della Comunità di Sant’Egidio di Ostia a cui hanno partecipato più di 300 studenti da diverse scuole del quartiere. Gli ultimi cinque anni benchè fuori dal carcere erano stati tormentati a parte qualche breve sprazzo di felicità. Dopo il braccio della morte aveva confessato diverse volte di desiderare di non essere mai nato e di aspettare con ansia il trapasso. Poco dopo il proscioglimento, la sorella Annette lo aveva visto davanti alla finestra della cucina come in trance. Ron le aveva preso la mano e le aveva detto :<< Prega con me, Annette. Prega il Signore che mi prenda adesso>>. (John Grisham, l’Innocente. Tratto dalla storia vera di Ron Williamson per anni detenuto nel “Death Raw”, rilasciato 5 giorni prima della condanna). Questo non è il caso di Shujaa Graham. Shujaa nasce a Lake Providence in Louisiana nel 1951. Da ragazzo si trasferisce a Los Angeles dove entra a far parte di una gang di criminali, per sentirsi forte, protetto, migliore, sicuro. Passa la sua adolescenza in riformatori e a 18 anni viene trasferito nel carcere di Soledad prison. Mr. Mohammed, un amico quarantacinquenne che conobbe dentro la prigione, gli insegnò la storia lo educò e proprio nel carcere cominciò a combattere per i diritti umani appoggiando le tesi di Malcom X e Martin Luter King. Venne accusato di aver ucciso una guardia carceraria. D’altronde accusare un afroamericano che lottava per i suoi diritti, era comodo a molti.Iniziarono i processi, la condanna; iniziarono gli anni nel Death raw (braccio della morte). Commosso, Shujaa ci racconta dei pestaggi ricevuti dalle guardie carcerarie, prima in un ascensore per 5 minuti poi in una stanza dove 12 guardie lo hanno picchiato per 30 minuti. Non pensava sarebbe sopravvissuto. Ma Shujaa voleva vivere con tutto se stesso, non ha mai pensato al suicidio; come si fa a non pensare di riottenere la libertà e di smettere di soffrire quando vieni torturato, picchiato, annullato, quando vivi per tre anni in una cella di più o meno due metri quadrati dove il massimo movimento consente l’apertura delle gambe? Dopo undici anni nel braccio della morte venne rilasciato. Shujaa è stato annullato di un’identità,privato di ogni diritto. Dopo la condanna a morte, Shujaa venne privato della vita. Poi arrivò quel Marzo 1981. Venne liberato, di colpo un uomo annullato viene costretto a portare il peso della libertà sulle spalle che grava come un macigno. Shujaa voleva vivere con tutto se stesso,ma non è facile per niente riabituarsi alla vita. Non ho mai conosciuto uomo più libero, ho pensato uscendo dalla conferenza tenutasi il 3/12/2013. La libertà è un diritto. Credete tutti di avere diritto alla vita? Non è così. L’uomo si crede creatore, toglie la vita...
Pubblichiamo l’articolo di Matteo sulla mostra La crisi / Le crisi, esposta di recente a Roma Tre. L’articolo è stato pubblicato su Trevolution, rivista di Studenti alla Terza. Dal 18 al 22 novembre 2013 i Laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio hanno esposto dipinti, installazioni, video-opere e testi presso il dipartimento di Giurisprudenza. La mostra, intitolata “La crisi/Le crisi”, ha presentato opere di persone con disabilità, invitando gli studenti e i docenti di Roma Tre a votare la loro opera preferita. Esodo, lavoro collettivo Attraverso diverse forme espressive le persone con disabilità hanno comunicato in maniera efficace il loro pensiero e il loro sguardo sulla realtà. Ne è emersa una lettura originale dell’attuale crisi economica, ma anche un’analisi di tante altre situazioni di “crisi” – culturale, sociale, esistenziale – che gli autori delle opere descrivono senza indulgere al pessimismo. Al contrario, il loro modo di guardare la realtà è spesso percorso da una vena giocosa e (auto)ironica. È il caso dell’installazione di Daniela Perri dal titolo Dopo la crisi. Liquefatta, che si è aggiudicata il secondo premio della giuria popolare: in quest’opera l’artista ha giocato sulle sue crisi (epilettiche), auspicando una possibile ed emergenziale via di fuga. Senza negare le difficoltà che le situazioni di crisi creano o acuiscono anche nel nostro paese (come in La crisi alimentare di Maria Grazia Galleoni, quinta opera più votata), le persone con disabilità non mancano di provocare nell’osservatore la sorpresa per il modo diretto e anticonformista di prospettare possibili soluzioni. Il primo premio è stato assegnato all’installazione Esodo, lavoro collettivo del Laboratorio d’arte della Comunità di Sant’Egidio (nella foto). Gli artisti hanno voluto rappresentare la crisi che ha percorso negli ultimi anni tanti paesi africani, spingendo migliaia di persone a rischiare il viaggio attraverso il Sahara e il Mediterraneo, alla ricerca di un approdo in Europa. La simbologia giudaico-cristiana richiama la necessità di approfondire le radici culturali e spirituali per rinvenire le risorse per uscire rinnovati dalla crisi. Una delle artiste con disabilità, Hirseyo Tuccimei, che è nostra collega a Scienze della Comunicazione, ha scritto nella poesia “Tutto può cambiare”: “Piuttosto conviene sperare per gli altri che amareggiarsi per sé / Piuttosto conviene accogliere i profughi che rimanere egoisti / Piuttosto conviene fare il piccolo passo alla nostra portata che aspettare il salto in avanti impossibile / Piuttosto conviene impegnarsi ogni giorno che stare a guardare / Piuttosto conviene provare a lottare che unicamente lagnare”. Sì, tutto può cambiare. Se l’impegno dei singoli viene condiviso e diviene progetto comune. Se l’università sa cogliere le sollecitazioni che vengono dall’esterno e non si chiude nei suoi problemi. Se la solidarietà non si limita ad offrire soluzioni episodiche e diviene il modo normale di affrontare le difficoltà di tutti. Matteo Cavicchioli, Giovani di Sant’Egidio (fb) Puoi visitare virtualmente la mostra accedendo a questa galleria: clicca qui.
A partire da inizio settembre a Milano hanno iniziato ad arrivare consistenti gruppi di profughi in fuga dal conflitto che infuria attualmente in Siria. Milano, tuttavia, non sembrava essere la destinazione finale, ma solo una città di passaggio per raggiungere la vera meta: l’ Europa del Nord. Poiché le autorità inizialmente non si erano accorte dell’urgenza della situazione e non avevano adottato alcuna misura, gruppi di giovani con la Comunità di Sant’Egidio si sono recati in stazione centrale. L’allarme era arrivato dall’associazione dei “Giovani Musulmani”, ragazzi e ragazze di seconda generazione che già da settembre incontravano i profughi in stazione e li proteggevano da coloro che tentavano di approfittarsi della loro disperazione. Le famiglie dormivano per terra sui mezzanini della stazione e il loro bisogno di partire li portava persino a risparmiare sul cibo. Studenti del liceo classico Carducci venuti a conoscenza della grave situazione, si sono mobilitati per prestare aiuto, alcuni raccogliendo coperte e vestiti pesanti a scuola durante il giorno, altri di sera recandosi in stazione per distribuire beni di prima necessità, e ascoltare le loro storie! Dopo alcune settimane il comune ha allestito per i profughi centri di accoglienza dove possono soggiornare prima di ripartire. Noi siamo andati due domeniche di seguito a trovarli per capire meglio che cosa avevano passato in Siria e per farli sentire un po’ meno soli e dimenticati in un paese straniero. Ci ha molto colpito la storia di Alì, un giovane siro-palestinese di 17 anni, scappato da Damasco. Ci ha raccontato che nella capitale il suo quartiere era stato assediato, la sua scuola bombardata ed era impossibile viverci. Tuttavia, come tutti, Alì non avrebbe mai voluto lasciare il suo paese, ma si è trovato costretto a causa della situazione. Molti, come lui, sono doppiamente profughi: scappano, infatti, dai campi profughi palestinesi sorti in Siria dal 1948. Noi ci auguriamo che Alì e tutti gli altri profughi riescano a raggiungere la meta che desiderano senza correre il rischio di essere bloccati alle frontiere!
La potenza del tifone Haiyan è arrivata a noi con la notizia straziante della lunga scia di morte che si è lasciato dietro. Con la sua furia, il tifone Yolanda (così lo chiamano nelle Filippine ndr) si è abbattuto in Micronesia, Vietnam, Cina e, in modo particolare, sulle Isole Filippine. Dal Sud-est asiatico sogni, speranze, fatica e sacrifici di una vita sono stati spazzati via in un niente: gettando un popolo nell’abisso della disperazione. Genitori che hanno perso i propri figli, bambine e bambini orfani, legami spezzati dalla forza distruttrice del ciclone. Non un semplice fenomeno naturale, nel Pacifico si verifica qualcosa di più particolare: nel Pacifico il male opera nella storia e segna tragicamente il cammino di un popolo. Un fatto, drammatico, che ha subito interrogato i Giovani per la Pace spingendoli a fermarsi per pregare insieme agli amici della comunità filippina a Catania e nei piccoli centri di Riposto e Francofonte. Nella sofferenza nessun popolo, nessuna nazione, nessun uomo può essere lontano dal cuore dei giovani della Comunità di Sant’Egidio. Da qui la necessità di pregare per estendere un abbraccio ai popoli colpiti da Haiyan, lontani geograficamente ma più vicini a noi grazie agli amici filippini che da diversi anni vivono in Sicilia e ancor di più grazie al volto di Dio che abbiamo davanti nella preghiera. La preghiera dei Giovani, è diventata l’occasione per accogliere e incontrare quanti erano spaventati e colpiti dalla tragedia e per alleviare il senso di impotenza che tanti hanno avvertito nel momento della catastrofe. Davanti ad un male così grande e così terrificante si è trovata una risposta nella forza debole della preghiera, dove tutti troviamo sentimenti nuovi e parole di consolazione. L’amicizia, per i Giovani per la Pace è dunque consolazione, l’amicizia è interessamento per le vicende umane, per i drammi vissuti da tanti, anche lontano da noi. Per questo nella preghiera gli amici della comunità filippina hanno trovato conforto. Sono proprio loro a dire “Grazie per questo invito alla preghiera: siamo entrati in questo affetto e in questa generosità”. Le loro parole ci confermano nuovamente come un amore gratuito verso gli altri edifica e costruisce ed è in grado di arrivare là dove le nostre forze incontrano un limite. Un’amicizia disinteressata e orientata all’altro genera stupore e si muove in direzione opposta a quello che normalmente accade, si muove in direzione opposta all’indifferenza: “non ci aspettavamo tutta questa vicinanza” ci hanno detto. Ma la preghiera ha anche liberato energie positive interrogando e spingendo tutti a vivere una dimensione più ampia del noi. Con la preghiera insieme ai giovani amici filippini si è aperta una pagina nuova, allargando l’orizzonte dei Giovani per la Pace e spingendoci a comprendere che è necessario un interessamento di ciascuno alla sofferenza di tanti vicini a noi, nelle nostre città proprio perché tutti hanno diritto ad essere consolati. Allora sulle belle preghiere di Catania, Torre Archirafi e Francofonte si potrebbe concludere dicendo che alleviando il dolore dell’uomo o della donna vicino, migliaia attorno a questi...
“Sono italiano! Sono africano! E, come vedete, sono nero! E sono fiero di essere quello che sono. Ma soprattutto sono un essere umano!” Cosi apre la sua testimonianza Maurice, ventiseienne della Costa d’Avorio, sopravvissuto alla traversata del deserto del Sahara, ad un naufragio e giunto a Lampedusa; sorte fortunata, o oseremmo dire, benedetta , rispetto ai tanti immigrati che purtroppo in questi giorni ci hanno lasciato. Con queste parole sincere e coraggiose si apre il secondo appuntamento di “Parole di uomini, Parola di Dio”, organizzato dalla comunità di Sant’Egidio, che ogni mese si incontra per discutere sul valore di alcuni temi secondo le scritture e la nostra esistenza da uomini. Oggi vedremo come alla parola ODIO/INIMICIZIA si possa rispondere “ Facendo il bene” e “Riconoscendoci tutti fratelli, perché figli di uno stesso padre”. “Noi stranieri dobbiamo ringraziare l’Italia perché ci ha accolti” – ribadisce Maurice, ricordando quei 3 lunghi giorni di interminabile cammino nel deserto, mentre era costretto a lasciare sulla sabbia, stremati, tanti compagni di viaggio – “Molti non ce la fanno. Durante il viaggio vedi ai tuoi lati corpi umani, ma non puoi fermarti, devi andare avanti se vuoi sopravvivere”. Racconta ancora di come, dopo 2000 km, si sia visto proporre per la grande traversata una piccola barchetta trasandata di circa 250 posti, mentre lui e i suoi compagni di viaggio, erano più del doppio: “Quando arrivi lì devi per forza salire! Sono armati!”. Conclude sobriamente e umilmente il suo “esodo” raccontando dell’arrivo a Lampedusa e della felice accoglienza che ha ricevuto dalla Caritas di Frosinone.“Dio mi ha fatto conoscere molte persone buone!” – cosi risponde ai tanti amici che gli domandano come faccia a vivere con delle persone che “lo insultano, lo picchiano, lo discriminano” (gli italiani). “Mi piace l’Italia perché non posso lamentarmi! Però è ancora dietro al razzismo!” – Inizia, allora, un accorato appello ai tanti universitari operanti nella comunità presenti in aula, perché è dai giovani che le cose devono cambiare – “Non sono sporco, sono nero! Sono una creatura di Dio! Se dici cosi allora anche Dio deve essere sporco!” – “Tu credi in Dio? E non ami suo figlio perché è nero?” – “Se io vi dessi per un solo giorno la mia pelle, non ve lo scordereste mai per quello che vivreste!”.La sua testimonianza è sincera, umile e si estende anche al tema dell’interculturalità e all’apertura alle altre culture, viste come ricchezza: “Dovete togliervi dalla testa che siete superiori ai neri e che gli altri non possono insegnarvi niente!” – afferma con rammarico, lui che ora è allenatore di calcio ai bambini di Strangolagalli, la cittadina in cui ora vive felicemente. “Dovete approfittare delle altre culture; solo cosi potete accrescere le vostre conoscenze” – “Rispetto e un po’ di affetto! Solo questo chiediamo noi stranieri! Devi dirci che tu sarai la nostra famiglia!”.La sua è una fede forte, e ce lo dimostra rispondendo al tema ODIO, con la parola PERDONO: “Ho imparato a perdonare, ho imparato a pregare, ma non imparerò mai a fare finta di essere ciò...
Oggi parleremo di un argomento che a noi Giovani per la Pace sta a cuore perché alcuni di noi sono stati in Mozambico, perché ventuno anni fa la pace è stata raggiunta grazie all’impegno della Comunità, perché in Mozambico ci sono circa 100 comunità tra città e realtà locali, perché l’amicizia con questo paese è nata proprio sul tema della pace e ci ha aperto il cuore sull’Africa. Parlo di Mozambico, però, perché sono preoccupata. La Frelimo e la Renamo si sono combattute per quasi vent’anni in una sanguinosa guerra civile, finché la Comunità di Sant’Egidio, non ha deciso di porsi come mediatore, riuscendo a raggiungere dopo 2 anni di trattative la pace. A seguito dei Trattati di Roma (4.10.1992), l’esercito è stato unificato e in Mozambico si sono tenute elezioni libere e democratiche, che hanno portato al potere la Frelimo, mentre la Renamo riusciva a ottenere delle vittorie politiche locali (soprattutto nel nord del paese). La democrazia ha permesso che il Mozambico divenisse uno dei paesi più ricchi ed emergenti dell’Africa, meta di turisti, ma anche di tanti profughi che fuggono dalle guerre e dalla povertà. Dai giornali ho appreso che il 21 ottobre l’esercito ha attaccato la base della Renamo a Gorongosa, dove il capo del partito, Afonso Dhlakama, era rifugiato da circa un anno e da cui è fuggito verso un luogo ignoto. Sta bene, secondo le dichiarazioni di alcuni giornalisti del giornale mozambicano O Paìs, che l’hanno incontrato, così come sta bene la popolazione, fuggita prima dei bombardamenti. Ho quindi letto su diverse testate che Afonso Dhlakama non riconosceva più i trattati di Roma, per poi leggerne l’esatto contrario circa quattro giorni dopo (il 25 ottobre). Ho pensato, allora, di parlare con qualcuno che è continuamente in contatto con il Mozambico e i Mozambicani, per avere un’immagine più chiara della situazione; pertanto, ho intervistato la professoressa Chiara Turrini, responsabile della Comunità di Sant’Egidio in Mozambico. Redattore: Dai giornali italiani abbiamo letto dell’attacco del governo alla base della Renamo, ma è scoppiata così improvvisamente la tensione o c’erano già dei presupposti? Chiara Turrini: Sì, dei presupposti c’erano già perché la Renamo ha chiesto di cambiare la legge elettorale in vista delle elezioni municipali che ci saranno e il 20 novembre e le nazionali che ci saranno il prossimo anno e purtroppo non hanno trovato un accordo sulla riforma della legge elettorale. Si erano create da alcuni mesi due delegazioni, una del governo e una della Renamo, per provare a fare un tavolo di dialogo ma purtroppo non è stato trovato l’accordo, fino a che sono cominciati… Degli incidenti c’erano già stati dopo Pasqua di quest’anno nell’ultimo tratto di autostrada, che è la strada principale che collega il Nord con il Sud, vicino a Beira. R: Quali potrebbero essere le cause delle tensioni? Sono semplicemente politiche o c’entrano anche i giacimenti di gas recentemente scoperti? CT: In Mozambico hanno trovato molte ricchezze naturali negli ultimi anni, il carbone, il gas… Io penso che sì, ha a che...
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