Povertà, disuguaglianze e globalizzazione
A #pontidipace2018 le riflessioni sulle contraddizioni dello sviluppo economico
Un salone pieno, la tavola rotonda, voci internazionali in dialogo. Questo lo scenario che stamattina ha illuminato l’Oratorio di San Filippo Neri in via Manzoni a Bologna, tra analisi delle ragioni delle disuguaglianze e ricerca di punti fermi.
Per prima prende la parola Katherine Marshall, direttrice esecutiva del World Faiths Development Dialogue, USA, concentrando l’attenzione sul focus: “C’è tanta confusione attorno alla tematica delle disuguaglianze. Il concetto di disuguaglianza è buono o cattivo? Etico e non? Alcuni sostengono che la disuguaglianza è generatrice di tensione e competizione, altri sostengono esattamente l’opposto”. Dopo aver introdotto i relatori, passa loro la palla. E così che Bertrand Deroubaix, direttore degli Affari Pubblici della multinazionale “Total”, Francia; Thelma Hernández, leader politico ed ex Procuratore generale del Guatemala; Jean Mbarga, arcivescovo cattolico camerunese; Andrea Segré, agronomo e professore dell’Università di Bologna e l’economista Stefano Zamagni, delineano una conversazione a più voci dai tratti poliedrici, cercando di analizzare il fenomeno nella sua complessità.
Nessuno riduce il concetto di povertà a disuguaglianza. Sin da subito appare chiaro quanto il mondo della globalizzazione abbia determinato una riduzione complessiva della povertà, accompagnandosi paradossalmente ad aumento sproporzionato delle disuguaglianze, sia tra Paesi che all’interno dei Paesi stessi.
Eppure la globalizzazione ha apportato dei vantaggi per parte della società moderna, come tenta di affermare Deroubaix. A partire da quello di poter crescere e creare nuovi posti di lavoro o muoversi da un emisfero all’altro del pianeta in men che non si dica. Come tutti i processi della storia socioeconomica, possiede alcuni pro e almeno altrettanti contro. Allora probabilmente la chiave del problema è insistere sui contro, cercando di estirparli alla radice.
Si riflette su tematiche centrali quali la trasparenza dei movimenti economici, la sempre-in-agguato corruzione, la ricerca di governance, la strada verso il Bene comune.
“Siamo molto potenti, ma questo rafforza ancor di più il nostro dovere di mettere in pratica pratiche sane”, è così che conclude il suo intervento Bertrand Deroubaix, aprendo le porte del proprio operato alla ricerca di una sana responsabilità. E non di troppo si discosta la linea di Thelma, che insiste nell’invito ad impegnarci tutti per uno sviluppo umano integrale: “L’insieme dei processi di produzione deve adeguarsi alle necessità della persona e agli stili di vita di ciascuno. La lotta alla corruzione è irrinunciabile. Non possiamo permetterci di rimanere spettatori delle nostre reciproche posizioni.”
Allora ha senso incontrarsi attorno alla tavola del dialogo, come noi abbiamo fatto stamattina, contemporaneamente sintonizzati sul canale dell’ascolto intelligente.
Ha senso analizzare i diversi volti della globalizzazione: abbiamo riflettuto insieme su quanto la globalizzazione stia costituendo una minaccia all’internazionalità, a quanto coloro che ne consumano i prodotti vogliano poi andare verso la fonte della produzione, alle contraddizioni che la globalizzazione porta con sé: “Nel nostro Paese spendiamo più per metterci a dieta che per mangiare in modo sano” dice Segré.
Bisogna forse rivedere i modelli di aiuto pubblico allo sviluppo, puntando su un modello che miri alla resilienza dei sistemi pubblici, utilizzando modelli tradizionali che possono essere arricchiti e resi sostenibili dai mezzi innovativi di cui possiamo disporre oggi.
“Non basta l’uguaglianza delle opportunità, non basta mettere tutti sulla linea di partenza. Dobbiamo tendere ad uguagliare le capability. E qual è il ruolo della Chiesa in tutto ciò? Cosa possiamo fare? Creare aziende, non credo. Forse fare vigilanza etica, morale, umanitaria. Non dobbiamo uccidere l’economia, dobbiamo solo aiutarla ad essere più umana.” Cantare un inno alla creatività, per trasformare urbs, città delle pietre, in civitas, città delle anime. È la sfida etica centrale del nostro tempo.
Di Manuela Petino