Ucraina, il racconto di una rivolta: tra la violenza diffusa e il sogno di Pace.

Piazza Maidan. Questa piazza forse sconosciuta a molti, oggi è il “campo” (questo termine ci servirà successivamente) in cui l’Ucraina gioca la sua sfida per un futuro stabile, un futuro di pace.

Sì, pace. Una questione che a noi europei dell’Unione suona forse un po’ strana se non addirittura carica di un certo sentimentalismo forviante e approssimativo ma che, parlando con chi vive in Ucraina, assume tutta la sua pregnante attualità.

I fatti che avvengono in Ucraina possono apparire lontani, una questione meramente interna, tuttavia – ed è opinione di chi scrive – gli scontri della “Piazza dell’Indipendenza” sono qualcosa che ci riguarda da vicino.

Sono le otto di sera, dalla nostra sede una video-chiamata mette in contatto un giovane studente e una giovane laureata in giornalismo di una città a cinquecento chilometri da Kiev. “Con il blog vogliamo diffondere una cultura nuova, la violenza in Ucraina ci stupisce…”: così ha inizio una conversazione che porterà a comprendere che la “voglia di violenza si sente nell’aria” in Ucraina.

Procediamo con ordine. Tutto ha inizio con “L’accordo di associazione Ucraina e Unione Europea“. Un accordo, nato da un negoziato intrapreso nel 2008, che avrebbe dovuto portare a tre obbiettivi riassumibili in: vantaggi di natura economica con l’integrazione dell’economia ucraina nel mercato unico libero europeo; un “allineamento” agli standard europei in materia di libertà e diritti (alla luce soprattutto del caso Tymosenko e delle leggi liberticide emanate dal Governo di Kiev); ed infine, nell’ottica delle politiche europee di vicinato (PEV) con gli stati europei orientali, la creazione di un esempio importante di “integrazione” tra Ue e paesi terzi. Un accordo che avrebbe aperto una prospettiva europea per Kiev.

Una prospettiva. Non la certezza di entrare in tempi brevi in Europa ma quantomeno l’avvicinarsi a questa possibilità: una “long walk to Europe” che per gli ucraini è diventata una battaglia, “una scelta tra bianco e nero”.

Sì, una “previsione” di lungo percorso che è diventata uno slogan che non tiene conto di metafore, perifrasi e altre figure retoriche necessarie al fine di costruire un discorso. Uno slogan in fondo si presenta così, con la sua forza mistificante che, unita al malcontento, sfocia nell’impazienza e nella violenza come antidoto all’impossibilità di raggiungere un risultato immediatamente tangibile.

A Kiev e nell’Ucraina occidentale – libera dall’influenza russa, a differenza di quella orientale – la mancata sigla dell’accordo, tanto promessa dalla classe politica quanto attesa dalle persone, ha tradito le aspettative su un cammino che avrebbe portato in Europa nei dieci anni successivi. La data in cui la speranza degli ucraini viene tradita definitivamente è quella del 29 novembre 2013, a Vilnius, in Lituania. La sede è quella del Summit del Partenariato Orientale Europeo, dove il presidente Viktor Yanukovych non firma il documento di associazione, senza destare sorpresa tra osservatori e cittadini ucraini. Gli interessi di Mosca su uno snodo geopolitico di grande importanza, quale è l’Ucraina, avevano già da tempo segnato l’esito negativo della vicenda.

Continuano così le manifestazioni che se prima del 29 novembre, nella loro prima fase, restavano circoscritte ad una protesta “forte”, “pro Europa”, un’azione di pressione per cambiare la direzione intrapresa; dopo Vilnius ha inizio la seconda fase delle proteste in cui gli ex-manifestanti “pro Europa” chiedono le dimissioni del governo e nuove elezioni. Il Governo davanti alle iniziali manifestazioni pro Europa non è stato in grado di recepire e ascoltare le motivazioni e i desideri della piazza e l’opposizione dal canto suo non è stata in grado di canalizzare questo movimento di protesta in un’azione politica, in una battaglia politica.

L’atteggiamento dell’Esecutivo è duro nei confronti di quella piazza che adesso ne chiede le dimissioni. Le misure emanate, repressive e liberticide, mostrano la determinazione del Presidente Yanukovych, il quale si è detto disposto a tutto pur di mantenere l’ordine. L’operato del Governo di Kiev non aiuta il clima, si assiste a gravi violenze contro i reporter e all’incarcerazione dei manifestanti. La violenza allora attecchisce nei cuori e comincia a diventare il riflesso dell’esasperazione per l’assenza di risultati. Così ha inizio la terza fase della protesta, caratterizzata dagli scontri e da una violenza diffusa. Ci spiega ancora un cittadino di Kiev:

“col tempo la gente è più aggressiva, la voglia di violenza si sente nell’aria. Fa paura vedere la gente arrabbiata, si battono per cose belle ma aspettano la violenza. La gente parla addirittura di guerra”.

Una piazza che nessuno sa leggere, che nessuno riesce a rappresentare, “voi tre partiti, scegliete un leader”, gridava la gente in piazza, questo gridava la gente in piazza il 20 gennaio.

A manifestare inizialmente sono giovani, studenti e disoccupati. In seguito subentrano diverse categorie di cittadini: inoccupati, disoccupati, lavoratori, aderenti ai partiti di opposizione e religiosi. Un movimento largo, che nel “campo” – questo è il nome del presidio nella piazza dell’Indipendenza – vive come una comunità. Le manifestazioni iniziano con una preghiera comune dove greco-cattolici, cattolico-romani e ortodossi del Patriarcato di Kiev si ritrovano, mentre la chiesa ortodossa che fa capo al patriarcato di Mosca mantiene una posizione più defilata. Ed è stupefacente che uomini e donne delle diverse confessioni cristiane scendano in piazza con i loro religiosi. Per un paese in cui l’appartenenza religiosa assume un rilievo cruciale, il fatto che si preghi insieme dimostra come nell’Ucraina occidentale un popolo stia vivendo una primavera, il desiderio di una stagione nuova. La gente dice che bisogna guardare all’Europa per i diritti e per le libertà che in Russia non ci sono.

In questo quadro così complicato e così radicalizzato, trovare una via d’uscita sembra difficile. L’Ucraina non può scegliere completamente per l’Europa e abbandonare i rapporti con la Russia. Ricordiamo che l’Ucraina orientale sente fortemente la vicinanza con Mosca per lingua, cultura e interessi economici delle popolazioni; ma, al contempo, non può legarsi a Mosca fino al punto di danneggiare irreversibilmente i rapporti con Bruxelles.

Forse la pace non si ottiene scegliendo una via piuttosto che un’altra. Viene in mente la metafora dei due polmoni cara a Giovanni Paolo II. In un discorso che rimandava alla “‘nostalgia dell’unione tra le Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente” il Papa polacco diceva:

“il ricordo dei santi Cirillo e Metodio pone davanti al nostro sguardo, come una realtà inseparabile dalla loro memoria, il traguardo della piena comunione che permetterà […] alla Chiesa nuovamente, di respirare con i suoi due polmoni: quello orientale e quello occidentale ed insieme di offrire con efficacia rinnovata all’uomo contemporaneo la verità salvatrice del Vangelo”.

Sì, parole forse troppo ardite, ma che nella sfacciataggine dell’età di chi vi scrive rimandano ad una visione, quella di uno Stato ponte tra Oriente e Occidente. L’Ucraina può forse scegliere la terza via, quella dei due polmoni e ridonare una grande prospettiva ad un discorso forse ormai troppo imbrigliato nelle categorie dei troppo cinici rapporti internazionali. Un sogno, sì, un sogno di Pace che dia nuovo fiato ai polmoni dell’Ucraina che stanno respirando l’aria cattiva della violenza.

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